Caproni, la poesia e l’infanzia. Da Lorca a W. Busch

da | Giu 8, 2016

Presentiamo il sesto capitolo del saggio di Elisa Donzelli Giorgio Caproni e gli altri. Temi, percorsi e incontri nella poesia europea del Novecento, da poco uscito per Marsilio.

Il mondo dell’infanzia

Parlare di poesia e infanzia nel secondo Novecento poetico è un discorso rischioso tanto più se riferito a un poeta come Giorgio Caproni al quale, non troppo tempo fa, è stato dedicato un libro intitolato Caproni maestro, che ricostruisce bene e in dettaglio il lavoro svolto dal poeta livornese per quasi quarant’anni nella scuola primaria[1].

Pur tenendo conto di una professione che incide sulla vita privata e intellettuale dell’autore, questo capitolo si occupa di altro. Non indaga le possibili interferenze tra la poesia e l’attività di maestro, e non è neanche rivolto alla poesia dedicata – o ‘dedicabile’ – ai bambini, di cui la nostra tradizione novecentesca vanta elementi che oggi andrebbero ripensati criticamente (per esempio Il vaporetto di Alfonso Gatto, Le scarabattole di Giovanni Giudici o l’antologia Pin Pidìn di Antonio Porta e Giovanni Raboni)[2].

Questo capitolo si occupa di poesia e infanzia nei termini della presenza che il bambino o i bambini hanno dentro l’opera di Giorgio Caproni. Esso vorrebbe offrirne un’interpretazione critica tenendosi alla larga da culti e da mode che una poesia come la sua può sempre suscitare in diverse direzioni. Ed è scritto nella consapevolezza che, nel caso del poeta livornese, l’infanzia non è affatto concepita come un ‘tema’; come non era un ‘tema’ per il poeta di cui ho parlato nel capitolo precedente, F. G. Lorca. Si rilegga, per esempio, un concetto chiave stabilito da Caproni nel ripensare la poesia di Lorca, fuori da ogni lorchismo, in una recensione al carteggio Lorca-Guillén del 1960:

Il desiderio d’immediata comunicazione era così preponderante in Lorca, da farlo rassomigliare, anzi da farlo essere (ecco un altro miracolo) un bambino.

Un bambino, diciamo, non un fanciullino, perché in Lorca l’infanzia ‘non è un tema’, bensì – sempre – un profondo stato di felice natura.

Lorca, testimonia ancora Guillén, si trovava benissimo tra i piccoli, perché i piccoli si rendono subito conto di chi s’interessa a loro senza infantilismo, e sa trattarli da pari a pari, ponendosi sullo stesso piano assolutamente disinteressato (non utilitario) della loro vita profonda, com’è provato da molte di queste lettere (quelle scritte tra il ’25 e il ’28), dove Federico non manca mai d’inviare i suoi saluti ai piccoli di casa Guillén, che più d’una volta (El lagarto està ilorando, ad esempio) gli hanno ispirato una delle sue poesie più famose[3].

Nel parlare di Lorca, Caproni chiama in causa il fanciullino di Giovanni Pascoli, poeta senza il quale a suo dire “tutta la poesia novecentesca sarebbe stata diversa”[4], essendo stato proprio Pascoli a gettare per primo “il seme dell’inquietudine della parola”[5]. A più riprese, nelle interviste che gli sono state rivolte, ha poi definito “l’infanzia la sola età pura dell’uomo”[6], ma affermazioni di questo tipo non debbono trarre in inganno il lettore o essere lette superficialmente. Pascoli – il cui nome ricorre spesso come riferimento cardinale nelle recensioni, oltreché nei ricordi e negli autocommenti – è un poeta che Caproni ha ‘ascoltato’ molto a livello ritmico e ‘armonico’, non credo altrettanto a livello fonosimbolico e teorico[7]. E non è secondario che, a confronto, abbia sempre e comunque preferito il Carducci “macchiaiolo”[8].

Nella poesia di Caproni il bambino non è un fanciullino, nel senso pascoliano del termine, e per l’esattezza non è neanche, alla maniera di Lorca, un essere in costante “stato di felice natura”. Come in Lorca, invece, il bambino non ha un ruolo funzionale al meccanismo poetico poiché la sua figura è sciolta da quella responsabilità testamentaria che, a metà anni Novanta nel verso conclusivo dell’ultima raccolta Composita solvantur (“Proteggete le nostre verità”)[9], Franco Fortini aveva scelto di sposare per bilanciare la compagine nichilista della sua stessa opera in versi.

A questo livello è la poesia di Fortini in particolare, a differenza di quella di Caproni, ad aver esercitato il peso più forte su una buona parte di poeti degli anni Novanta e degli anni zero, divisi tra l’eredità fortiniana e quella di Vittorio Sereni del quale – in questo specifico ambito – mi piace ricordare la poesia dedicata al bambino greco Dimitrios, scritta dal poeta di Luino durante il richiamo alle armi nel 1941[10].

Alla tenda s’accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi sorprende,
d’uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non torce la bocca pura,
la grazia che chiede pane,
non si vela di pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo d’infanzia[11].

Nell’ambito della poesia italiana degli ultimi anni Gli strumenti umani, e soprattutto l’ultima raccolta Stella variabile, hanno marcato la linea retta che seguiva Sereni nel dipingere attimi “sorprendenti” di vita rispetto ai quali proprio l’infanzia, e per estensione l’adolescenza, tentavano di stemperare la corsa del tempo, chiamando in causa il problema etico della responsabilità (o irresponsabilità e colpa) del soggetto lirico. Come nei versi, dedicati alla terza figlia del poeta, Giovanna e i Beatles, che sono anche tra i versi più belli del secondo Novecento:

Nel mutismo domestico nella quiete
pensandosi inascoltata e sola
ridà fiato a quei redivivi.
Lungo una striscia di polvere lasciando
dietro sé schegge di suono […][12]

Il bambino che appare nella poesia di Giorgio Caproni è un bambino decisamente diverso da quello che, in forme plurime e non del tutto convergenti, viene evocato nella poesia italiana del secondo Novecento. E questo perché più che con la speranza, o come direbbe Caproni con la “disperanza” tout court, esso è in contatto interno, oltreché esterno, con l’idea del male. Un male che è anche quello del mondo infantile del tedesco Wilhelm Busch, precursore postromantico del “comic strip” e creatore della storiella di secondo Ottocento Max und Moritz della quale, nel 1974, proprio Giorgio Caproni ci ha restituito una versione italiana rinominata Pippo e Peppo. Leggiamo l’incipit:

Di ragazzi scriteriati,
eh, a dozzine ne ho incontrati…
Pippo e Peppo, per esempio,
che del senno han fatto scempio.
Fra una beffa e un bieco tiro,
sempre il bene han preso in giro;
e oggi Tizio, doman Caio
– dalla vedova al fornaio –
tutti l’hanno, nel paese,
imparato a proprie spese.
[…]
Ma alla fine, ahi che mazzata!
Ahi ahi ahi se l’han pagata!![13]

La versione caproniana del fumetto è corredata da un’introduzione di Claudio Magris, preziosa non solo per la comprensione del valore epistemologico dell’opera del vignettista tedesco – “grande ritrattista della cattiveria”[14] – ma, per certi versi, anche per quella dello stesso Caproni. Così Magris:

Max und Moritz […] è l’opera non solo più famosa, ma anche più inquietante di Busch, perché coglie la riduzione dell’umano là dove ci si attenderebbe di trovare la massima libertà e pienezza e cioè nell’infanzia. […] Malvagi i monelli, malvage le vittime pronte a trasformarsi in persecutori […] come nell’orrida filastrocca di Struwwelpeter, il Pierino Porcospino di Heinrich Hoffmann (1847). Il riso che accompagna questa storia è la soddisfazione per la caduta altrui: al pari d’ogni riso, anch’esso è il ricordo – come dirà Canetti – della bocca della fiera, che si apre sulla preda atterrata[15].

Al termine dell’introduzione Magris elogia Caproni per quella che ritiene una versione di “straordinaria libertà fantastica” e “godibilissima inventiva linguistica” in grado di trasferire Max und Moritz non solo dal tedesco all’italiano, ma anche “dalla Germania provinciale ottocentesca a una strapaesana provincia italiana”[16]. La ragione per cui mi interessava riprendere le considerazioni di Magris è evidente.

Come nel caso della prima raffigurazione della donna, nell’opera poetica di Giorgio Caproni anche l’infanzia è in contatto con la Bestia. Un contatto non immediato e che definirei piuttosto ‘fossile’ perché stratificato al di sotto di fenomeni stilistici e poetici che ne compongono la superficie. A livello profondo, invece, l’infanzia e la bestialità convergono e sono spinti l’uno verso l’altro da due fattori centrali nella poesia di Caproni: il tempo e il gioco. Fattori connaturati all’infanzia e ai quali, per natura, essa è esposta e predisposta.

Prima di verificare sul campo questa ipotesi, vorrei parlare di alcune letture compiute dal poeta di Livorno – in alcuni casi diventate traduzioni da autori stranieri – che mi sembra abbiano contribuito più di altre a dare forma all’immagine dell’infanzia e del bambino nella sua stessa opera in versi. E partirei proprio da quella “strapaesana provincia italiana” di cui parlava Magris.

