Fotografia, maschera della realtà

da | Feb 21, 2017

Questo testo fa parte del catalogo della mostra in corso in queste settimane alla GAMeC di Bergamo dal 10 febbraio al 17 aprile, dal titolo La fotografia del no.

Forse il desiderio più profondo di ogni artista
è quello di confondere o di fondere tutte le arti,
così come le cose si fondono nella vita reale.
Man Ray

Charles Baudelaire, il poeta che si è consegnato a molte maschere. Il poeta per eccellenza della modernità e dei suoi eccessi. Una personalità brulicante di cambiamenti. Colui che ha adoperato la contraddizione come forma di protezione. Non ha fatto che parlare di sé, che rappresentarsi, definirsi, dichiararsi, eppure il suo volto, o meglio i volti che via via si è dato, quanto più risultano espliciti e di per sé risolti, tanto più sfuggono via, depistano o meglio sfumano, come se si trattasse di un fantasma che non è possibile afferrare.

Ecco la sfida di Mario Cresci con la serie I Rivolti, Charles Baudelaire (2013): identificare queste maschere, registrarle minuziosamente per poi strapparle; confrontarsi con il groviglio di ambiguità e contraddizioni che oscura (o illumina) il volto del poeta francese.

Partendo dal ritratto che Étienne Carjat gli fece a Parigi, nel 1862, Cresci si è addentrato nel “labirinto-Baudelaire”, per il quale la maschera rivelava meglio di qualsiasi nudità le fattezze di ciò che fingeva di nascondere. Non dimentichiamoci che per l’autore de I Fiori del male la metafora non era una tecnica, ma una forma del sentire (“Che cos’è quella poesia che non è basata sulla fantasia dell’artista, del poeta, vale a dire sul suo modo di sentire?”, scrisse in una lettera del 1866[1]).

Questo lavoro – presentato in mostra all’interno della sezione “Carte 1994-2013” – è composto di quarantasei copie del ritratto di Baudelaire, come quarantasei sono stati i suoi anni di vita. L’immagine è stampata su carta cotone piegata a mano in modo diverso da copia a copia. “Nella visione d’insieme dell’opera – ha spiegato lo stesso Cresci – volevo evidenziare la relazione tra le geometrie occasionali causate dalle piegature del foglio e l’interfacciarsi della superficie bianca del retro con quella stampata del fronte. Così il volto di Baudelaire appare sempre diverso, quasi mutando espressione attraverso gli spazi lasciati liberi dall’incrociarsi delle pieghe, come a coniugare, attraverso il moltiplicarsi dello sguardo, il dramma della vita tumultuosa del poeta alle astratte geometrie degli spazi frammentati”[2].

Con questi Rivolti Cresci è andato oltre il ritratto di Carjat, scattato agli albori della fotografia. Non si è limitato a costatare il fatto dell’esistenza del poeta, ma ha cercato di sapere chi fosse veramente, indagando “la tirannia del volto umano”[3], per usare le parole dello stesso Baudelaire. Gli occhi sono l’unica parte lasciata libera del viso. Uno sguardo penetrante che magnetizza quello di chi guarda. Un invito, quindi, alla riflessione sull’incrocio degli sguardi e su come il volto del poeta trovi improvvisamente nuova vita e dimensione grazie all’azzardo delle pieghe del supporto cartaceo con cui si relazionano. In questo modo egli sembra suggerirci che tutte le maschere di Baudelaire sono in parte vere. Così, alla fine, nessuna maschera è davvero tolta, perché le maschere di uno scrittore sono la sua verità e la verità di uno scrittore della grandezza di Baudelaire rimane inesauribile. È il potere di ambiguità della poesia che chiama il lettore a decifrarla: ed è un potere che non ha limiti.

Cresci, che non è mai stato un ritrattista, con queste carte scardina l’idea stessa del ritratto in fotografia. È come se portasse alle estreme conseguenze la sua poetica: l’idea insomma che la fotografia sia idea della fotografia, dunque riflessione sul fare l’immagine, ripensamento dell’immagine e completo ribaltamento della precedente fotografia. Qui non è soltanto fotografo, ma anche produttore e “plasmatore” di nuove impensate modalità percettive. In questi Rivolti egli reinventa la realtà di un volto proprio come la scrittura reinterpreta uno scenario, evocandolo; opera dunque una personalissima sintesi tra il “vedere” e il “sentire”, in una “narrazione” autonoma del volto di Baudelaire. Per fare questo Cresci – come in altri suoi lavori precedenti – è partito da un materiale già esistente, sottoponendo la fotografia a interventi di cancellazioni, rovesciamenti, destrutturazioni, così come l’autore dello Spleen di Parigi ha fatto con la poesia: ricreando, senza inventare nulla, come se la scrittura fosse innanzitutto un’opera di trasposizione da un registro all’altro delle forme.

