Denise Levertov, Dodici poesie

da | Dic 8, 2020

Queste dodici poesie di Denise Levertov sono traduzioni del Laboratorio di traduzione di poesia Monteverdelegge, che da dieci anni opera presso la bibliolibreria Plautilla c/o CSM Cantiere 24, ASL Roma D (Maria Adelaide Basile, Marta Izzi, Giselda Mantegazza, Fiorenza Mormile, Anna Maria Rava, Anna Maria Robustelli, Paola Splendore, Jane Wilkinson). Le pubblichiamo con una nota introduttiva di Fiorenza Mormile. Si ringrazia la New Directions Publishing Corp., casa editrice di Denise Levertov, per l’autorizzazione alla riproduzione e traduzione dei testi, i cui riferimenti bibliografici sono riportati in calce all’originale di ogni poesia.

Denise Levertov (Ilford, Inghilterra 14/10/1923 – Seattle, Usa 1997) è stata un’intensa e prolifica poetessa (oltre trenta pubblicazioni tra poesia e saggistica). Si è molto impegnata anche nel sociale, dal volontariato a vasto raggio durante la seconda guerra mondiale all’attivismo pacifista condiviso con il marito Mitchell Goodman che dal 1948 aveva seguito negli Usa. Levertov, che a cinque anni aveva già chiaro il suo destino poetico, fonde in una cifra personale molteplici successive influenze: quella eclettica e colta della famiglia (il padre ebreo di origine russa divenuto pastore anglicano, la madre gallese appassionata di poesia), delle assidue frequentazioni dei Black Mountain Poets e in particolare della spinta di W.C. Williams verso l’esplorazione del quotidiano e la semplificazione antiletteraria della lingua. Levertov le ha attraversate tutte, così come ha attraversato l’Atlantico, approdando a una scrittura consapevolmente “americana”.  Dagli anni Ottanta assume rilevanza, affiancato ad una spiccata sensibilità ambientale, anche il suo percorso dall’agnosticismo alla conversione, prima al Cristianesimo e infine al Cattolicesimo. Levertov presta crescente attenzione verso la natura, alla cui contemplazione riconosce forza appagante e liberatoria (Celebration). L’amico poeta Milosz, che amava tradurla, diceva di apprezzare nelle sue poesie “il tanto guardare”. Leggendo questi dodici testi (che seguono l’ordine cronologico di pubblicazione e ruotano per lo più intorno a temi metaletterari) non meraviglia che Levertov teorizzi nelle sue Notes on Organic Form la contemplazione come metodo base per una poesia “esplorativa” che, lavorando sull’appercezione e sulla consapevolezza dei propri stati emotivi, sappia andare in profondità, intuendo per spiragli rivelatori un ordine preesistente già nelle cose e nelle loro relazioni. “Contemplare deriva da “templum, tempio, un luogo, uno spazio per l’osservazione, segnato dall’augure”. Significa non semplicemente osservare, considerare, ma fare queste cose in presenza di un dio. E meditare è “mantenere la mente in uno stato di contemplazione”, il suo sinonimo è “musa” e musa deriva da una parola che significa “stare a bocca aperta” non così comico se pensiamo a “ispirazione-ispirare”. (…) “la forma non è mai più che una rivelazione di contenuto”. C’è quindi in Levertov una sacralità della scrittura, non necessariamente tutta ascrivibile a una specifica confessione religiosa. Nei suoi testi la contemplazione non si realizza solo tramite la vista, (che pure appare prevalente, anche sotto forma di visione mentale), ma anche per mezzo di suggestioni olfattive, tattili, uditive – “origliando in pace” (Aware). Esempio di illimitata fiducia nella capacità comunicativa della parola è la spiegazione dei colori ai ciechi, veicolata in termini di vibrazioni sensoriali da loro comprensibili (For the Blind). Va sottolineato il peso dell’immaginazione, cui Levertov attribuisce la capacità di incidere nella realtà perché reale è il suo agire nelle menti degli uomini (Everything that Acts is Actual). Scrivendo il poeta si addossa una responsabilità e una doppia missione: cogliere la vera essenza delle cose, il segreto che giace sotto la superficie e aprire attraverso l’immaginazione l’accesso ad una nuova realtà, ad esempio, in Making Peace, lo sforzo di delineare un non ancora sperimentato “immaginario di pace” così come si crea una poesia, con le “parole che la creano, /una grammatica di giustizia, /una sintassi di reciproco aiuto”. Una poesia riuscita assume una sorta di potere: suscita amore, solleva lo spirito (Poet’s Power), accresce la conoscenza facendo scaturire da un verso un’improvvisa illuminazione, o anche solo la speranza di potercela trovare (The Secret).  Ma, pur valorizzando il ruolo del poeta nella società, Levertov non assume mai atteggiamenti da poeta-vate: all’altezza del valore riconosciuto alla poesia contrappone l’umiltà di un perenne spirito di servizio, la necessità di un duro apprendistato: per elevare la sua scrittura il poeta “deve sbucciarsi le ginocchia”(The Jacob’s Ladder), accettare un perenne stato di allerta, anche notturna, pur di fermare a tentoni nel buio un verso sulla carta prima che col pieno risveglio ne svanisca “la visione”, per incuria potrebbero infatti andare perse “parole che forse hanno il potere/ di far sorgere di nuovo il sole”(Writing in the Dark). Per Levertov scrivere comporta un dialogo serrato col dolore, fedele come un cane (Talking to Grief): l’esperienza negativa del passato va inseguita, braccata senza pietà “fino al nido di cenere” perché ne possa scaturire un nuovo, vitale “guizzo di fiamma” (Hunting the Phoenix). Prestando fede alla parola dei “grandi vecchi” i poeti devono accettare un estenuante e incerto cammino verso il mare, col solo bagaglio della lingua affidata nelle loro mani: “abbiamo in tasca le parole/indicazioni oscure” (September 1961). Procedono, immaginando a tratti, per conforto, di avvertirne l’odore.