A Giorgio Caproni non piaceva Cuore di De Amicis – letto e riletto a scuola dal suo maestro delle elementari – e questa ‘antipatia’ non l’ha mascherata nelle interviste o negli autocommenti[17]. Da bambino era stato un appassionato di vita degli insetti e diceva di aver imparato a leggere a quattro anni. Gli piaceva moltissimo Pinocchio che, dopo Le avventure di compare Grillo[18], forse è anche la sua prima lettura infantile. Anzi, sarebbe più giusto dire che gli piacevano i pinocchi. Non quello uniformante del disegno di Walt Disney né quello dell’edizione del Chiostri: “Pinocchio, andavo matto proprio, e mi ricordo poi che m’ero fatto un Pinocchio, di testa mia”[19].

In quella che resta l’intervista più celebre, quella con Michele Gulinucci del 1988, Caproni ha insistito sulla sua passione per l’etologia ricordando che il quartiere di Livorno in cui era nato – chiamato ‘Parterre’ – era a contatto con la terra e che più tardi a Genova, accanto alle visite al museo di storia naturale, aveva allevato rettili in casa, con esperimenti che arrivavano “fino a all’accoppiamento” degli animali[20]. Il timore per la distruzione della natura era nelle sue corde non tanto come discorso teorico, quanto per condizioni e ‘ambienti’ di vita: “Di Corso Amedeo dove nacqui, accanto al Cisternone e al piccolo zoo del Parterre, ricordo soltanto gli animali chiusi in gabbia, forse perché il mistero degli animali mi ha sempre affascinato”[21]. Questo ‘habitat naturale’ per certi versi è il sottosuolo mnemonico che, negli anni Ottanta, lo porterà a esprimersi con originalità e franchezza sul tema del rapporto tra ecologia e letteratura: “La mia paura di oggi non è l’atomica, ma è peggio, la distruzione della natura. Lo sa che io vedo gente… hanno paura di una cavalletta […] oggi hanno paura e poi lo schiacciano così… l’odio verso la bestia, la zanzara!”[22].

Accanto a Livorno e a Genova, rispetto ai primi ricordi biografici e alle primissime letture, mi sembra però che gli ascendenti letterari del mondo dell’infanzia di Giorgio Caproni vadano cercati anche nel solco di una tradizione lirica legata forse più alla poesia straniera che a quella italiana. La traccia di questa ricerca, ce la segnala lo stesso Caproni concependo la terza puntata della trasmissione radiofonica I sentieri della poesia, andata in onda nel maggio del 1961, e dedicata proprio al tema dell’infanzia[23].

Le venticinque puntate di quello che resta tra i più affascinanti lavori condotti da Caproni per la Radio individuano singoli percorsi tematici intrecciando riflessioni critiche e citazioni poetiche, in prevalenza del Novecento letterario europeo. Nel caso della puntata dedicata al rapporto poesia-infanzia in ambito italiano Caproni sceglie di citare soprattutto poeti della generazione a lui precedente – Sandro Penna, Camillo Sbarbaro, Alfonso Gatto – mentre, tra i poeti della sua generazione, la sola poesia ricordata è Il grano nuovo di Guglielmo Petroni, scrittore legato al mondo letterario fiorentino ma con una formazione culturale fuori dai canoni e semianalfabeta sino all’adolescenza. Gli autori stranieri richiamati all’ascolto sono invece T. S. Eliot con Voci di fanciulli e Jorge Guillén con la poesia I giardini nella celebre versione di Eugenio Montale, uscita su “Circoli” nel 1931, che non dimentichiamo è la rivista nella quale a 19 anni Caproni aveva scoperto Sbarbaro[24]:

Tempo in profondo; scende sui giardini.
Guarda come si posa. Ora s’affonda,
è tua l’anima sua. Che trasparenza
di sere unite insieme per l’eterno!
La tua infanzia, sì, favola di fonti[25].

Nell’anno in cui usciva Il seme del piangere, Giorgio Caproni ricordava sui giornali Guillén – amico dei poeti italiani oltreché frequentatore dei caffè fiorentini – e il suo “dono tutto spagnolo di rendere trasparente e domestica, nel nome ogni volta inventato degli oggetti più comuni, la metafisica luce d’un eterno Presente”[26]. È a livello di questa poesia che forse è possibile cogliere l’accordo musicale tra infanzia e “tempo” nell’opera in versi di Caproni, come tenterò di mostrare più avanti.

C’è almeno un terzo poeta spagnolo, che – accanto a Lorca e Guillén – ha un peso specifico per l’autore livornese rispetto alla funzione che svolge il gioco nel rapporto tra poesia e infanzia. Nel progetto dell’antologia Poeti moderni di tutto il mondo – la stessa che conteneva traduzioni da Antonio Machado e che avrebbe dovuto uscire per l’editore Curcio tra gli anni Cinquanta e Sessanta – Caproni aveva incluso anche alcune poesie di Gerardo Diego, oltre a una scheda introduttiva sull’autore di Santander[27]. Ecco un estratto della presentazione dedicata al poeta:

GERARDO DIEGO
Nato a Santander il 3 ottobre 1896, vive a Madrid. Laureato in lettere, professore di scuola media, è tra i maggiori rappresentanti del movimento creacionista, da lui fondato a Parigi nel 1920 insieme con Juan Larrea, il cileno Vicente Huidobro e il peruviano César Vallejo. Appartiene, come García Lorca, a la cosiddetta generazione del centenario di Gongora (1927), e il suo stile è sorprendente per vigoria, solidità, petrosità d’immagini, che il poeta pare aver tratto dall’aspro paesaggio natio. In rapidi e simultanei passaggi, il classicismo più rigoroso si alterna in lui alla più azzardata avanguardia. […][28]

Tra le traduzioni da Diego, in particolare E la tua infanzia, di’ – tratta dalla prima raccolta del 1920 e firmata con lo pseudonimo Attilio Picchi – rinvia direttamente alla dialettica infanzia-gioco reduplicata nell’esercizio poetico della traduzione, oltreché reiterata dalla poesia stessa.

E LA TUA INFANZIA, DI’…
E la tua infanzia, di’, dov’è la tua infanzia?
Perch’io la cerco.
Le acque che bevesti,
i fiori che calpestasti,
le trecce che annodasti,
le risate perdute.
Possibile non siano state mie?
Dimmelo, ch’io sono triste.
Quindici anni, solo tuoi, mai miei.
La tua infanzia, a me non la nascondere.
Prega Dio di retrocederci il tempo.
Tornerà la tua infanzia, e giocheremo.[29]

Con quello che resta uno dei testi più limpidi del Novecento poetico, Diego ha reso chiaro un concetto chiave legato all’amore, spesso banalmente sfruttato dalla letteratura o circoscritto alla critica psicoanalitica, in  particolare freudiana. Ogni amore è infatti l’incontro tra due infanzie (o per estensione due diverse età della vita), ignote l’una all’altra, in un tempo che ormai è fuori dall’infanzia. Su questa contraddizione si fonda la poesia di Diego a caccia di un tempo infinito che promette di essere retrocesso e restituito agli amanti affinché essi possano tornare a giocare. Tempo dell’anima – “tempo in profondo” nelle parole di Guillén tradotto da Montale – l’infanzia ricreata è la vera fonte del desiderio. Nel nodo d’amore che spinge la poesia sulle sue tracce, accanto alla lettura di Guillén, la traduzione dei versi di Diego mi sembra la cartina di tornasole di ciò che il gioco e l’arte sono ab origine per il poeta di Livorno. Come nei due poeti spagnoli, anche in Caproni l’infanzia risponde a una logica del tempo diversa da quella dell’età adulta. Stagione “illimitata”[30] della vita, essa appartiene a un tempo erratico e fuggitivo, di colpo estromesso dal tempo della storia. Un tempo che con Caproni potremmo chiamare “intatto e indiviso” o anche sparito insieme alla fidanzata morta e sprofondato tra le macerie di una guerra che ha reso irriconoscibile Genova nella ballata Le biciclette del 1947. Ma questo tempo infantile per Giorgio Caproni è plurimo e molteplice. Esso è anche il tempo di una malinconia scavalcata dalla leggenda, un luogo dove il gioco rende possibile il miracolo dell’incontro con Annina, la madre ritrovata giovane grazie all’unicità del Seme del piangere. È questo meccanismo che rende l’arte della parola il gioco più antico. In altri ambiti la stessa idea era stata espressa anche da Maurice Blanchot nel commentare la poesia di René Char dedicata alle pitture di Lascaux. Con un elemento in più indicato da Blanchot che, come nell’arte primitiva, è consustanziale anche a una poesia come quella di Caproni, così moderna e saldamente ancorata alla tradizione letteraria dell’Occidente.

