Franco Loi e la lingua

da | Gen 5, 2021

Per Franco Loi (1930-2021), scomparso ieri, riprendiamo una delle sue ultime interviste, sui rapporti tra italiano, dialetto e letteratura, risalente al novembre 2015 e uscita nel numero 73 di “Nuovi Argomenti”, a cura di Giuseppe Antonelli. Potete leggere integralmente l’intervista, curata da Maria Borio, di seguito.

Franco Loi è uno dei poeti dialettali più significativi del Nord Italia. Oggi il dialetto, soprattutto nella comunicazione scritta, appare un fenomeno linguistico “minore”. Lingua che si apprende e si
sviluppa oralmente, è comune che sia anche del tutto assente dall’esperienza di chi è nato a partire dagli anni Settanta e Ottanta. La letteratura dialettale è una nicchia, il lettore confida in un robusto testo a fronte in italiano che accompagni l’originale in dialetto. Che cos’è per Franco Loi una lingua?

Nel De vulgari eloquentia Dante dice che i romani parlavano una lingua della grammatica (si riferisce al latino), però la vera lingua è quella si impara dalla nutrice e dalle persone circostanti, cioè dal popolo. Perché Dante afferma ciò? Il popolo nel parlare è più attento ai suoni che ai significati. Opinione condivisa da Yeats e da Delio Tessa. Di quest’ultimo ricordo sempre l’affermazione: “il mio maestro è il popolo che parla perché è più attento ai suoni delle parole che ai contenuti apparenti”. Il dialetto, secondo me, è una lingua che non scompare perché il popolo mantiene, per dirla con Dante, la lingua che ha imparato dalla madre o dalla nutrice. In più il popolo ha un’altra dote: quando parla non conosce la grammatica, quando parla inventa la lingua. La lingua, il milanese con cui parlo e scrivo io non è il milanese di Carlo Porta o di Delio Tessa. È il milanese che io ho ascoltato. Il popolo adatta le parole al suo uso, la lingua è una creazione spontanea. Se scriviamo in italiano usiamo una lingua che ci viene dalla scuola, l’italiano è stato inventato, a partire dal Cinquecento, nel Veneto, è una lingua artificiale.

La lingua si può insegnare?

La lingua non può essere insegnata. Il potere politico ha molte responsabilità nel modo in cui ha gestito la diffusione della lingua e ciò che è definito insegnamento della lingua.

Che cosa pensa dell’insegnamento della letteratura?

La letteratura si può insegnare. A partire dalla lettura. Ma la scuola oggi ha molti problemi per quanto riguarda l’organizzazione dei programmi, dei tempi, c’è un affollamento di materie, di indirizzi. Io ho frequentato una scuola superiore di ragioneria, una scuola che non mi piaceva. La scuola dovrebbe coltivare l’uomo, le sue aspirazioni, le sue inclinazioni, i suoi talenti.

La sua opinione della lingua letteraria oggi?

La lingua di cui non si conoscono le regole porta a una libertà straordinaria. Mi interessa riferire un episodio a proposito. Quando partecipo a letture pubbliche di poesia, in Italia, prima leggo il testo in italiano e poi in dialetto, per facilitare la comprensione.  Invece, all’estero, leggo prima in dialetto e poi in italiano e il pubblico percepisce subito non le regole, ma la musicalità, con molta più immediatezza che in Italia. In Italia si cercano prima i significati. All’estero si accoglie prima il suono, secondo la mia esperienza. Così, ad esempio, negli USA, in Grecia, in Portogallo…

Come vede il rapporto tra i lettori italiani e la lingua?

La gente non si aspetta nulla di profondo dalla lingua, purtroppo, ma cerca informazioni.

Una Milano passata per il dopoguerra, il boom economico, il Sessantotto, gli anni di piombo… dove lei ha lavorato per la Rinascente e per la Mondadori, e ha trasformato la militanza comunista in una personale e spirituale idea di libertà e di solidarietà. Forse lo racconta anche il percorso da Stròlegh a Aria de la memoria. Come tutta una generazione di scrittori e di intellettuali che l’industria, per diversi decenni, ha ingaggiato, lei ha vissuto progressivamente la trasformazione della lingua di pari passo a quella del sistema editoriale e mediatico italiano…  

… sì, lo preferivo nel passato, non solo per quanto riguarda i giornali, ma anche per le case editrici. Arnoldo Mondadori, per esempio, era anche esperto di tipografia e mostrava sempre ai neoassunti come lavoravano le tipografie a Verona. Inoltre, bisogna pensare che la seconda guerra mondiale ha portato molti stravolgimenti. Tutti hanno patito la guerra. Mussolini, ad esempio, requisisce le aziende di Mondadori che scappa in Svizzera, e così anche Rizzoli. Poi, nel dopoguerra, ricordo che coloro che dirigevano le case editrici e i giornali, essendo stati bene a contatto con le difficoltà del vivere, avevano un modo di rapportarsi al lavoro piuttosto diverso rispetto a ciò che si vede oggi. Nei posti di dirigenza c’erano persone di questo tipo. Sereni era stato in campo di prigionia in Libia, Pavese è stato in prigione durante il fascismo.