Fiorenza Mormile

 

Ogni cosa che agisce è in atto

 

Dalla luce ambrata

dalle notti di pioggia

dall’immaginazione che trova

se stessa e più che se stessa

sola e più che sola

in fondo al pozzo dove vive la luna,

puoi trascinarmi

 

dentro dicembre? una pianura

di spazio, percezione di spazio

torreggiare di ombre di nuvole soffiate su

nuvole sopra

terreno nuovo, reso nuovo

sotto i passi pesanti di dicembre? l’unico

modo di vivere?

 

L’imperfetta luna

agisce sul vero, e crea

un autunno di incerti

silenzi.

Tu vivevi, ma altrove,

la tua presenza toccava altri, cerchio dopo cerchio

e cambiava. Credevi

che io non sarei cambiata?

 

La luna nera

si allontana, finito il suo lavoro. Una tenerezza,

autunno inespresso.

Siamo fedeli

solo all’immaginazione. Quel che

l’immaginazione

                            coglie

come bellezza dev’essere verità. Quel che ti lega

a ciò che vedi di me è

solo quella presa.

 

Everything that Acts is Actual

 

From the tawny light

from the rainy nights

from the imagination finding

itself and more than itself

alone and more than alone

at the bottom of the well where the moon lives,

can you pull me

 

into December? a lowland

of space, perception of space

towering of shadows of clouds blown upon

clouds over

new ground, new made

under heavy December footsteps? the only

way to live?

 

The flawed moon

acts on the truth, and makes

an autumn of tentative

silences.

You lived, but somewhere else,

your presence touched others, ring upon ring,

and changed. Did you think

I would not change?

 

The black moon

turns away, its work done. A tenderness,

unspoken autumn.

We are faithful

only to the imagination. What the

imagination

                   seizes

as beauty must be truth. What holds you

to what you see of me is

that grasp alone.

 

1.”Everything that Acts Is Actual” by Denise Levertov, from COLLECTED EARLIER POEMS 1940-1960, copyright ©1949, 1979 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 

La scala di Giacobbe

 

La scala non è

fatta di fili lucenti

un’evanescenza radiosa

per piedi d’angelo che nel passare sfiorano appena la pietra, senza

doverla toccare.

 

È fatta di pietra.

Una pietra rosata che si accende

di morbida luce

solo perché dietro il cielo è di un incerto, dubbioso

grigio notte.

 

Una scala di angoli

acuti, di solida fattura.

Si vede che gli angeli devono saltare

giù da un gradino all’altro, con un leggero

colpo d’ala:

 

mentre un uomo che si arrampica

deve sbucciarsi le ginocchia e ricorrere

alla presa delle mani. La pietra tagliata

conforta i suoi piedi brancolanti. Ali lo sfiorano passando.