C’è un elemento ‘originario’ nella poesia di Giorgio Caproni che non può lasciare indifferenti ed è il male nel senso più esteso del termine. Per il poeta livornese infatti l’infanzia non è immune dalla contraddizione di cui ogni gioco si nutre. Essa potrebbe altrimenti essere definita come un’oscillazione perpetua tra bene e male, o una corda tesa tra purezza e animalità che, in ambiti diversi dalla poesia, il filosofo Georges Bataille – ripreso poi da Maurice Blanchot – ha individuato come nucleo fondante dell’arte di Lascaux, e di conseguenza dell’arte a venire.

Non parlerò dunque di tempo e gioco, o di poesia e infanzia, nell’opera di Giorgio Caproni senza avere parlato prima della scoperta del male. La ‘scoperta’ di una condizione della natura che risale all’infanzia e che diventa assidua ricerca poetica.

Il tempo e il gioco

I.

In un saggio molto bello di recente pubblicazione Paolo Zublena ha parlato del teatro e dei romanzi di Jean Genet, tradotti da Caproni in un periodo compreso tra la metà degli anni Sessanta e il 1975, come della scoperta “di una ritualità quasi mistica della violenza”. Non a torto, lo studioso mostra come l’episodio della rissa tra fratelli in Querelle de Brest, “il gioco omicida” al centro di Pompes funèbres, e ancor più la zuffa tra soldati nel Journal du Voleur abbiano risvegliato “in Caproni l’urgenza di affrontare i temi della violenza e del male” agendo poi rispettivamente sulla sezione In Boemia della raccolta Il franco cacciatore e sulla poesia I coltelli del Muro della terra[31].

Jean Genet ha un peso indiscutibile nella gestazione del male dentro l’opera di Giorgio Caproni. E forse lo ha, ancor prima e ancor di più, un autore come Louis-Ferdinand Céline in quella che resta l’impresa più complessa condotta dal poeta livornese nel lavoro di traduzione da un testo straniero, di nuovo di un testo in prosa: Mort à credit, uscito per Garzanti nella prima versione italiana del 1964[32]. Di fronte al carattere estremo della scrittura céliniana e alla sua parziale intraducibilità, Caproni non nega di essersi fatto aiutare da André Frénaud cercando così di sviscerare l’idioletto iperbolico dell’argot parigino al quale – come ha scritto Pietro Benzoni nell’attenta analisi dedicata al lavoro linguistico di Caproni su Mort à crédit – forse solo la raccolta postuma Res amissa è per certi versi rapportabile, in termini di “oltranza linguistica” e di predisposizione filosofica. La “calma” ateologia dell’ultimo Caproni, nella direzione del pensiero di Giorgio Agamben, sfiora il nichilismo esuberante di Céline[33].

Si tratta di riferimenti letterari che attirano, incidono, spesso modificano il rapporto tra poesia e male nel verso di Caproni. Ma il male è dentro la sua poesia molto prima degli anni Sessanta e, per quanto divenga l’accordo linguistico in crescendo e la dominante spaziale della poesia del tardo Caproni (con l’emersione verticale del Conte di Kevenhüller e poi con l’esplosione stilistica di Res amissa), in principio non lo è solo in misura ‘sonnecchiante’.

Il male nella poesia di Caproni non è sempre uguale a se stesso ma è dentro la poesia praticamente da sempre, da Come un’allegoria agli ultimi versi. E sono proprio le immagini legate all’infanzia a contenerne il germe[34].

Nel poeta di Livorno l’infanzia è costituita da tre entità spesso ben distinguibili, spesso confluite l’una nell’altra, che proverei a definire in questo modo: la sua rappresentazione attraverso il ricordo di sé da bambino; l’osservazione da adulto dell’infanzia degli altri (dei propri figli, dei figli degli altri, più spesso dei bambini ignoti che popolano le città); e la comparsa del bambino immaginario, quello dell’“Anima”. Lo stesso che scompare di colpo nelle gallerie delle Stanze della funicolare e poi – se si presta attenzione – riappare diverso e nuovo dentro Il seme del piangere, nella Livorno della giovinezza di Annina, la madre ripensata e reinventata per ciò che era stata prima che Giorgio nascesse.

Alla prima e alla seconda categoria sono ascrivibili tutte quelle immagini legate al ricordo delle estati trascorse in Maremma e molto vive nei versi della prima raccolta Come un’allegoria. Qui i bambini appaiono per lo più in gruppo, o associati all’idea dell’inseguimento nel gioco di strada fatto di cortili, battaglie, grida, “risse” e “sassaiole”: “le risse e le sassaiole / chiassose […] bocche accaldate di bimbi, dopo sfrenate rincorse” in Vento di prima estate; la bocca di un “ragazzo” che “mi passa accanto” in Fine di giorno; “la gota d’un bimbo / che ha la febbre” e “i colori dei giochi infantili” in Sera di Maremma; “selvagge grida / uno stuolo di bimbi” in San Giovambattista; “fanciullesche / grida” in Saltimbanchi[35]. E, con una sola occorrenza, anche in Ballo a Fontanigorda, il secondo libro legato al matrimonio con Rina, ritornano “bimbi in gioco” che “un fiato / fatuo muove nell’aria” (Nudo e rena)[36]. Corse e rincorse che all’altezza di Come un’allegoria, quando Caproni ha ventitré anni ed è fidanzato con Olga, appartengono all’aura di un’animalità mossa e sensuale contenuta nella poesia A Cecco, l’allevatore e domatore di cavalli di San Biagio in Maremma cui Caproni dedica uno dei più bei ricordi d’infanzia scritti in versi:

………Dalla pianura ventosa
della tua terra ho avuto
quest’aspra volontà.

………Lontano dalla mal’aria,
domerò la mia vita
come domavi le tue cavalle
ombrose,
tutte slanci ed inutili
corse[37].

Riconsiderando il primo tempo della poesia attraverso la rappresentazione dell’infanzia, mi sembra che l’idea della caccia – punto nevralgico del Franco cacciatore e poi del Conte di Kevenhüller – nasca già negli anni Trenta sospesa tra il ricordo reale del bambino Giorgio e una innata predisposizione al gioco più antico, quello dell’arte, come innegabilmente mostra una delle prime e più ariose poesie scritte da Caproni nel 1933, Prima luce: “balbettanti parole ancora / infantili, la prima luce. / […] / (Gli uccelli sono sempre i primi / pensieri del mondo).”[38]. E faccio qui notare che appartiene a Pierre Jean Jouve un verso come “Les silences des hances quand les oiseaux du temps / Ont presque fini de vivre” secondo una tradizione che, come ha osservato Stefano Agosti, da Dante a Ungaretti, vede negli uccelli la consumazione e sublimazione dell’atto erotico da parte degli amanti[39].

Il gioco dei bambini attraversa, con immersioni ed emersioni più o meno evidenti, l’intera opera in versi dell’autore livornese[40]. In continuità con la poesia giovanile, giochi di strada, “risse” e “sassaiole” puntellano infatti la poesia a venire e, sul tema poesia-infanzia, sembra difficile e forse forviante azzardare forme rigide di periodizzazione. Vi sono “sassaiole” e giochi nel Congedo del viaggiatore cerimonioso del 1965: in Il fischio (parla il guardiacaccia) “Vedete, una volta vivevo / sul mare. Stavo a Livorno. / […] tra sassaiole / fitte di ragazzacci / aizzati”[41]; in Scalo dei fiorentini (“bimbi / in fuga dietro il pallone / o il cerchio”[42]). Vi sono giochi di strada in Erba francese, breve raccolta nata durante un viaggio con la figlia Silvana nel 1978 a Parigi dove il poeta vede “Il biondo / – il blu – di due bambini” o “Tre o quattro ragazzini / che giocano a pallone”[43]. E un discorso di questo tipo potrebbe essere esteso a racconti come Il giuoco del pallone, scritto tra il 1947 e il 1948 in occasione delle Olimpiadi della poesia di Londra e ispirato al ricordo delle passeggiate domenicali con il padre agli Archi di Livorno; un’immagine che ritorna anche nel Lamento III del Passaggio d’Enea e nelle interviste[44].

In relazione a questo aspetto, e riprendendo la cronologia dei versi, occorrenze riferite al gioco e alle rincorse infantili sono presenti soprattutto nella prima edizione della terza raccolta Finzioni che mantiene, anche dentro ai libri successivi, proprio la poesia intitolata A mio padre[45]. Va detto infatti che al padre – non alla madre – è curiosamente dedicata la prima poesia di Caproni rivolta alla figura genitoriale[46]. Esclusa la ‘parentesi’ del Seme del piangere, il ricordo del padre Attilio, quando Giorgio era bambino, un padre che pare fabbricasse fulmini dentro casa[47], ritorna con una certa insistenza nei versi degli anni Sessanta (si veda in particolare Il vetrone del Muro della terra[48]), ma anche in quelli postumi confluiti in Res amissa. Attilio Caproni è una figura paterna la cui voce – più di quella materna – appare quasi sempre in frammenti di discorso diretto, come in Qualcosa nella mente albeggia[49] o nel testo Intercalare associato nel ricordo a una minaccia animale: «‘Maledetto il serpente’! / Era un tuo intercalare, babbo. / Io ridevo. Ma allora / io mica capivo niente»[50]. I versi dedicati al padre e ai ricordi di Giorgio bambino sono anche testimoni di un’idea dell’infanzia che non è vaccinata al male della vita. Un procedimento analogo è infatti alla base di un altro testo del Congedo del viaggiatore cerimonioso intitolato Toba e nato dal ricordo di un compagno d’infanzia che, di nuovo tra rissa e sassaiole, aveva scagliato una pietra contro la testa di Giorgio: “C’è ancora tutto l’inverno / (il brivido: il caldo) / del mio infantile inferno”[51]. La poesia, dedicata “A Silvana, ad Attilio Mauro”, mette in contatto l’infanzia del poeta con quella dei propri figli attraverso la responsabilità genitoriale di una parola che non nega o mitizza il rapporto con il male.