Come descriverebbe i legami tra la lingua degli immigrati di vecchia generazione, quella degli immigrati di nuova generazione e la lingua che oggi si parla a Milano?

Nel mio palazzo, che è stato costruito nel ’48, ci sono tanti cinesi e sul mio pianerottolo c’è una famiglia di filippini. Ma le racconto qualche episodio. Nel 2007 mi trovavo con un amico in centro, in un parcheggio e ci siamo imbattuti in due immigrati, penso africani, che parlavano milanese. Gli ho domandato perché parlassero milanese e uno di loro mi ha risposto: “Perché sto all’Isola e lì si parla milanese”. L’Isola è una zona di Milano. Inoltre, tempo fa prendendo un taxi ho conosciuto un autista fiorentino che parlava milanese. Non avrei mai immaginato che fosse fiorentino. Ma a Milano già nel 1985 il quaranta per cento della popolazione era di origine pugliese, poi venivano i siciliani e i napoletani. I milanesi erano il dieci per cento. Milano è sempre stata la città degli immigrati, la Milano di oggi è stata fatta dagli immigrati. Io sono nato a Genova, mio padre era di Cagliari e mia madre di Colorno, vicino a Parma. E scrivo in milanese.

La sua lingua è istintuale, direi organica, sicuramente totalizzante; lei ha scritto anche in altri dialetti?

Ho scritto in genovese. L’ho imparato da bambino, da mio padre. Ho scritto anche in colornese, che ho imparato da mia madre. E ho scritto anche in romanesco. Poi ho scritto anche in italiano. Ad esempio, l’incontro con Lorenzo Milani l’ho raccontato in italiano.

Potrebbe descrivere con un esempio come agisce la mimesi nella lingua?

La lingua nasce dalla vita, dalle emozioni. Mi ricorderò sempre quando Sereni mi ha portato a Monte Marcello, sul mare, dove c’erano gli osservatori costruiti dai tedeschi, e mi ha detto ‘Guarda’ e poi ‘Cosa ne pensi?’, ‘Bello’ ho risposto, e lui ‘No. Guarda ancora’ e poi ha chiesto ‘Adesso cosa ne pensi?’, e io ‘Ma come si fa a dire cosa ne penso?’, l’emozione era così forte. Poi Sereni ha letto una sua poesia, Un posto di vacanza, che si ispira a quei luoghi, e ho ritrovato la risposta, lui aveva scritto esattamente la mia emozione. Noi spesso crediamo di vivere, ma passiamo tra le cose senza rendercene conto. Tuttavia il nostro inconscio le raccoglie…

… e come vengono trasformate in lingua?

Seguendo l’emozione. Rivivendo la situazione. La lingua ricrea un sogno, una parte dell’inconscio. Quando si scrive si rivive l’emozione, come nel sogno. La poesia si costruisce con il proprio inconscio.

Che cos’è per lei la comunicazione?

La comunicazione è rendere comune una esperienza. Ma la lingua comunica in base a ciò che vuole comunicare. Si può comunicare l’esperienza o un’idea dell’esperienza. Nel secondo caso si tratta dell’esperienza delle idee. Tuttavia i filosofi, i grandi filosofi, comunicano anche nell’emotività e nella sensitività, altrimenti esprimono soltanto delle idee. Il comunicare si può spiegare con Croce, secondo me, che dice che il filosofo è come il poeta, non è lui che filosofa ma è Dio o la natura. Non è lui che filosofa, è la cosa che pensa se stessa in lui.

La lingua ha un rapporto con l’assoluto?

Sì, con l’assoluto e con il mistero. Planck ha detto: “Più conosco e più mi trovo davanti al mistero”.

Nella sua poesia la lingua scava nelle radici inconsce dell’esperienza, nella memoria come potenza onirica che costruisce suono, parola, figura, intessendo una trama letteraria che si spinge costantemente oltre ciò che potremmo definire un razionale purismo politico. Questo dialogo si è aperto parlando di Dante, Yeats, Tessa. Con quali autori lei ha davvero un legame privilegiato?

La mia passione è Dante che ha scritto in volgare che era un dialetto, era il fiorentino. Purtroppo non conosco il russo, ma gli scrittori russi sono stati un’altra mia passione. Poi c’è Shakespeare, tutto Shakespeare, anche se a teatro purtroppo di solito viene recitato malamente. Gassman, ad esempio, recitava con un’enfasi che non sopportavo, benché nel cinema fosse bravissimo.

Come guarda Franco Loi alla letteratura italiana dal dopoguerra ad oggi?

In italiano tutti scrivono con la testa. Non credo che ci siano stati cambiamenti davvero rilevanti nella letteratura italiana, c’è ancora un forte sostrato comune, di scuola, di tradizioni.

 

Milano, 27 novembre 2015