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Nata come parte di un lavoro sulla poesia russa contemporanea (Otto poeti russi, «In Forma di Parole», n. 2, 2005), questa Ėlegija [Elegia], del poeta e textmaker Lev Semënovič Rubinštejn, riceve ora debitamente (e in versione riveduta e corretta) lo status di volumetto a sé stante, dando così rilievo autonomo a una delle tante kartotéki [cartoteche] dell’Autore, che costituiscono fin dagli anni Settanta del secolo scorso il marchio di fabbrica, l’“autografo” di questo importante esponente del “concettualismo russo” (una delle correnti chiave – ancorché fiorente nella clandenstinità – della letteratura russa di epoca tardosovietica). Le cartoteche sono mazzetti di “schedine” – che quindi assurgono a peculiare unità di misura della poesia – simili a quelle usate un tempo dai bibliotecari (professione svolta, peraltro, da Rubinštejn), che, durante le sue esibizioni, l’Autore scorre e legge dosando pause e ritmo con orecchio musicale. Si tratta, insomma, di un buon esempio di come l’arte sappia impossessarsi di strumenti comunicativi inizialmente destinati a scopi essenzialmente pratici.
“Compulsare” una cartoteca di Rubinštejn – anche nella forma bidimensionale ed elettronica in cui qui viene qui offerta – significa avvicinarsi a uno dei tanti depositi dell’attività linguistica umana, che qui assume la suggestiva forma del “catalogo” come modello del mondo, il che postula diverse strategie di lettura (accesso alogico – lettura; accesso logico – lettura sequenziale) portando a ricostruzioni del mondo diverse perché diverso risulta l’avvicendarsi di situazioni e l’aura contestuale da esse irradiata.
A questa operazione di Rubinštejn, che può apparire forse chirurgica e intellettualistica, non è estraneo, però, anche un taglio sentimental-affettivo, che risiede proprio nel rapporto che intercorre tra Rubinštejn e le manifestazioni non sublimi della lingua. Il poeta si accosta con amore a ogni genere di germoglio verbale, specie se esso appartiene alla rara specie della creatività poco o per niente riconosciuta o riconoscibile. Credo che Rubinštejn vada preso sul serio quando dice, in un’intervista rilasciata a Z. Abdullaeva: «Per quanto io sia concettualista, io sono ancora un uomo, se non di tradizione, di base lirica…» (Voprosy literatury [Questioni di letteratura], «Družba narodov», n. 6, 1997, p. 183). Né credo vi sia motivo di dubitare del coinvolgimento emotivo di chi abbia assistito alle esibizioni di Rubinštejn. Anche questo ennesimo caso di disintegrazione-reintegrazione del “genere poesia”, quindi, non esclude una “diretta” godibilità estetica e una partecipazione – si diceva – “sentimental-affettiva’. Anche nell’approccio complessivamente “freddo” di Rubinštejn, insomma, si può rinvenire una forma – scaltrita e quasi antiletteraria – di lirismo, veicolato attraverso una sorta di elenco di reperti linguistici vivi e ricchi di «coefficiente esistenziale» (Viktor Erofeev, I «fiori del male» russi, «Linea d’ombra», n. 91, 1994, p. 7).
Elegia vuole essere di tutto ciò una conferma: da un lato il titolo si rifà a uno dei generi potenzialmente più “effusivi” (e talora sentimentalistici) del repertorio poetico tradizionale mondiale; dall’altro, però, al componimento elegiaco nella sua versione “dispiegata” Elegia allude soltanto, preferendo fermarsi al di qua della sua “incarnazione” verbale (nella storia, nella letteratura e nella storia della letteratura), quasi sostasse in un ambito costantemente preparatorio. Elegia ricorda una rassegna di precondizioni mentali o di stati d’animo potenzialmente elegiaci (che potrebbero produrre poesie nel senso tradizionale del termine). Disbrogliati grazie al raziocinio, questi grumi psicologici fotografano l’impulso lirico còlto nel suo stadio non-lirico (o, se si può azzardare un parallelo, nella funzione non poetica ma metalinguistica e referenziale della lingua, o addirittura negli interstizi tra funzione e funzione), ossia prima della scrittura o dopo la scrittura, offrendo addentellati con settori che non di rado si sono rivelati adiacenti alla poesia: in particolare, rispettivamente, le discipline psicologiche e la critica come nella sua ipostasi di commento al testo. La solennità dell’elegia e l’alto contemplativismo di questo nobile genere letterario si ritrovano come scomposti in fattori primi, in elementi base, in materiale umano nudo che può, al pari di altro materiale, essere incasellato e numerato. Il fatto è che, anche se generalizzate e spersonalizzate, anche se non legate a nomi e cognomi (o forse proprio in virtù di tutto ciò), le quotidianissime condizioni elegiache preliminari focalizzate da Rubinštejn, sanno conservare la loro carica drammatica anche quando sono banali in maniera disarmante e si offrono al lettore (o uditore) come spunti da contestualizzare individualmente, personalmente, idioletticamente.
In questo spazio di perpetuo approntamento, nella ossimoricità instrinseca a ogni progetto (finito sì, ma foriero di sviluppo: si pensi alla “provvisoria compiutezza” di un bozzetto), sta una delle tante frontiere che la poesia è capace di annettersi. E che con Rubinštejn, ormai, si è stabilmente annessa.
Alessandro Niero
Immagine: Padro Reyes.
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Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).