Dopo Finzioni, con la quarta raccolta Cronistoria incentrata sul fantasma di Olga e la “rossa paura” di una città vasta e nuova come Roma, l’inseguimento feroce e giocoso dei bambini slitta sull’immagine della caccia come rincorsa amorosa. In questo paesaggio “plenari[o]”[52] la pietra delle sassaiole diventa lapide e la “mite / fidanzata così completamente / morta”[53], contaminata da nuove presenze romane, segna il passaggio brusco, lo strappo che separa infanzia e adolescenza dalla vita adulta. Il nuovo libro è composto di due parti: Cronistoria vera e propria con le nuove poesie datate “1938-1942”, e la vecchia raccolta Finzioni che muta la data di composizione da “1932-1940” a “1932-1939”. Le due parti qui riunite sono divise da due brevi prose intitolate Ai genitori, la prima per la madre e la seconda per il padre, poi espunte in edizioni successive[54]. La scelta di questa struttura – che rovescia l’ordine cronologico di composizione delle poesie, prima quelle più recenti e dopo quelle più antiche – rispecchia perfettamente il livello profondo di un libro come Cronistoria, basato sulla dialettica poesia-infanzia. In particolar modo è all’altezza dei Sonetti dell’anniversario, la seconda delle due sezioni di Cronistoria, che Giorgio Caproni tenta per la prima volta l’inversione del tempo in poesia, quella che Gerardo Diego chiama retrocessione nella poesia Y tu infancia, dime, tradotta dal poeta livornese almeno una decina di anni dopo l’uscita della raccolta del 1943.

In Cronistoria l’infanzia spunta all’orizzonte già nel II dei Sonetti dell’anniversario (“il suono chiaro delle trombe infantili apre al mio amore / la morte”)[55]. È una musica infantile – inutile ripetere che Caproni aveva studiato violino da bambino – che mette in contatto Eros e Thanatos. Ma è con il IV dei Sonetti che si compie davvero il rito del “transito” tra l’infanzia e l’età adulta, e sempre nel segno del ricordo delle cavalle maremmane di Cecco:

Brucerà dalla bocca dei cavalli
rossi di fuga l’alito rovente
delle sere che accendono le valli
fino all’infanzia illimitata, ardente
di risse e di barbarici stridori
sulle tombe aggredite. E a quali brezze
secche riavvamperanno oltre i pianori
quegli affanni indicibili – le altezze
mai più raggiunte dal fuoco del cuore!
Là verrai tu, con la malinconia
del tuo sangue più chiuso, e quel furore
appannerà il tuo fiato – tenebrìa
di cenere, soffusa nel nitore
di quale immensa accecata, allegria[56].

In questo caso, più che in altri, la struttura monoblocco non impedisce di vedere che il sonetto è composto di due diverse parti, come evidenzia anche la disposizione grafica di una seconda versione del medesimo testo contenuta nei Faticati giorni (la prima versione del libro in cui sono presenti tutte le versioni dei Sonetti dell’anniversario pubblicate grazie ad Adele Dei[57]). La prima parte (vv. 1-9) è una corsa sfrenata che descrive il montare di un amore adolescenziale travolto nei vortici di Amore e Morte e ardente come un’infanzia barbarica e “illimitata”. La seconda parte (vv.10-14), invece, è il tentativo chiaro di bloccare questa corsa, di dare un alt al tempo e all’inseguimento per scongiurare il rischio della perdita: “Là verrai tu” (I emistichio del verso 10). Su questo verso si apre la cesura tra i due momenti di cui il sonetto si compone: il primo (vv. 1-9) costruito sul ricordo di un tempo antico ma reale; il secondo (vv. 10-14) concepito nel tempo della finzione e dell’oltre. Dove precisamente va e si ferma (“Là verrai tu” v. 10) il fantasma della fidanzata persa o, più in generale, qualsiasi forma di incontro nell’amore?

Scriveva Caproni traducendo Diego: “Prega Dio di retrocederci il tempo. / Tornerà la tua infanzia, e giocheremo”. Il IV dei Sonetti dell’anniversario appartiene a una dimensione completamente diversa dalle atmosfere sognanti del poeta di Santander, simili ai versi del maestro Antonio Machado. Caproni scrive questo sonetto a Loco il 3 settembre del 1942[58]. Olga è morta da più di sei anni, il matrimonio con Rina e il trasferimento per insegnare nelle scuole di Roma lo hanno portato altrove. La capitale è una città che apre a nuovi spazi e garantisce nuovi incontri. Ma il distacco è brutale, e la poesia soccorre alla frizione. In questo senso, il IV dei Sonetti dell’anniversario potrebbe essere il primo vero tentativo – anche se parzialmente fallito – di mettere in contatto il bambino e l’adulto nel gioco “illimitat[o]” dell’infanzia. Proprio nel prorompere inaspettato di un’infanzia ulteriore e successiva, il poeta rompe il cerchio della “malinconia” spingendo la corsa d’amore al limite dell’“accecata allegria”. Un miracolo, questo, che Roma gli nega del tutto e che, come mostrerò più avanti, avverrà invece nel Seme del piangere. Dentro una vecchia Livorno ormai sparita, in grado di far rincontrare due diverse età della vita, anche se per una stagione o per un attimo soltanto.

II.

Tra Cronistoria e Il seme del piangere, due tentativi opposti (uno fallito, l’altro riuscito) di retrocedere il tempo, c’è l’inizio e c’è la fine della guerra. E soprattutto ci sono Le stanze della funicolare e Il passaggio d’Enea.

Oltre il fantasma del primo amore, il matrimonio e il trasferimento a Roma, dopo l’esperienza bellica raccontata in Giorni aperti e la Resistenza in Val Trebbia, la poesia deve fare i conti con un’Italia schiacciata dal peso delle bombe. Gli anni dell’immediato dopoguerra, ha spiegato Luigi Surdich, “vedono Caproni impegnato in attività culturali e letterarie che esulano dall’ambito della produzione poetica”[59]. La poesia resta in silenzio e bisognerà aspettare il 1949 per leggere su “Botteghe oscure” una stesura parziale delle prime Stanze della funicolare, intitolata Prime stanze de La funivia[60]. Sui giornali, invece, la scrittura diviene lo specchio di grandi passaggi da un luogo all’altro della vita: dal fronte alla Val Trebbia, da Genova al rientro definitivo a Roma. Testimone principe di queste trasformazioni è una Lettera da Genova indirizzata all’amico Libero Bigiaretti e apparsa nel novembre del ’45 su “Aretusa” come ultimo abbraccio del poeta alla sua “città dell’anima”, sfigurata dalla guerra. Tra le “macerie rosse e bianche” di un luogo irriconoscibile, ironia della storia, le corse sfrenate dell’infanzia sembrano riprendere la loro imperterrita azione fuori dal tempo. Solo una presenza rende Genova ancora vistosamente umana: i “ragazzini mocciosi di via Ettore Rolli […]; mentre a Roma si possono fondere e si fondono tali ragazzini, con l’opulenza sempre plebea d’una piazza Barberini o meglio ancora d’una Piazza Navona”[61].

Roma, più di qualunque altra città, minaccia il tempo dell’infanzia e Caproni lo dice pubblicamente sui giornali anche l’anno successivo. Nel 1946 il nome del poeta di Livorno si lega infatti al progetto sperimentale de “Il Politecnico” che anima il dibattito culturale e politico dell’immediato dopoguerra, focalizzando l’attenzione sulle difficili condizioni socio-economiche del paese. Tra le grandi firme ci sono Vittorini e Pratolini, autori delle inchieste sulla Fiat e sulla Montecatini. L’indagine sulle borgate di Pietralata e del Tiburtino III, nate dopo lo sventramento fascista del 1935-’40, è affidata invece a Caproni che, pur non essendo romano, è tornato a Roma e conosce bene Roma. In due articoli di grande efficacia e bellezza – Le “borgate” confino di Roma e Viaggio tra gli ‘esiliati’ di Roma – dopo il primo ‘abbaglio’ provato alla fine degli anni Trenta, il poeta-reporter scopre il volto livido delle periferie della città e s’interroga sulle ragioni storiche e sociali che avevano contribuito all’indigenza di migliaia di uomini[62]. Sono i ragazzi delle borgate, i bambini rinchiusi nell’enorme ghetto di Pietralata, i veri protagonisti del viaggio ai margini della capitale. E sono bambini descritti nel solco di una ferocia quanto più bestiale:

Non se ne vedono in giro adulti a Pietralata […] perché per lavorare in città essi devono partire con la prima “camionetta” e tornare con l’ultima […]. E gli innumerevoli ragazzi di Pietralata è naturale che approfittino picchiandosi l’uno con l’altro di santa ragione e sprecando tutta la loro voce nello spazio caliginoso dell’Agro, sempre troppo ampio perché il clamore di quei loro disperati giuochi di bimbi giunga fino alle distratte orecchie della città[63].