Il percorso creativo di Cresci è caratterizzato per essere un territorio di confine tra diversi linguaggi creativi. Più volte il suo mondo si è intrecciato con quello del design, della pittura, dell’antropologia. “Le più affascinanti ricerche sulle immagini dal secolo scorso a oggi – ha osservato – non appartengono solo alle specificità innovative dei grandi fotografi, ma anche e soprattutto all’ibridazione dei linguaggi dell’arte e dei nuovi processi di produzione delle immagini che fotografi e artisti hanno saputo attivare confrontandosi tra loro”[4]. Con queste carte Mario Cresci si è misurato per la prima volta con la letteratura. E lo ha fatto a modo suo, dando alla fotografia quasi una superficie tridimensionale, come se il volto di Baudelaire volesse uscire dal “piatto” del già visto, svelando ora il sovrapporsi della maschera al volto, ora il confondersi con la carne e il sangue che vi sta sotto. Un lavoro improntato sulle modalità percettive, dove l’immagine non è in sé conclusa, ma trova senso proprio all’interno di una struttura seriale, così ogni carta è il capitolo di un flusso narrativo più ampio e complesso. Non è il singolo scatto che interessa, ma il progetto, l’idea di poter costruire un discorso. Per Mario Cresci la fotografia è sostanzialmente una narrazione in sequenza che continua oltre l’immagine singola, un mondo in costante movimento dove il reale assomiglia a un gigantesco collage. Tutto questo appare ancora più evidente in questa serie intorno al volto del grande autore francese; qui la figura stilistica è letteralmente quella dello sdoppiamento: ognuna di queste carte, dove il fronte dell’immagine si rimette in gioco col suo dorso, evidenzia allo stesso tempo il soggetto e la sua rappresentazione. Egli, dunque, porta alla luce l’ambiguità fondamentale di ogni operazione fotografica: quello che vediamo è solo un’immagine e non può confondersi con la realtà. In questo modo la poetica di Cresci dialoga profondamente con quella di Baudelaire. Per quest’ultimo, tra gli elementi della natura, sussistevano misteriose corrispondenze e il compito della poesia era decifrarle e rappresentarle, attraverso l’uso di immagini simboliche. Esattamente quello che Cresci fa con la fotografia, mostrandoci diversi livelli di realtà di un’immagine. In questa serie, in particolare, ogni copia forma un’unità attraverso una sorta di metodo analogico, lo stesso che Baudelaire ha usato in poesia fissandolo nelle Correspondences. (“Glorificare il culto delle immagini. La mia grande, la mia unica, la mia primitiva passione”, scrisse[5]).

Curioso che Cresci abbia scelto proprio Baudelaire come soggetto, autore di una potente invettiva contro la fotografia. Soprattutto dinanzi alle pretese artistiche della nuova forma di espressione. Nel saggio intitolato Il pubblico moderno e la fotografia[6], egli scagliò la sua violenta requisitoria contro la dilagante passione, nel pubblico francese, per la fotografia, definendola una “grande follia industriale”.

Tuttavia la scelta di Cresci non è poi così azzardata. Baudelaire è stato, infatti, tra i primi ad ammonire profeticamente circa i rischi della fotografia legata proprio a un processo industriale e da esso condizionata. Per certi versi la stessa denuncia che Cresci e altri grandi fotografi italiani della sua generazione, come Luigi Ghirri, e prima Ugo Mulas, hanno portato avanti con la loro opera, così come in America hanno fatto William Egglestone e Stephen Shore. Pur avendo approcci diversi, questi autori si sono occupati sostanzialmente del medesimo argomento trattato dal poeta-flâneur: cioè le implicazioni sociali dello strumento fotografico, la sua dimensione industriale e l’enorme potere delle immagini riproducibili. Cresciuto nella cultura della Pop Art e in pieno clima concettuale anni Settanta, Cresci è stato tra i primi in Italia a utilizzare la fotografia liberandola dalla consuetudine di immagine prodotta per un consumo veloce e portandola quindi nel dominio dell’arte contemporanea. Ciò che entra in gioco per lui è la valenza “immateriale” dell’immagine, la sua portata esistenziale, consapevole della complessità culturale e sociologica del medium fotografico, ancor di più oggi nell’era del digitale e della fotografia alla portata di tutti. Forse anche influenzato dalla lezione di Baudelaire, per Mario Cresci, dunque, l’uso sapiente della fotografia solo in minima parte è finalizzato a migliorare la qualità tecnica dell’immagine diventando piuttosto un nuovo strumento di lettura, di analisi e di elaborazione, per scavare ancora più nel vivo di un contenuto esistenziale.

 

[1] Charles Baudelaire, Lettera a N. Ancelle (1866), ora in Cinzia Bigliosi Franck (a cura di), Charles Baudelaire, Il vulcano malato. Lettere 1832 – 1866, Roma, Fazi Editore, 2007

[2]   Corrado Benigni, “Mario Cresci, il mio non-ritratto di Baudelaire”, in Nuovi Argomenti, n. 72, 2014, Milano. Disponibile online al sito www.nuoviargomenti.net/poesie/mario-cresci-il-mio-non-ritratto-di-baudelaire.

[3] Charles Baudelaire, Les Paradis artificiels (1860), ora in Id., I paradisi artificiali, trad. it. Milo De Angelis, Milano, Guanda, 1980.

[4] Corrado Benigni, “Mario Cresci, il mio non-ritratto di Baudelaire”, op. cit.

[5]  Charles Baudelaire, Mon coeur mis à nu (1887), trad. it. Giuseppe Montesano, Il mio cuore messo a nudo, ora in Giovanni Raboni e Giuseppe Montesano (a cura di), Opere, Milano, Meridiano Mondadori, 1996.

[6]  Ivi. Charles Baudelaire, Le public moderne et la photographie, in Salon, 1859, trad. it. Giuseppe Guglielmi e Ezio Raimondi, Il pubblico moderno e la fotografia (1859).

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).