La poesia si eleva.

 

The Jacob’s Ladder

 

The stairway is not

a thing of gleaming strands

a radiant evanescence

for angels’ feet that only glance in their tread, and need not

touch the stone.

 

It is of stone.

A rosy stone that takes

a glowing tone of softness

only because behind it the sky is a doubtful, a doubting

night gray.

 

A stairway of sharp

angles, solidly built.

One sees that the angels must spring

down from one step to the next, giving a little

lift of the wings:

 

and a man climbing

must scrape his knees, and bring

the grip of his hand into play. The cut stone

consoles his groping feet. Wings brush past him.

The poem ascends.

 

2.”The Jacob’s Ladder” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1961 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 

Settembre 1961

 

È l’anno in cui i vecchi,

i grandi vecchi

ci lasciano soli sulla strada.

 

La strada porta al mare.

Abbiamo in tasca le parole,

indicazioni oscure. I vecchi

 

hanno portato via la luce della loro presenza,

la vediamo allontanarsi in diagonale

su per una collina.

 

Non stanno morendo,

si sono chiusi

in un doloroso isolamento

 

imparando a vivere senza parole.

E.P. “È come morire”—Williams: “Non so

descriverti cosa mi

 

sta accadendo”—

 

H.D. “incapace di parlare”.

Il buio

 

si avvita nel vento, le stelle

sono piccole, l’orizzonte

racchiuso in una confusa bruma urbana.

 

Ci hanno detto

che la strada porta al mare,

e hanno affidato

 

la lingua alle nostre mani.

Sentiamo

i nostri passi ogni volta che un camion

 

ci supera abbagliandoci e scompare

lasciandoci un nuovo silenzio.

Non si arriva

 

al mare su questa strada senza

fine verso il mare senza

svoltare alla fine, sembra,

 

e seguire

il gufo che silenzioso la sorvola

di sghembo, avanti e indietro,

 

e via in boschi profondi.

 

Ma per noi la strada

si snoda, contiamo le

parole che abbiamo in tasca, ci chiediamo

 

come sarà senza di loro, non

smettiamo di camminare, sappiamo

che c’è ancora molta strada, a volte

 

pensiamo che il vento della notte porti

un odore di mare . . .

 

September 1961

This is the year the old ones,
the old great ones
leave us alone on the road.

The road leads to the sea.
We have the words in our pockets,
obscure directions. The old ones

have taken away the light of their presence,
we see it moving away over a hill
off to one side.

They are not dying,
they are withdrawn
into a painful privacy

learning to live without words.
E.P. “It looks like dying”—Williams: “I can’t
describe to you what has been

happening to me” —

 

H.D. “unable to speak.”
The darkness

twists itself in the wind, the stars
are small, the horizon
ringed with confused urban light-haze.

They have told us
the road leads to the sea,
and given

the language into our hands.
We hear
our footsteps each time a truck

has dazzled past us and gone
leaving us new silence.
One can’t reach

the sea on this endless
road to the sea unless
one turns aside at the end, it seems,

follows
the owl that silently glides above it
aslant, back and forth,

and away into deep woods.

But for us the road
unfurls itself, we count the
words in our pockets, we wonder

how it will be without them, we don’t
stop walking, we know
there is far to go, sometimes

we think the night wind carries
a smell of the sea . . .

 

3.”September, 1961” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1964 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

Il segreto

 

Due ragazze scoprono

il segreto della vita

in un verso improvviso di

poesia.

 

Io che non conosco il

segreto ho scritto

quel verso. Mi hanno

detto

 

(tramite una terza persona)

di averlo trovato

ma non quale fosse

e neppure

 

quale fosse il verso.  Senza dubbio

adesso, più di una settimana

dopo, avranno dimenticato

il segreto,

 

il verso, il nome della

poesia. Le amo

per aver trovato quello

che io non riesco a trovare,

 

e per avermi amato

per il verso che ho scritto,

e per averlo dimenticato

così che

 

mille volte ancora, finché la morte

non le trovi, possano

scoprirlo nuovamente, in altri

versi

 

in altri

accadimenti. E per

averlo voluto conoscere,

per

 

aver pensato che tale

segreto esista, sì,

per questo

soprattutto.

