Due poesie da Caratteri di Francesco Terzago, da poco uscito per Vydia editore.
Mia nonna mi chiamava tesoro, lipscén
diceva e mi appoggiava una mano sulla testa
e mi diceva che era stanca. Vedi lipscén le stelle
che sono sopra di noi, il cielo – l’universo che
non ha confini pensa – a tutte le cose che ci sono
dentro pensa agli anni che ci separano e pensa
a quante persone, in questo preciso momento,
ed è possibile che sia così – tesoro, lipscén – si
staranno parlando delle stesse cose, e ci sarà una
brutta donna come me che piange dicendo al nipote
cose come queste. Lassù vorticando su delle
pietre azzurre come la terra – che è una pietra azzurra
anche se il suolo è velenoso e non devi mettertelo
in bocca quando fai i tuoi giochi, mi raccomando
lipscén, tesoro, e pensa che siamo degli atomi
tenuti assieme senza un apparente motivo, perché
siamo fatti così? Fatto sta che lo siamo. E che
questi atomi ci saranno sempre, – questi atomi
ci saranno, anche quando io non ci sarò più, –
in questo modo – e non mi potrai parlare né
ascoltare. E non ricorderai più il timbro della mia voce
che ora ti è così familiare, – né questo volto rugoso
con cui ti addormenti. Perché mi sarò fatta cremare.
E mi si potrà tenere in una scatola per le scarpe
se lo vorrai. Ma quegli atomi lipscén, tesoro, chissà
che il tempo non passi per essi a una velocità differente,
che per loro il tempo sia ben poca cosa, almeno
a confronto del nostro. E io, credo, ti aspetterò
in una sala come questa o migliore. E ci sarà un momento
in cui questi atomi si riuniranno e io sarò di nuovo qui
e anche tu lo sarai, che nel frattempo avrai fatto la tua vita,
anche tu morto, passato per la vecchiaia –. E sarai
di nuovo. E ci troveremo assieme da qualche parte,
appunto. Tu, io, tua mamma, tutti quelli che vorranno.
Tutti assieme. E capendo la cosa incredibile che ci è successa
potremo stare assieme e non incontrare più la tristezza
di questa vita o il disfacimento. Sono molto stanca lipscén,
tesoro. È tardi, sono molto stanca. O forse saremo
gli stessi. Un’altra volta come questa, ma non ci ricorderemo
nulla di quello che siamo adesso. E non avremo da passare
assieme che il tempo che già abbiamo avuto, e faremo
gli stessi discorsi rammaricandoci di avere poco tempo,
io ti parlerò per l’ennesima volta di queste cose, e questo
inverno passerà ancora. E qualcuno ti chiamerà un giorno
che sarai lontano. Ti chiamerà per dirti che sono morta.
Ma sarai abbastanza cresciuto per affrontarlo,
quella voce ti dirà che ho deciso di farmi cremare.
Prenderai questa notizia come tutte le cose inaspettate e,
arrivato a casa, ti siederai da qualche parte pensando
a queste parole che ora ti sto dicendo. Ho tanto sonno,
mio tesoro.
*
Vorrei dire, agli altri passeggeri che mi sono vicini,
che spettacolo, che gran spettacolo, quest’ala
che ondeggia al mio fianco, pare quasi che
il suo vertice sia una lama puntata alla giugulare
del crepuscolo, ma è un’illusione. Che spettacolo,
vorrei che lo sapessero ma alcuni di loro
hanno il viso infilato in un sacchetto di carta, altri
stanno soffocando il finestrino con una coperta viola.
Qualcuno se ne sta con gli occhi chiusi, fingendo
di dormire e allora me ne sto zitto a contemplare
quest’ala. Mi accorgo che è simile al corpo flessuoso
di un pesce gatto, un pesce gatto che sta
risalendo la pigra corrente di un canale di irrigazione,
è un morbido movimento, una lenta esse.
Da mezzora il nostro aereo è scosso
in ogni direzione. È cominciato non appena
abbiamo concluso il pasto: noodle con piselli
e cubetti rosa di carne di maiale. Ho sempre trovato
curioso che le compagnie aeree cinesi
distribuiscano queste grigie posate di plastica –
sarebbe una scena poco edificante
una baruffa ad alta quota che veda i suoi contendenti
brandire bacchette lunghe come spilloni. L’aereo
sul quale sto viaggiando, per un istante, affonda.
Ora, un istante dopo, è più giù di alcune decine
di metri (centinaia?), un altro istante, ancora affonda.
È quasi come se questa nostra esistenza avesse
lasciato la presa, avesse ritratto, delle due,
la sua mano munifica. Il vuoto d’aria. Il vuoto d’aria
è un silenzio che si diffonde lungo tutta la cabina,
che scende come un balsamo bianco e ci segna
la fronte; anche il ragazzino, tre file avanti a me,
ha smesso di parlottare con sua madre e di fare
i capricci per il suo tè. Ognuno dei passeggeri
stipati con me in questa siringa di metallo, nell’aereo
della Shanghai Airlines, meraviglioso esemplare
di Boeing 767, sta pensando che il senso di ogni cosa
stia in quel segreto che risponde al nome di ‘peso’
– mentre cadiamo ci pare di non averne più, sentiamo
qualsiasi cosa dentro il nostro corpo diffondersi
e rivoltarsi. Quando, alcuni secondi più tardi
l’aereo riprende quota, so per certo che ognuno
di noi si è gonfiato d’elettricità. Sono
gonfio di elettricità, sono un rospo elettrico.
Sudo elettricità. Ho invocato, con le mie preghiere,
il dio benigno dell’alluminio e ora mi sento gonfio
di elettricità. Ala, ala mia – flessuosa come il corpo
di un pesce gatto, te ne prego, ala che stai
sempre al mio fianco, che sei tutta attorno a me. Ala
che raggiungi l’orizzonte, che buchi l’orizzonte,
che lo fondi, che lo pieghi e che lo intrecci
facendone un canestro di scie… Ala, lubrificata
come il corpo di un pesce gatto. Una forza
aveva consegnato all’ala una vita
apparente. Come se lei fosse divenuta, per un poco,
carne e lega metallica. Uomo e macchina
nel medesimo istante, nel medesimo luogo,
l’ala fu tutt’attorno a noi e noi fummo lei, trascesi
alle giunture metalliche, ai cilindri idraulici,
ai flap, agli slat e agli spoiler – ogni bullone,
ogni singolo bullone, sino al carburante, pompato
nelle turbine come sangue, e ai bluastri
circuiti elettrici guizzanti. E fu forse troppo facile, in quei
minuti euforici, dimenticare che c’era un altro mondo
in attesa, al disotto delle sconvolgenti nubi, un mondo
spaventoso e amato. C’era solo l’ala, il tintinnio
della carlinga, i motori sagomati dalla velocità, c’erano
le nubi ribollenti come quando, nella torrida estate,
uscimmo dimenticandoci il pane a lievitare. Quando
la sera tornammo una massa ribollente aveva inondato
il tavolaccio dandoci prova del fatto che alla vita
non basta il principio – la vita è mutamento.
Immagine: Art & Language, “Index: Incident in a Museum XIX’, 1987.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).