Esploratrici solitarie

da | Ago 23, 2019

di Mauro Ferrari

Credo che un libro che provoca riflessioni su tanti aspetti dell’uomo e della  vita sia un bene prezioso e dimostri, al di là di tanta retorica sul fare poesia (lampante quella manifestata un po’ ovunque il 21 marzo) la sua vitalità e necessità; un ottimo esempio di questa resilienza è l’ultima raccolta di Paolo Valesio, Esploratrici solitarie, che si apre con un’auto-presentazione, o meglio, auto-spiegazione del libro, soffermandosi sulla metafora delle esploratrici solitarie. Spiega Valesio che l’idea nasce dal termine tecnico “Enfants perdus”, cioè ragazzi che, in guerra, avanzavano in territorio nemico a mo’ di commandos, quindi con poche possibilità di salvarsi. Già perduti in partenza, insomma. Ma qui il sintagma diviene veicolo metaforico dei testi poetici: le Esploratrici solitarie sono quindi intuizioni, tentativi di sondare il mistero, e probabilmente nessuna esegesi arriverà dove loro sono state, in territori mai scoperti dai cui confini nessun viaggiatore torna davvero: il testo, se è autentico, ne sa sempre un po’ di più, e sa sempre qualcosa di diverso dalla “resa in prosa” – senza per questo scomodare derive dei significati e lodi all’oscurità, le quali non fanno che eliminare una responsabilità del testo e sul testo che Valesio pone invece al centro della propria poetica.

 

Dico questo anche dopo aver meditato sulle tante e belle recensioni al libro, alcune per la verità più riflessioni generali a partire dal libro come occasione, e soprattutto sulla densa e centrata recensione di Maria Grazia Calandrone apparsa sul web, con cui non concordo solo su un punto centrale, laddove si afferma che Valesio è immune dal cô confessionale della poesia. Ovvio che questo sia un complimento, e non vorrei quindi che annotare un lato confessional in questa poesia sembrasse una critica negativa. Anzi, pur nelle tante differenze rispetto ai poeti confessionali (fin troppo facile citare Robert Lowell) trovo la stessa ansia conoscitiva, la stessa brama bruciante di autoanalisi. Ma in Valesio tutto sembra puntare a una idea di salvezza etica, di sanità per sé e per il mondo: un’operazione salutare insomma, che parte da un gap conoscitivo che il poeta cerca di colmare con intelligenza, attenzione e curiosità.

Anche l’adozione della terza persona è un modo originale per sfuggire alla trappola dell’Io lirico effusivo per guardarsi dal di fuori, per oggettivarsi, cioè vedersi e sentirsi parte di quell’umanità che ritrae con tanta attenzione: appunto per andare oltre l’aspetto confessionale e inscriversi nel mondo che descrive.

 

Valesio ci ha dato il suo libro più alto, in cui ogni apparentemente casuale o accidentale osservazione, ogni riflessione su di sé e sul mondo è un tassello di una ricerca condotta senza retorica, a bassa voce e quasi minimal, ma mai minimalista, su quella che definisce, con felicissima espressione, “la ferocia del vivere” (p. 65). L’aspetto quasi diaristico della raccolta, in cui ogni poesia riporta luogo e data di composizione (non di rado dandoci squarci interessanti sul proprio laboratorio poetico: alcune poesie sono composte in viaggio, nella metro, o in meditazione sul “laghetto”) non fa che enfatizzare la coerenza e la coesione di questo lavoro durato dal 1990 fino al 2017 e approdato a un libro composito (in tre sezioni, quasi indipendenti ma ben articolate in un unico discorso).