 

 

The Secret

 

Two girls discover

the secret of life

in a sudden line of

poetry.

 

I who don’t know the

secret wrote

the line. They

told me

 

(through a third person)

they had found it

but not what it was

not even

 

what line it was. No doubt

by now, more than a week

later, they have forgotten

the secret,

 

the line, the name of

the poem. I love them

for finding what

I can’t find,

 

and for loving me

for the line I wrote,

and for forgetting it

so that

 

a thousand times, till death

finds them, they may

discover it again, in other

lines

 

in other

happenings. And for

wanting to know it,

for

 

assuming there is

such a secret, yes,

for that

most of all.

 

4.”The Secret” by Denise Levertov, from POEMS 1960-1967, copyright ©1964 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

Parlare al dolore

 

Ah, dolore, non dovrei trattarti

come un cane randagio

che viene alla porta sul retro

per una crosta, per un osso spolpato,

dovrei fidarmi di te.

 

Dovrei accoglierti

in casa e darti

un angolo tutto tuo,

una logora stuoia su cui sdraiarti,

la tua ciotola dell’acqua.

 

Pensi che non sappia che vivi

sotto il mio portico.

Vuoi un posto tutto tuo

prima dell’inverno. Hai bisogno

di un nome,

un collare, una targhetta. Vuoi avere

il diritto di tenere lontani gli intrusi,

di considerare

tua la mia casa

e me la tua persona

e te

il mio cane.

 

Talking to Grief

 

Ah, grief, I should not treat you
like a homeless dog
who comes to the back door
for a crust, for a meatless bone,
I should trust you.

I should coax you
into the house and give you
your own corner,
a worn mat to lie on,
your own water dish.

You think I don’t know you’ve been living
under my porch.
You long for your real place to be readied
before winter comes. You need
your name,
your collar and tag. You need
the right to warn off intruders,
to consider
my house as your own
and me your person
and yourself
my own dog.

 

5.”Talking to Grief” by Denise Levertov, from POEMS 1972-1982, copyright ©1978 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 

Per i ciechi   

 

Ascoltate: il vento sulle foglie nuove.

sussurra, più lieve del tocco delle dita,

di un filo di seta che scorre liscio tra le dita . . .

 

Quando i vedenti

parlano di bianco possono intendere

il silenzio del freddo cupo con cui l’inverno—

per quanto calde le vostre stanze

—aspetta alla porta.

(Ma c’è un altro tipo di bianco,

più simile all’assenza di peso di un fiocco di neve

di un petalo, di un ago di pino . . .)

 

Quando dicono nero possono intendere l’insistenza

del vento freddo che disperato, rabbioso

irrompe senza tregua tra i rami spogli.

(Ma c’è un altro tipo di nero,

pieno e rotondo come le note del violoncello e del tamburo . . .)

 

Ma questo:

questo brivido vitale, lieve

che si spande come una carezza

sulla nostra carne

quando le foglie sono umide e minute

e i venti sono gentili,

è verde. Un verde leggero. Non senza peso,

leggero.

 

 

For the Blind

 

Listen: the wind in new leaves

whispers, smoother than fingertips,

than floss silk smoothing through fingertips . . .

 

When the sighted

talk about white they may mean

silence of sullen cold, that winter—

no matter how warm your rooms

—waits with at the door.

(Though there’s another whiteness,

more like the weightlessness of a flake of snow

of a petal, a pine-needle . . .)

 

When they say black they may mean the persistence

of cold wind hopelessly, angrily

tearing and tearing through leafless boughs.

(Though there’s another blackness,

round and full as the notes of cello and drum . . .)

 

But this:

this lively, delicate shiver

that whispers itself caressingly

over our flesh

when leaves are moist and small

and winds are gentle,

is green. Light green. Not weightless,

light.

 

6.”For the Blind” by Denise Levertov, from POEMS 1972-1982, copyright ©1978 by Denise Levertov. Reprinted by permission of   New Directions Publishing Corp.

 

Scrivere al buio

 

Non è difficile.

Comunque, è necessario.

 

Aspetta il mattino e avrai dimenticato.

E chissà se il mattino arriverà.

 

Cerca a tentoni la luce e sarai

del tutto sveglia, ma la visione

sbiadirà, scivolando

lontano.

 

Devi avere carta a portata di mano,

un pennarello—le biro non sempre scorrono,

le punte di matita tendono a spezzarsi. Non c’è niente

di vergognoso in tanta prudenza: sono i nostri ferri del mestiere.