Cosa succede nel frattempo alla poesia di Giorgio Caproni all’indomani della guerra? La scrittura in versi lavora nel sottosuolo e il silenzio, rotto nel 1949 su “Botteghe oscure” con la prima stesura delle Stanze della funicolare, ne porta il segno.

Nel piano generale costruito per il poemetto e in una serie di autocommenti emerge che Le stanze della funicolare, uscite per De Luca nel ’52 e riprese nel ’56 dentro Il Passaggio d’Enea, “sono un poco il simbolo, o l’allegoria, della vita umana, vista come inarrestabile viaggio verso la morte”[64]. Nel progetto originario il testo è articolato in dieci strofe, anziché dodici, corrispondenti a diverse fasi della vita. Dalla prima strofa, ancora dentro l’utero, l’utente – che, specifica Zuliani, non va inteso “in senso autobiografico” ma universale[65] – attraversa la nascita, l’infanzia, la giovinezza, la virilità, la maturità, per giungere a forme varie di vecchiaia e poi alla sparizione finale nella nebbia[66]. L’ambientazione è quella della funicolare di Genova che nella realtà si arresta al Righi, il punto più alto della città. Nel viaggio poetico, invece, la funicolare attraversa altri quartieri genovesi tra cui Oregina dove probabilmente abitava Olga, secondo quanto emerge dall’Apparato critico del Meridiano[67].

Se si esclude la terza strofa – che secondo il piano dell’autore corrisponderebbe all’infanzia spesa tra “mercati di pesce e d’erbe”, dove facilmente si intravede Livorno – nelle Stanze della funicolare compare un solo bambino. Ed è un bambino che appare all’improvviso e scompare ancor più improvvisamente nella settima strofa del poemetto.

[…] allo Zerbino
alto sopra le carceri, nel grigio
fiato di tramontana ora un bambino
corre ancora di piume – porta il viso
ad un palmo dai vetri, e se scompare
nel colpo che di tenebra riannera
l’aria, fra le rovine d’aria appare
dei genovesi in raduno la nera
mutria – la gara a bocce che il fragore
ai lentissimi passi placa, e in rima
i colpi delle bocce col nitore
entro l’arca di colpe chiude. […][68]

Chi è questo bambino, nel quartiere dello Zerbino, il cui gioco in corsa è quasi impedito e sovrastato dall’apparizione del gioco lento e senile delle bocce? In consonanza con l’idea di universalità cui il poemetto tende, partirei dal presupposto essenziale che non è Giorgio Caproni nei primi anni, né è l’allegoria del poeta. Innanzitutto perché il poeta è dentro “l’arca”[69] mentre il bambino della settima strofa sbuca da fuori e si trova dall’altra parte del vetro sfuggendo rapidamente alla vista. Mi sembra importante precisare che Caproni scrive questa strofa dopo quella dedicata al quartiere di Olga, Oregina, e probabilmente la scrive dopo un’interruzione rispetto alle prime strofe pubblicate su “Botteghe oscure”[70]. Un blocco della scrittura che lo stesso Luca Zuliani ha ricondotto al ricordo o all’apparizione del fantasma della prima fidanzata nella sesta strofa del poemetto.

Non dimentichiamo che, ospite della figlia Marcella a Palermo, nel ’50 muore la madre del poeta e che, come ricordava Biancamaria Frabotta nel ’93, proprio nel 1951, Caproni firma per Einaudi la traduzione del Tempo ritrovato di Marcel Proust[71]. Con la settima strofa delle Stanze della funicolare, probabilmente scritta dopo il 1950, la poesia riprende il suo corso ma non ritrova più la possibilità di un contatto diretto con l’infanzia. Quell’infanzia, che si ha l’illusione di ritrovare nell’incontro d’amore, non è più possibile se posta accanto al ricordo della scomparsa di Olga e al lutto per la morte della madre. Ma è proprio qui che nasce e muore l’invenzione del bambino delle Stanze della funicolare, un bambino che attraversa la poesia e del quale perdiamo le tracce, proprio come sparisce la sagoma di un fantasma. Anche in questo caso, come nei Sonetti dell’anniversario, l’infanzia ritrovata fallisce la sua missione; l’immagine del bambino letteralmente sfugge tra i versi e sfugge la possibilità del gioco delle “sassaiole” e delle “rincorse”, qui sovrastato dalla gara funesta dei colpi di bocce. E, mettendo in relazione il “fanciullo” delle Stanze della funicolare con i “vecchi e tetri giocatori di bocce”, Bàrberi Squarotti ha anche sottolineato che “l’arca” di questa settima stanza è diversa dalla altre perché è, a tutti gli effetti, un’“arca di colpe”[72].

Già nel 1947 la poesia di Caproni si era fatta testimone di un disastro epocale descritto nelle strofe del poemetto Le biciclette dedicato all’amico Bigiaretti e nato in consonanza con la Lettera da Genova. Il ronzio dei bicicli (“i bicicli ronzano funesti”[73]) annunciava i colpi di bocce delle Stanze della funicolare inaugurando il “tempo ormai diviso” dal “brivido” e dal “grido” della guerra[74]. E per quanto l’ultima strofa de Le biciclette invocasse per “chi non fu / storia ancora conclusa” la presenza di un “tempo ancora intatto ed indiviso”[75] – che in questi termini è prima di ogni altra cosa il tempo dell’infanzia – il bambino-fantasma delle Stanze della funicolare avrebbe ridotto al grado zero ogni futura aspettativa.

Concluse le Stanze della funicolare, nella raccolta Il passaggio d’Enea – i cui testi sono in prevalenza composti dopo il 1950 e, dunque, dopo la morte della madre – è evidente che il poeta adulto resta da solo. È questo il caso, tra gli altri, di All alone una poesia divisa in tre parti dove nell’Epilogo, scritto nell’estate del 1955 sulla scia della poesia The Bells di E. A. Poe posta in epigrafe alla seconda parte del testo, Caproni appare per un istante quasi “accecato di gloria” (così in una prima stesura) e travolto dal desiderio di non avere genitori: “[…] a un tratto mi sentii senza / più padre (senza più madre / e famiglia, e vittoria), / e solo”[76]. Ma questa tragica euforia ha breve durata visto che, giunto “nel punto, / d’estrema solitudine”[77], di fronte al monumento illeso d’Enea in piazza Bandiera (la più bombardata delle piazze di Genova), al poeta viene in mente di scrivere un poemetto dai toni completamente diversi che darà il titolo alla raccolta del 1956.

Ne Il passaggio d’Enea Caproni recupera il mito del figlio di Anchise che, con il padre sulle spalle e il figlioletto per mano, per dirla con Surdich “sta a rappresentare il crollo del passato e l’incertezza del futuro, il dramma dei padri da salvare e dei figli da condurre verso un domani di cui non si intravedono i contorni”[78]. La condizione universale dell’uomo contemporaneo che allegorizza la disfatta del mito virgiliano – descritta a più riprese da Caproni stesso come quella di un uomo “con un passato che crolla da tutte le parti e […] un avvenire che ancora non si regge sulle sue gambe”[79] – non è certo quella del tempo dell’infanzia. È a questa altezza, come ha mostrato Davide Colussi in un recente saggio sulla sintassi caproniana, che si realizza il livello massimo di complessità e “complicazione nell’ordine delle parole” del medio Caproni[80]. Un fenomeno e una tendenza tipiche già di Cronistoria e che, dopo la radicalizzazione del Passaggio d’Enea, si attenuano o esauriscono quasi del tutto in un libro ‘chiaro’ e ‘lineare’ – a livello sintattico e a livello semantico – come il successivo Seme del piangere.

Anche in questo senso c’è un tempo nella poesia di Giorgio Caproni nel quale il bambino, risucchiato dal buio delle gallerie delle Stanze della funicolare, riesce a riprendersi quell’infanzia che sembrava perduta. È un tempo unico nella poesia dell’autore livornese ed è quello del Seme del piangere, la raccolta del 1959 che, con una felice espressione da non dimenticare, Biancamaria Frabotta ha definito “uno di quei libri che mettono in imbarazzo i critici di professione abituati a interpretare il senso facendo a meno della comprensione del significato […] un libro pericolosamente, scandalosamente chiaro”[81].

Mi sembra possibile dire che – a livello stilistico e a livello simbolico – Il seme del piangere è il libro dove l’amore e il desiderio trovano il proprio compimento nell’incontro di infanzia e giovinezza. Un incontro riuscito e che dura davvero poco perché è circondato dallo spettro della sparizione. “Livorno per me è l’infanzia: è Annina, è la madre. Genova, invece, è mézigue” dichiara Caproni nel 1965 a Ferdinando Camon[82].