 

Osservazioni apparentemente casuali, dicevo: come quando, in Non è una natura morta (p. 57) – e dandoci una traccia da seguire citando di sbieco la non-pipa di Magritte – in realtà riflette sulla distanza tra l’oggetto reale e la sua trasfigurazione artistica, o come quando giunge alla succitata  “ferocia del vivere” a partire da una svagata annotazione sul sole emiliano (Autunno dentro estate, p. 65). “Basta guardare”, ci dice Valesio (p. 66): vero, questo è il retaggio romantico – non è casuale la dedica a Wordsworth, il massimo specialista delle poesie composte sui laghi… Ma è un guardare che non è solipsistico, bensì ha bene in mente sia la dimensione creaturale che quella sociale dell’uomo.

 

Anche i rapidi, lievi quadri urbani della seconda sezione ci parlano di identità e di comunità (Identitario, p. 78, nelle sue torsioni di imagery, è degna di John Donne). Ma un testo come La difficile solidarietà (in altra sezione, p. 132) ci dice una cosa in più:  “Lui ama gli uomini / solo se li vede come alberi / nella foresta di Dio”. Notiamo la sottile ambiguità: “alberi” in senso collettivo, in cui il singolo insomma sparisce, o presi uno per uno, come parte di un tutto? La differenza è sostanziale. E difatti qui parte la riflessione, avviata da un “Ma”: poi “li perde di vista”, perché un albero isolato nella foresta è invisibile; finché il dissidio è ricomposto, a un livello superiore ma ancora problematico (perché Valesio non ha e non ci dà certezze): lui solidarizza nel vedere “i patti e i sacrifici / con cui il singolo / placa la propria follia”; ed è la solidarietà verso la creatura singola, irredimibilmente imperfetta in cui ovviamente si riconosce.

 

Nella riflessione medievale sul sapere si parlava di curiosità, stupore, meraviglia, sorpresa, ciò che spinge l’uomo a conoscere, dice Aristotele; e Valesio ce ne dà infiniti esempi, come nell’osservare nella metro di Manhattan una donna “avvenente”, “forse-svenente”, che in realtà “stava / aspettando un messaggio telefonico” (p. 100): perché la realtà è fuorviante, ambigua, indecidibile, e quindi esige la nostra massima attenzione; il tentativo di afferrare la realtà nella sua essenza ultima è il motore di una ricerca espressiva discreta ma sempre viva, che ad esempio si esprime in composti audaci (“forse-svenente”), spesso calcata sulle possibilità dell’inglese (“cuore-lago”, p. 177), o in forme lessicali appena distorte o preziose, e che comunque trapela dalla tensione sintattica e dal gusto per il paradosso metafisico; o ancora, per esempio, dallo stravolgimento della forma-sonetto (Il sonetto di Maddalena, p. 140).

 

Ho il sospetto che ci sia un certo pudore nel definire la poesia di Valesio religiosa, quasi la definizione ne limitasse il valore. Forse perché il suo rovello non è esibito ma lasciato continuamente sotto traccia? Forse perché la sua “bruciante onestà” (prendo dalla recensione citata all’inizio) si permette, se non un dubbio, la sofferenza per la propria inadeguatezza, che ci riporta persino a Pascal? O perché Valesio parla di cose scomode come rimorso (si legga Stazione della Centoventicinque, p. 104, poesia appena bisbigliata ma altissima), colpa, responsabilità, coscienza – cose poco comuni nel minimalismo imperante?

 

Certo, l’aspetto di preghiera che era tanto in evidenza per esempio nei Dardi (2000, 2002) qui non c’è, come se Valesio avesse imparato a convivere con il dubbio della fede, ma sapesse bene che la sua è la ricerca continua di un senso ulteriore che si nasconde, come ho evidenziato in alcuni esempi, dietro le cose. Che sono quel che sembrano (l’esergo di Emerson a p. 128), ma sono anche altro, o meglio rivelano a chi vuole e sa osservare (elemento centrale in questa poetica) che in controluce c’è un’altra realtà – il che ci riporta appunto a quanto dicevo in apertura su quei tentativi di sondare il mistero che sono i testi poetici, che funzionano quando sono precisi, netti. Onesti.