 

Non preoccuparti dei trattini sulle t, dei puntini sulle i—

piuttosto fa’ attenzione a non coprire

una parola con la successiva. Sarà la pratica a mostrare

come una mano d’istinto aiuti l’altra

a tenere ogni verso

separato da quello che segue.

 

Continua a scrivere al buio:

una traccia della notte, o

parole che ti hanno strappato agli abissi dell’ignoto,

parole volate attraverso la mente, strani uccelli

che gridavano la loro urgenza con voci umane,

 

o che si aprivano

come i fiori di un albero che fiorisce

una volta sola nella vita:

 

parole che forse hanno il potere

di far sorgere di nuovo il sole.

 

Writing in the Dark

 

It’s not difficult.
Anyway, it’s necessary.

Wait till morning, and you’ll forget.
And who knows if morning will come.

Fumble for the light, and you’ll be
stark awake, but the vision
will be fading, slipping
out of reach.

You must have paper at hand,
a felt-tip pen—ballpoints don’t always flow,
pencil points tend to break.  There’s nothing
shameful in that much prudence: those are our tools.

Never mind about crossing your t’s, dotting your I’s—
but take care not to cover
one word with the next.  Practice will reveal
how one hand instinctively comes to the aid of the other

to keep each line
clear of the next.

Keep writing in the dark:
a record of the night, or
words that pulled you from depths of unknowing,
words that flew through your mind, strange birds
crying their urgency with human voices,

 

or opened
as flowers of a tree that blooms
only once in a lifetime:

 

words that may have the power

to make the sun rise again.

 

7.”Writing in The Dark” by Denise Levertov, from CANDLES IN BABYLON, copyright ©1982 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

A caccia della fenice

 

Sfoglia manoscritti scoloriti,

assicurati che nessuna parola

soffra la sete, sanguini

in attesa di essere salvata. No:

vecchi amori semi-

dichiarati, istanti strappati

al flusso della percezione

per giocare ‘alle statuine’,

e mai liberati—

non avevano sangue da versare.

Devi arrivare

proprio al nido di cenere

se speri di trovare

piume bruciacchiate, ossi d’ala roventi,

e un guizzo di fiamma che canta

e si riaccende.

 

Hunting the Phoenix

 

Leaf through discolored manuscripts,
make sure no words
lie thirsting, bleeding,
waiting for rescue. No:
old loves half-
articulated, moments forced
out of the stream of perception
to play ‘statue’,
and never released—
they had no blood to shed.
You must seek
the ashy nest itself
if you hope to find
charred feathers, smoldering flightbones,
and a twist of singing flame
rekindling.

 

8.”Hunting the Phoenix” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 Creare la pace

 

Una voce dal buio gridò,

‘I poeti devono darci

un immaginario di pace, per scalzare l’intenso, familiare

immaginario del disastro. La pace, non solo

l’assenza di guerra’.

Ma la pace, come una poesia,

non esiste prima di esserci,

non si può immaginare prima che sia creata,

non si può conoscere se non

nelle parole che la creano,

una grammatica di giustizia,

una sintassi di reciproco aiuto.

Un sentimento nei suoi confronti,

una vaga percezione del ritmo, è tutto quel che abbiamo

finché non cominciamo a pronunciarne le metafore,

imparandole mentre parliamo.

Un verso di pace potrebbe apparire

se riuscissimo a riformulare la frase che le nostre vite stanno creando,

a revocare la sua riaffermazione di profitto e potere,

a mettere in dubbio i nostri bisogni, a concederci

lunghe pause . . .

Una cadenza di pace potrebbe bilanciare il proprio peso

su quel diverso fulcro; la pace, una presenza,

un campo di forza più intenso della guerra,

potrebbe allora pulsare,

strofa dopo strofa nel mondo,

ogni atto di vita

una delle sue parole, ogni parola

una vibrazione di luce—facce

del cristallo che prende forma.

 

Making Peace

 

A voice from the dark called out,

‘The poets must give us

imagination of peace, to oust the intense, familiar

imagination of disaster. Peace, not only

the absence of war.’

But peace, like a poem,

is not there ahead of itself,

can’t be imagined before it is made,

can’t be known except

in the words of its making,

grammar of justice,

syntax of mutual aid.