Nella raccolta del 1959, la figura del bambino ritorna più volte e più volte rischia di perdersi. Ciò avviene in primis nel poemetto Ad portam inferi dove sia Annina sia il bambino – in questo caso il poeta e Giorgio da bambino coincidono – non sanno più in che tempo si trovino:

[…]

………..Davanti al cappuccino
che si raffredda, Annina
di nuovo senza anello, pensa
di scrivere al suo bambino
almeno una cartolina:
[…] Ma invano tenta
di ricordare: non sa
nemmeno lei, non rammenta
se è morto o se ancora è vivo
e si confonde […][83].

Su questa ‘confusione’ spazio-temporale e identitaria si fonda la poesia del Seme del piangere, una confusione diffusa che è il motore stesso di tanta chiarezza (“Annina / […] / cerca / confusa nella borsetta”)[84]. Più di una volta in Ad portam inferi Annina “ritorna col suo pensiero / […] al suo bambino” e ha l’illusione di trovarlo non sapendo, o fingendo di non sapere, che “quel bambino è sparito! / È cresciuto, ha tradito, / fugge ora rincorso / pel mondo dall’errore / e dal peccato”[85]. Il suo è un inseguimento che funziona anche al rovescio e dove anche il bambino cerca invano Annina tra le strade di Livorno, come nell’incipit della poesia Il seme del piangere scritta tra il 1953 e il 1954 dopo una lunga elaborazione:

 ……Quanta Livorno, nera
d’acqua e – di panchina – bianca!

……Sperduto sul Voltone,
o nel buio d’un portone,
che lacrime nel bambino
che, debole come un cerino,
tutto l’intero giorno
aveva girato Livorno![86]

La ragione del pianto di matrice dantesca, che suggella e dà origine al titolo della raccolta (si veda Purgatorio XXXI, 46), è l’episodio reale nel 1950 a Palermo della morte di Anna Picchi, raccontata nel componimento Il carro di vetro[87]. Dopo la scomparsa della madre, Annina e il bambino Giorgio sembrano non riuscire più a incontrarsi, nemmeno nella finzione che li rende personaggi. Come gli altri amori, anche il loro appare un inseguimento destinato a fallire. Ma nel nucleo costitutivo del Seme del piangere che sono i Versi livornesi – un gruppo di testi che il poeta stesso dichiara essere “in fondo una poesia sola”[88] – Caproni trova un modo di porre fine alla caccia grazie a un terzo fattore giunto in soccorso del bambino smarrito.

Nei Versi livornesi dedicati ad Annina, Giorgio Caproni rilegge e riecheggia in forme diverse il celebre Perch’io no spero di tornar giammai di Guido Cavalcanti con uno scopo ben preciso: quello di realizzare il tempo retrocesso e affermare, seppure al futuro, l’incontro tra infanzia e giovinezza. La grande invenzione dell’“Anima” come personaggio poetico, introdotta nel testo incipitario Preghiera, dà esito a Ultima preghiera, la poesia di Giorgio Caproni che al temine di un percorso tormentato come i Versi livornesi esplicita e compie il miracolo della retrocessione del tempo e del ricongiungersi di due età della vita straniere l’una all’altra:

Anima mia, fa’ in fretta.
Ti presto la bicicletta,
ma corri. […]
Arriverai a Livorno
vedrai, prima di giorno.
Non ci sarà nessuno
ancora, ma uno
per uno guarda chi esce
da ogni portone, e aspetta
(mentre odora di pesce
e di notte il selciato)
la figurina netta,
nel buio volta al mercato.
[…]
tu mórmorale all’orecchio
(più lieve del mio sospiro,
messole un braccio in giro
alla vita) in un soffio
ciò ch’io e il mio rimorso,
pur parlassimo piano,
non le potremmo dire
senza vederla arrossire.

Dille chi ti ha mandato:
suo figlio, il suo fidanzato.
D’altro non ti chiedo.
Poi, va’ pure in congedo[89].

La datazione di Ultima preghiera è piuttosto incerta e sicuramente si tratta di una poesia rivista e completata nella prima metà del 1958. Luca Zuliani spiega che nell’opera poetica di Caproni questa composizione è in assoluto quella con la maggiore quantità di documentazioni manoscritte, testimoni della complessità della gestazione di un testo che, al contrario, appare invece incredibilmente ‘chiaro’ nella sua versione definitiva. Una poesia lineare nel suo esito finale, anche grazie all’uso ‘naturale’ della rima e alla manifestazione nitida di un significato non artificiale che ha però visto Caproni fortemente impegnato, direi anche tormentato, sul piano compositivo. Basti osservare la difficoltà con cui il poeta giunge a elaborare l’ultima strofa del poemetto e in particolar modo l’occorrenza “fidanzato” che non appare mai nelle molteplici versioni precedenti a quella definitiva (dove dominano espressioni di freno quali “timido”, “gentile”, “si raccomanda”), come evidenziano le pagine a essa dedicate nell’Apparato critico del Meridiano[90].

Tra Preghiera, poesia d’apertura, e Ultima preghiera, posta in penultima posizione nei Versi livornesi, si consuma lo sforzo del tempo ritrovato: il tempo dell’infanzia che ritrova se stessa nella giovinezza di Annina, e viceversa quello della giovinezza che rivive l’infanzia. Ciò accade perché Il seme del piangere – nel vertice dei Versi livornesi – è un libro fuori dal tempo dove, per dirla con Guillén e Montale, la parola è anche “favola di fonti”. Ma nell’incontro tra due diverse età della vita – un incontro che non è immune alla colpa – Annina, l’Anima e il bambino del Seme del piangere sono anche destinati a perdersi. E a perdersi ancora più violentemente di prima.

Ne Il becolino una poesia del 1959, appartenente alla seconda sezione del Seme del piangere intitolata Altri versi, l’atmosfera è già cambiata rispetto alla sezione precedente dei Versi livornesi. La “paura” scongiurata negli slanci di Ultima preghiera si riaffaccia alle porte e l’autore ci avverte che “un bambino / di nuovo sarebbe corso, / sfuggito di mano, sul Fosso / per mettersi a singhiozzare”[91]. “I becolini” scrive Caproni nella Nota alla prima edizione del Seme del piangere “nella Livorno della mia infanzia, erano lunghe imbarcazione da carico […] manovrate […] da un barcaiolo che, puntata un’asta sul fondo, a questa s’appoggiava camminando da prua a poppa”[92]. Questo testo è in contatto con l’Epilogo di All Alone per molteplici ragioni tra le quali il ricordo infantile delle donne che frequentavano di notte il porto di Genova: in All alone “una figura / di donna lunga e magra / nella sua veste discinta”[93], ne Il becolino “la donna dalle anche / ladre, che dalla sera / alla mattina andava / su e giù pel molo”[94] entrambe associate all’immagine della “cagna” (come ho già evidenziato nel capitolo su Char e Blanchot). Nell’intervista radiofonica del 1988, Caproni aveva dichiarato che la poesia Il becolino parlava di «iniziazione ‘sessuale’»; poi si era corretto spiegando che di quella donna apparsa nei versi “io bambino vedevo, capivo tutto quello che combinava. Naturalmente con quella purezza che si ha da bambini, ne soffrivo, e quindi mi faceva pensare alla morte più che all’amore […] è più un’iniziazione di morte, se dobbiamo parlare di iniziazione”[95]. Dopo il miracolo di Ultima preghiera, la poesia riprendeva così il normale corso che, sin dai versi di Come un’allegoria e sin dalle letture giovanili di Jouve, legava infanzia e male e dove la sensualità femminile era rapportata all’idea ancestrale di una Bestia primitiva.

È con i Versi livornesi che si compie ed esaurisce il miracolo del tempo retrocesso. Ma non si può dire che l’infanzia termini a questo livello, o che scompaia all’altezza di questa stazione della poesia di Giorgio Caproni. Il Congedo del viaggiatore cerimonioso e la poesia degli anni Sessanta segnano un passaggio decisivo, ed è Il muro della terra a rappresentare la vera chiave di volta di una matrice stilistica che volgerà, di raccolta in raccolta, verso il segno meno. Oltre il Congedo, del quale ho mostrato le principali occorrenze, le immagini legate all’infanzia sembrano mine vaganti di una guerra che si gioca sui territori del nulla. Di recente Alfonso Berardinelli ha usato un’espressione che mi piace riprendere per descrivere “la marcia” delle ultime raccolte: “basta aprire il libri di Caproni per ‘vedere’ fisicamente, graficamente, questa presenza delle assenze, l’invasione del nulla e dei vuoti, che ne sono gli ambasciatori”[96].

