Cenere, o terra

da | Ago 28, 2018

Cinque poesie da Cenere, o terra, l’ultima raccolta di Fabio Pusterla, uscita per Marcos y Marcos (2018).

LEZIONE DI CANTO

Morivano ad uno ad uno gli innocenti
calpestati annegati distrutti dal dolore
erano sei diventavano zero
il numero magico che tutto cancella
buco nero d’orrore.

Ma la canzone successiva parlava di un stella
solitaria che brilla nel cielo e che è la stella
candida del cow boy. Più avanti interveniva la figura
della mamma, un angelo che suonava una tromba,
la distesa dei pascoli.

Questa canzone si cantava a squarciagola
fino a sentire un raschio una tosse imminente
un conato di vomito di solito evitato
si alzava forte la voce si gridava
come se se il canto potesse cancellare

quella cosmica ansia
quel vento.

SOVRAPPOSIZIONI A BERLINO

Del senso, mi chiedevi da lontano: di che senso
avrebbe allora la cosa.

Ti rispondo che ho visto una ragazza
mettersi in posa da cubista su una stele
del Denkmal di Berlino, una pietra fra migliaia
per sei milioni di morti senza senso; un’altra si sgranchiva
le gambe flettendo bene anche il tronco e occhieggiando
caso mai fosse sfuggita ai passanti
l’evidenza dei seni.
Lì sotto puoi ascoltare i nomi e le storie
di tutti, se hai sei anni di tempo, e ancora mancheranno
i senza nome, i dispersi e l’infinita
discendenza negata della cenere,
senza storia né dove.
All’uscita vedi due che si rincorrono, gridano,
è quasi sera, un messaggio dice del padre di un amico
che è partito per sempre, il traffico
scorre veloce, tra lampi di selfie e risate, non piove.

Non so dirti del senso. L’ho cercato
a lungo senza trovarlo. Ora forse mi basta
il lampo giallo del ginko biloba,
un bagliore sull’acqua della Sprea
forse nel punto esatto di una raffica
e di un corpo sprofondato laggiù.
Un solo nome come un sasso nella mano
che tengo chiusa in tasca. Un sentore di rosa
selvatica. Anche
il dolore, se fosse necessario.
Anche quello, sì. Resto in ascolto, respiro.

STANZE DEL CREPUSCOLO

El más truhán se lleva la mano al corazón,
y el bruto más espeso se carga de razón.

Antonio Machado

Crepuscolo. Una donna impellicciata
ne chiama un’altra sull’altro marciapiedi
come da un’altra riva, che cammina
lenta con un bambino per mano costeggiando
le luminarie di quartiere, il traffico, l’opaco
fiume di un martedì. E «No,» risponde
«no grazie, ho appena fatto la merenda di Natale
all’asilo, sono piena come un uovo
di Pasqua», e si allontana ridendo
da sola alla battuta involontaria. Il bambino
la segue con aria candida e paciosa
forse sperando nei cartoni
animati o invece solo
torpidamente digerendo il pandoro.

Per strada, da un giornale abbandonato
urla la faccia del politico di turno,
dichiara:«Sono fiero
di me che rappresento
il bene del Paese. La mia è stata
comunque una grande avventura,
la nostra gente lo sa,
malgrado la stangata che mi sono
beccato. E gli altri,
Raus». «Sembra il Duce»,
ha detto un giorno mia madre
non di lui ma di un suo simile
certo persino peggiore
o più potente e più bieco.

Dicono che in tedesco la parola Angst
copra lo spettro livido che corre
dall’ansia alla paura, con ogni sfumatura
intermedia: cieco timore, angoscia,
presentimento cupo di sventura,
cristalli rotti, roghi e il resto poi,
che consegue. Economia
semantica, riassumere
in cinque lettere tutto il venir meno
della luce. Tutto lo sprofondare
fra di noi.

STELLE DI CALCITE

Scivola verso il basso della pagina
come spossata la mano del maestro

si addentra nel margine nel biancore del vuoto
entra nell’ombra la parola dell’amico

non regge più la penna
lettere scoscese corde penzolanti frane

tra poco forse muoverà dei passi
nel corridoio del deserto

nella faglia, dove la linea di frattura
scende alle grotte nere

senza voltarsi indietro
ma gettando una luce alle spalle

come di candela tremante
invita a resistere a camminare

a cercare la strada giusta mantenendosi
in vista dell’alto se possibile

illuminati d’armonia
desiderosi di salire lungo il vento

abbassandosi al di sotto della terra se è necessario
per incontrare le concrezioni eccentriche

le stelle bianche perse che sfavillano
i cristalli di calcite

dentro il buio.

COSTELLAZIONE DEL CANCRO

Il nome di mio padre era importante
lo storpiavano gli amici

da Elius in Elio
secondo nome Virgilio

suo padre parrucchiere letterato
amava la classicità probabilmente

nel momento peggiore
quando i nomi non erano innocenti

non ne immaginava le conseguenze
per il figlio operaio orologero

che ebbe nell’ordine una guerra
una ritirata di Russia un congelamento un esilio

una moglie due figli una casa
una fabbrica in cui montare gli orologi

per conto di qualcuno
un amico che si chiamava Domenico tanti ricordi

un motorino degli allegri compagni un retrobottega
non molto di più molta vergogna

uno dei figli che adesso scrive di lui
ha già l’età in cui Elius Virgilio passò

dentro l’orbita della Costellazione del cancro
vide Acubens la pinza mortale

così diversa dalle pinzette delicate
con cui nell’ombra sollevava i bilancieri

le molle le viti controllando
il regolare scorrere del tempo

colonizzato dagli altri sempre
in cui viveva

senza poter capire certe cose
o preferendo scordarle.

Immagine: Mario Giacomelli.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).