Diorama dell’Est

da | Mar 31, 2015

Uspenskaja – Kanatnaja

Dammi ancora la prova, la spaziosa illusione, che le cose mi vedano, qui, nel tremore di luci, nella casa varata, senza remi nel buio, per i flutti del gelo, quelle dita che accorrono, al silenzio dei vetri, distilla un rumore, che salga tra i fili, dividi un respiro, tra il vuoto e la voce, propaga le braccia, felici nell’aria, sospingile a me, fra le mura del freddo.

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A.

….Verso la fine degli anni novanta, alla stazione di Hradec Králové, si poteva incontrare A.
….Veniva da un piccolo villaggio, andava a Brno.
….Le coincidenze di autobus e treni l’affidavano ad atri di passaggio, attese, ombre di pensieri.
….A volte percorreva, lentamente, il corpo luminoso degli ingressi, oltre le panche affollate di rumori, fendendo l’energia sospesa degli arrivi e dei ritardi, sciami di pulviscolo accesi dal mattino, dense libagioni dell’affanno e del sudore, spesso ignota e sola, dividendo i flutti del silenzio, nelle sere vane della festa e dell’inverno, con la muta e tenue vita delle biglietterie, l’avara vibrazione dei tabacchi e del caffè, lo stanco risalire delle cifre ai tabelloni.
….Passava, lentamente, lungo vetri, luci, manifesti, porte, rischiarava, forse, gli attimi segreti della pausa, l’interrompersi, ufficiale, della corsa irreparabile, dei gesti volontari, della regola di ferro, che muoveva le bilance, i contrappesi, le corone, ma spegneva 60 la sua marcia nell’incanto, sospendeva un filo acuto di lancetta, si piegava nel chiarore alla solidità del varco.
….Usciva, raramente, nei mattini lieti, nell’estate, sul piazzale vasto e vorticoso di bus e di corriere, non solcava i margini dell’aria, non gettava il passo al porfido allo spazio, costeggiava, la barriera fiduciosa, la tettoia degli autunni, l’ombra della folla, ritornava, sulla traccia inseparabile dei mesi, l’orma dell’istante, la perduta polvere del viaggio.
….Ora non visito più la stazione, corro altre piazze alla fuga dei treni, vigilo rapidi orari d’affanno, perdo nel fiato la traccia dei volti, scendo lontano dal suo salutare, forse l’incalza il vago avvenire, già si dissolvono luci allo sguardo, crescono sale nuove all’attesa, scoccano limpide ore al quadrante, rare città le misurano il passo, come sapere nell’arido istante, come scavare la via l’occasione, traccia precisa che incontri un respiro, vogano quiete le cose al destino, cade segreto un rumore un fruscio, sfiora selciati fedeli al pensiero.

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Kiev, notte

È ancora possibile scendere, nella notte fonda, lungo la Bogdana Chmelnitskova, e attraverso il silenzio, fermarsi al chiosco delle bibite, accanto al museo, per un MacCoffee da una hrivnia, bollente, quando già la temperatura scivola, immobile, sotto lo zero, e nelle auto sepolte dall’attesa si compie il sonno minerale dei tassisti : è ancora così antico il silenzio, e smisurata la quiete delle cose, ancora così vasto il potere del passato, e salda la mano del buio sulle vite, ma l’aria è secca e lieve nel suo gelo, non ferisce il lampo giallo soffiato dal semaforo, né dura il grido vuoto e ignaro d’un motore, solo senti, mentre i passi che accompagni scendono a Teatralna, il fruscio metallico di vertebre dei grandi cartelloni, che rovesciano il miraggio delle merci, ogni dieci secondi, per nessuno, sino al nuovo eterno crescere del giorno: ancora il cielo non schiarisce dietro la città, oltre la torre staliniana che impassibile regge ai riflettori la sua stella, oltre le nuove torri senza nome cresciute all’avvenire, e le gru accese pulsanti lungo il buio fondo, ed il tempo : ancora, davvero, lo senti, è possibile vivere.

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Cani d’Ucraina

Per quali eterne infanzie, quale infinito destino d’orfani, s’avvia la loro vita, l’irraggiungibile dolcezza, il candore quieto, lo sguardo timoroso e mite, già certo del nulla, eppure lieto delle cose, attento al loro fragile rilucere, incalcolabile mutare, lesto e lieve perdersi : amano i piazzali, quel silenzio di polvere asfalti, antiche pozzanghere vento, quelle scalinate già prossime al vuoto, ancora in attesa delle folle future, quei magri giardini di sabbia cemento, prati perduti altalene, presidiano il margine della vita che non cede, quella sua vasta manovra circolare, quel disegno di catena livellatrice, conservando il silenzio per sé, l’incrollabile mitezza di chi ha perso, il dolore di assistere al tempo senza meta, sospeso nello sguardo, nella sua disperata, indifesa comprensione.

Immagini: Foto dell’autore.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).