Ma cosa sono esattamente queste presenze nell’assenza? Il “poco” di cui anche Italo Calvino aveva parlato a proposito di Caproni in una delle dichiarazioni che uniscono di più le diverse interpretazioni critiche dell’opera caproniana?[97]

Anche negli ultimi quindici anni di produzione poetica, nelle raccolte che vanno dal 1975 al 1991 riemergono comunque, per quanto ridotti a schegge, “spiazzi / dell’infanzia” del poeta[98]. Sono attimi legati alla paura e alla ferocia animale del bambino cresciuto a Livorno e ora risucchiati nel vortice di un impersonale istinto omicida cui volge l’umanità. Così nel bambino che non perdona l’assenza o “inesistenza” di Dio in Cantabile (ma stonato) del Muro della terra[99]; ma in questa raccolta si pensi anche a una poesia come Il gibbone dove il ricordo infantile degli animali in gabbia è associato alla sensazione di prigionia che il poeta vive in una città come Roma[100]. Così nel nome di Mirko, “compagno di sassaiole / a San Martino” che, insieme a Germana la prima ragazzona baciata sulle labbra neanche adolescente, compare fulmineo in una poesia del Conte di Kevenhüller[101]; così ancora nel ricordo dell’amico pittore Jean Bourillon in un altro testo del Conte di Kevenhüller intitolato Alla foce, la sera (Frammento su un ricordo d’infanzia)[102]; e in misura altrettanto evidente questo fenomeno riguarda il componimento Larghetto del Franco cacciatore dove tre soldati nazisti minacciano lo sterminio nel solco della distruzione di Sodoma e Gomorra: “Là c’è l’infanzia. / Prova. / C’è l’infanzia che trema…/ […] – bambino appena, allora, / che sorride alle tigri”[103]. Ma anche la poesia postuma di Res amissa – quella introdotta da Giorgio Agamben e riletta nel solco di una filosofia della parola cui indiscutibilmente Caproni è legato nell’ultima fase della sua vita – non è immune ai ricordi, come nel caso dei versi del 1981 dedicati all’amico dei primi anni Vittorio Zanicchi:

[…]

……Stanco,
e con me in lite, ricordo,
Vittorio, la tua voce bionda
come allora – l’infanzia
di risse e di sassaiole
a San Martino, quando
ancora non s’era allentata
nel mio pugno la fionda[104].

Forse è anche utile non dimenticare che la maggior parte dei testi confluiti in Res amissa sono stati scritti in periodi che risalgono anche alla fase compositiva de Il muro della terra, se non molto prima come la poesia Versi didascalici scritta forse nel 1947 quando Caproni dava ripetizioni ad Antonio Debenedetti, il figlio del critico e futuro scrittore, per prepararlo agli esami della quinta elementare[105]. Ma tornerò a parlare di Res amissa nell’ultimo capitolo del libro.

Più importante ancora mi sembra ricordare una poesia del 1972 dove, forse per l’ultima volta, Caproni tenta ancora una volta, e in tempi insospetti, il gesto d’amore dell’inversione del tempo, capovolgendo al contrario la direzione del viaggio che altrove lo conduceva a ritrovare la giovinezza di Annina: non più dal presente a un leggendario passato; ma dal presente verso un pur incerto futuro. Ciò avviene in A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, un testo isolato in una sezione a sé nel Muro della terra e che è collocato immediatamente dopo la diffusa aggressività della poesia che lo precede, I coltelli. Nonostante il finale a tinte cupi, mi sembra importante ricordare anche che si tratta, almeno nell’incipit mosso e arioso, di uno straniante tentativo di unione di due diverse età della vita, nella direzione inversa a quella che andava incontro ad Annina ma della stessa sostanza poetica:

Portami con te lontano
——–…lontano…
nel tuo futuro.

Diventa mio padre, portami
…….per la mano.
Dov’è diretto sicuro
il tuo passo d’Irlanda
– l’arpa del tuo profilo
biondo, alto
già più di me che inclino
già verso l’erba.
[…][106]

Sulla scia di questa ulteriore inversione della logica del tempo, per concludere l’itinerario sull’infanzia poetica di Giorgio Caproni, vorrei parlare della fine e non dell’inizio cui normalmente viene associato il concetto di infanzia e ciò che le ruota intorno.

Il 27 dicembre del 1989 su “Famiglia Cristiana” appare una poesia che, con ogni probabilità, è l’ultima del poeta di Livorno, scritta un mese prima della sua scomparsa. Ha un titolo molto lungo – Dinanzi al Bambin Gesù, pensando ai troppi innocenti che nascono, derelitti, nel mondo – e, nonostante non sia da annoverare tra i componimenti centrali nell’opera di Caproni, contiene tuttavia un aneddoto rilevante. Sul settimanale nel quale usciva, il curatore la introduceva riportando le parole intercorse nella telefonata con l’autore: «“Faccio ancora in tempo?”, mi ha telefonato Caproni, “Come sai io scrivo poesie brevissime e questa mi viene lunga!”»[107]. Il testo è scritto per il Natale ed è dedicato a Valerio Volpini il giornalista dell’Osservatore romano che, nel 1978 durante il sequestro Moro, aveva scritto le quindici righe anonime a favore della trattativa con le Brigate Rosse per salvare la vita dello statista.

…………………………….A Valerio Volpini

Nel gelo del disamore…
senza asinello né bue…
Quanti, con le stesse sue
fragili membra, quanti
suoi simili, in tremore,
nascono ogni giorno in questa
Terra guasta!…

………………Soli
e indifesi, non basta
a salvarli il candore
del sorriso.

……………..La Bestia
è spietata. Spietato
l’Erode ch’è in tutti noi.
[…] [108]

Il “disamore / eterno” aveva fatto la sua prima esplicita comparsa nel decimo dei Sonetti dell’anniversario del 1942, e ho spiegato nel capitolo dedicato a Roma la funzione che ebbe Libero Bigiaretti nel definirsi di un sentimento di delusione, e disamore, che nasce quasi contemporaneo all’amore. Circa cinquant’anni più tardi, nel 1989, Caproni quasi dissotterra quell’antico vocabolo e il “disamore” del principio torna a cingere, in un nodo solo, infanzia e bestialità. Si tratta di una bestialità che, a differenza del primo tempo della poesia caproniana, viene associata, in via esplicita e diretta, all’urgenza con cui la morte investe l’uomo contemporaneo e il suo tempo in un’Europa che sembrava (e non sembra oggi?) sopita dal terrore.

Anche rileggendo questa poesia, o le ultime poesie scritte dal poeta livornese, non credo tuttavia che egli possa essere definito nel suo insieme poeta della morte. Mi pare infatti che una buona parte, spesso anche la parte migliore, della critica caproniana degli ultimi anni abbia riletto l’intera opera di Caproni alla luce dell’ultimo Caproni o del pensiero filosofico spesso (non sempre) letto nel solco di Giorgio Agamben. Di recente, per esempio, una voce magistrale come quella di Vittorio Coletti – che ha descritto alla perfezione l’aspetto “sconcertante” della rilettura, sempre necessaria, del poeta di Livorno – ha insistito sulla definizione di Caproni come “poeta del dolore”, e “del dolore che nasce dal riconoscimento della superiorità del male, gratuito e inevitabile”[109]. Interrogandosi su un tema molto dibattuto negli ultimi tempi – la questione del rapporto novecentesco tra poesia e filosofia, e si pensi ai seminari tra Char e Heidegger che ne sono stati l’esempio più vivo -, Italo Testa, come altri critici, ha parlato di “retroazione di un linguaggio filosofico sul linguaggio poetico” nello stile del tardo Caproni[110]. Retroazione è un termine interessante perché è anche un termine al quale, negli ultimi tempi, la critica novecentesca tende non solo – come nel caso che ho appena citato – nei termini di un’‘azione dietro le quinte’. Oggi il più delle volte, e magari con risultati eccellenti, si preferisce parlare di ciò che c’è alla fine.

Perché invece – magari sbagliando, o dovendo ricominciare tutto da capo, magari rischiando la tautologia di visioni contrarie che poi alla fine si attraggono – non provare a rovesciare questa logica tutta protesa sull’ultimo Caproni? Perché non provare anche a rileggere il tardo Caproni, quello della fine, o il Caproni medio – mi si perdoni il gioco di parole – nella ‘post-azione’ del primo Caproni, quello dell’inizio, sull’ultimo?

Non ho avuto la fortuna di conoscere Giorgio Caproni. Non mi sento di appartenere a nessuna scuola o partito di lettura della sua opera. Ma vedo che a Caproni, più che ad altri poeti, sono dedicati molti studi di valore anche da parte di critici nuovi con formazioni e percorsi variegati[111]. A chi lo ha incontrato, o gli è stato amico chiedo spesso di lui con un certo imbarazzo o senso di colpa per un passato che non mi appartiene. Nel 1998 quando usciva il Meridiano dell’Opera in versi, Pier Vincenzo Mengaldo ricordava che Caproni è un poeta “dove le contraddizioni non si risolvono ma si rigenerano per tornare a convivere”[112]. Quello stesso anno il critico Massimo Raffaeli su “Alias” ne dipingeva un rapido ritratto ricordandolo così: “Nemmeno Caproni si sottrae all’oroscopo nichilista dei contemporanei, tuttavia si defila in una zona franca, sospesa, coi residui di parole che ancora lo immunizzano dalla seduzione del nulla. Dicono che sul letto di morte tenesse il Purgatorio aperto al canto primo, dove si parla dell’alba, della vista del mare, e di un uomo ansioso di tornare sui suoi passi”[113].