A feeling towards it,

dimly sensing a rhythm, is all we have

until we begin to utter its metaphors,

learning them as we speak.

A line of peace might appear

if we restructured the sentence our lives are making,

revoked its reaffirmation of profit and power,

questioned our needs, allowed

long pauses . . .

A cadence of peace might balance its weight

on that different fulcrum; peace, a presence,

an energy field more intense than war,

might pulse then,

stanza by stanza into the world,

each act of living

one of its words, each word

a vibration of light—facets

of the forming crystal.

 

9.”Making Peace” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 

Potere di poeta

 

In taxi da Brooklyn a Queens,

una grigia giornata di primavera. L’autista ispanico,

quando gli chiedo: ‘Es Usted Mexicano?’ mi dice

No, è un esule dell’Uruguay. E io dico,

‘Il solo uruguaiano che ho incontrato

era uno scrittore—forse

l’ha sentito nominare?—

Mario Benedetti?’

E lui stacca tutte e due le mani

dal volante e si gira,

raggiante di gioia: ‘Benedetti!

Mario Benedetti!!’

Ci sono

alleluia nella sua voce—

eseguiamo un 8

perfetto sull’autostrada splendente,

e ci solleviamo in alto, al di sopra del traffico, volando

per il resto del viaggio nel cielo azzurro, azul, azul!

 

  1. ”Poet Power” by Denise Levertov, from BREATHING THE WATER, copyright ©1987 by Denise Levertov. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

Celebrazione

 

Smagliante, questo giorno ̶ un giovane virtuoso, questo giorno.

Le ombre del mattino tagliate da forbici affilatissime,

mani esperte. E ogni prodigio di verde ̶

siano felci o licheni o aghi

o gemme impazienti su arbusti filiformi  ̶

più verdi che mai.

E il modo in cui le conifere

offrono nuove pigne alla luce per la benedizione,

come nei giorni di festa, e intonano il canto oceanico che il vento

trascrive per loro!

Un giorno che splende nel freddo

come una premiata banda di ottoni che suona a ritmo di swing lungo la strada

di un paese impolverato di carbone, in disaccordo totale

con le pretese di una ragionevole tristezza.

 

 

Celebration

Brilliant, this day  ̶ a young virtuoso of a day.
Morning shadows cut by sharpest scissors,
deft hands. And every prodigy of green  ̶
whether it’s ferns or lichen or needles
or impatient points of bud on spindly bushes  ̶

greener than ever before.

And the way the conifers
hold new cones to the light for blessing,
a festive rite, and sing the oceanic chant the wind
transcribes for them!
A day that shines in the cold
like a first-prize brass band swinging along the street
of a coal-dusty village, wholly at odds
with the claims of reasonable gloom.

 

11.”Celebration” by Denise Levertov, from THIS GREAT UNKNOWING, copyright ©1999 by The Denise Levertov Literary Trust, Paul A. Lacey and Valerie Trueblood Rapport, Co-Trustees. Reprinted by permission of New Directions Publishing Corp.

 

 

Consapevole

 

Quando aprii la porta

trovai le foglie della vite

che parlavano tra loro in fitti

bisbigli.

La mia presenza le portò a smorzare

il loro verde respiro,

imbarazzate, come quando

gli umani si alzano, abbottonandosi la giacca,

come se stessero comunque andando via, come se

la conversazione fosse finita

un attimo prima del tuo arrivo.

Mi piacque

però, vedere di sfuggita

i loro gesti

oscuri. Mi piacque il suono

di voci così intime. La prossima volta

mi muoverò come la cauta luce del sole, aprirò

la porta un po’alla volta, origliando

in pace.

 

 

Aware

When I opened the door
I found the vine leaves
speaking among themselves in abundant
whispers.
My presence made them
hush their green breath,
embarrassed, the way
humans stand up, buttoning their jackets,
acting as if they were leaving anyway, as if
the conversation had ended
just before you arrived.
I liked
the glimpse I had, though,
of their obscure
gestures. I liked the sound
of such private voices. Next time
I’ll move like cautious sunlight, open
the door by fractions, eavesdrop
peacefully.

 

12.”Aware” by Denise Levertov, from THIS GREAT UNKNOWING, copyright ©1999 by The Denise Levertov Literary Trust, Paul A. Lacey and Valerie Trueblood Rapport, Co-Trustees.