Testimonianze di questo tipo sono importanti per chi non ha conosciuto Giorgio Caproni. Ce ne sarebbero molte altre da citare e da rileggere, o magari da raccogliere in un libro di ricordi di coloro che lo hanno conosciuto. Io non mi sono fidata mai completamente di quello che un poeta come lui scriveva di se stesso. E in questo senso la sua biblioteca può aiutarci a gettare un po’ di luce sulle verità e sulle maschere di cui si circonda ogni scrittore degno di questo nome.

Ma la domanda che mi preme di più porre è un’altra. Perché oggi Giorgio Caproni continua a essere considerato ai vertici della poesia europea del Novecento pur se egli, forse perché non ‘doppiabile’ come poeta (Attilio Mauro Caproni lo ha definito “un padre […] non doppiabile”[114]), è stato meno imitato o ha fatto meno scuola di altri poeti della sua generazione? Le ragioni sono molteplici e naturalmente sono anche personali, come è personale ‘il Caproni’ che può più o meno piacere a chi lo affronta, lo compra ancora o a chi continua a scegliere di studiarlo. Mi sembra però che sia la poesia stessa del poeta di Livorno a sfuggire a ogni forma di sistematizzazione nella sua compagine più profonda. E mi sembra sia sfuggita anche a Caproni stesso, con tutto il peso della sottrazione e l’evidenza del significato delle ultime poesie che ha scritto.

Se guardata nel suo insieme, la poesia di Giorgio Caproni spaventa e attira perché ha parlato del male e dell’agonia animale – oltreché sportiva – che gli uomini esercitano tra loro e con se stessi senza finzione, ai limiti del terrore. E questo mi sembra un tema molto attuale senza che l’attualità banalizzi contenuti e forme. Come attuale mi sembra il discorso su un’attività sempre più a rischio: quella dell’arte della parola, e del pericolo e del piacere che, come il gioco, può suscitare.

In alcuni disegni del 1975 intitolati La bestia addosso, il pittore Franco Francese illustrava le poesie di Vittorio Sereni dedicate alla paura, poesie alle quali Giorgio Caproni aveva risposto con una poesia dal tono ironico, ai limiti della provocazione, intitolata Paura terza[115]. Nella diversità del tono e delle risposte, l’arte, parevano dire poeti e artisti in quello stupefacente e nascosto dialogo a tre del quale parlerò nell’ultimo capitolo, è una bestia mutevole che ci portiamo addosso; la migliore nemica, come l’arma sempre nuova, di una molteplice e incalzante precarietà.

Questo rende viva la poesia di Giorgio Caproni. Poeta della vita oltreché della morte, come spesso si è portati a pensare.

 

 


[1] M. Bacigalupi P. Fossati, Giorgio Caproni maestro, Genova, Il Nuovo Melangolo, 2010.

[2] Cfr. A. Gatto, Il vaporetto, disegni di G. Pentich, Milano, La Nuova Accademia, 1963 poi con illustrazioni di F. Negrin e postfazione di A. Anedda, Milano, Mondadori 2001 (precedentemente uscito con Bompiani nel 1945 con il titolo Il sigaro di fuoco); G. Giudici, Scarabattole, illustrazioni di N. Costa, Milano, Mondadori, 1989; Pin Pidìn, poeti d’oggi per i bambini, a cura di A. Porta e G. Raboni, Milano, Feltrinelli, 1978. Mi permetto, nella direzione di una rivalutazione critica del ruolo dell’infanzia nella poesia moderna, di rinviare a un mio articolo uscito su “Alias il manifesto”, l’11 marzo 2012 dal titolo Il senso perso dei bestiari per bambini. Poesia e infanzia (ripreso sul sito “Le parole e le cose” e sul Blog di Poesia della Rai diretto da Luigia Sorrentino). Interessante in questa prospettiva  il recente studio di Alessandro Giammei Nell’officina del nonsense di Toti Scialoja. Topi, toponimi, tropi, cronotopi, Milano, edizioni del verri, 2014.

[3] G. Caproni, “Federico in persona”, in «Il Punto», 22 aprile 1961, p. 8. ora in PC, pp. 1437-1438. Recensione a Federico in persona, a cura di J. Guillén, traduzione italiana di M. Guidacci, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1960.

[4] Id., I miei versi nel vento, cit., ora in IA, p. 444. Ma si veda anche per esempio la dichiarazione: “Senza Pascoli è impossibile concepire Montale” in Intervista ai poeti e narratori liguri di nascita o d’adozione, “Gazzettino di Venezia” 1976 (presumibilmente inedita) ora ripreso in IA, p. 76; e “La guerra penetrata nell’ossa”, intervista con M. Gulinucci, in “Era così bello parlare”, cit., p. 185: «ha perfettamente ragione Contini: ‘Pascoli aveva in mano la dinamite. Non se n’era accorto’».

[5] Id., Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia, a cura di A. Muntoni Comparini, in “Dulcamara”, maggio-giugno, 1977 ora in IA, p. 130.

[6] Id., L’infanzia età pura dell’uomo, in I ragazzi, i poeti, la poesia, a cura di G. Innocenti, Pistoia, Edizioni del Comune di Pistoia, 1984 ora in IA, p. 281. E cfr. anche Id., Il poeta, la tromba, il flauto ora in IA, pp. 338-339: “Con tutto questo sono ben lontano dal voler far qui una mia dichiarazione di fede nella pascoliana teoria del fanciullino”.

[7] Si veda per esempio: “Non so fino a che punto Pascoli abbia influito sulla mia poesia” sempre in Il fine ultimo del poeta è solo quello di far poesia, cit., ora in IA, p. 130. Per altre affermazioni che sostengono questa tesi rimando anche agli articoli: Angiolo Silvio Novaro in PC, p. 83 (“A differenza, poi, del Pascoli, il Novaro è poeta più immaginifico che riflessivo: in ciò più vicino, dunque, al D’Annunzio”); per il riferimento a Sbarbaro “remotissimo dagli intenerimenti pascoliani e crepuscolari” cfr. Id., Sbarbaro amaro amore, ora in PC, p. 1302; e per quello a Cesare Vivaldi (“che ben riesce a saltare il fosso pascoliano”) cfr. Guerrini, Giudici, Vivaldi, Marmori, Sanguineti, Craviotto, ora in PC, p. 1352.

Faccio presente che presso il fondo Marconi non sono confluiti libri di Giovanni Pascoli.

[8] “Oggi si può tranquillamente affermare che Pascoli è un montaliano. Ma i miei primi versi sentono di più il Carducci ‘macchiaiolo’ anche di questo si accorse De Robertis” in Id., Molti dottori nessun poeta nuovo, cit., ora in PC, p. 96. Molteplici e “segrete corrispondenze” tra Caproni e Pascoli legge invece Niva Lorenzini nel saggio Itinerari della memoria testuale: Pascoli e Caproni, in Per Giorgio Caproni, cit., pp. 121-137.

[9] F. Fortini, Composita solvantur, Torino, Einaudi, 1994, p. 63.

[10] In questa direzione si guardi per esempio a una poesia di Fabio Pusterla come Visita notturna (Le cose senza storia, Milano, Marcos y Marcos, 1994, pp. 8-9 “e come vedete / il mondo voi bambini. Lo troverete, / fra i vostri giochi, il gioco che ci salvi? / Noi tutti lo speriamo / guardandovi dormire”) e più di recente all’explicit di Tre per una figlia di Massimo Gezzi “Qualche volta dormi pure e predici / che tutti veglieremo scrutandoti, / contando i tuoi respiri” (Il numero dei vivi, Roma, Donzelli, 2015, p. 70). Un tono diverso assume invece una poesia come Figli di Francesco Scarabicchi nella quale viene esplorato il ‘male della distanza’ temporale e generazionale tra genitori e figli (ma al rovescio anche il sogno della vicinanza attraverso la creazione), mossi entrambi da due diverse età della vita (L’esperienza della neve, Roma, Donzelli, 2003, p. 18): «“Da voi così distante mai sono stato, / così vicino al sogno, al nuovo giorno, / figli che andate come fosse inverno”».

[11] V. Sereni, Diario d’Algeria, Firenze, Vallecchi, 1947 ora in Id., Poesie, edizione critica a cura di D. Isella, Milano, Mondadori, 1995, p. 64 (d’ora in poi S). Per una riflessione specifica su Dimitrios, nel rapporto tra infanzia e paura in Sereni, si veda anche l’ultimo capitolo del libro.

[12] Id., Stella variabile, Milano, Garzanti, 1981. Prima edizione in 130 esemplari fuori commercio con illustrazioni di Ruggero Savinio, Verona, «Cento Amici del Libro», 1979, ora in S, p. 218.

[13] W. Busch, Max e Moritz ovvero Pippo e Peppo. Storiella malandrina in sette baie nella versione di G. Caproni, introduzione di C. Magris, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1974, p. 13.

[14] C. Magris, Il mondo senza infanzia di Wilhelm Busch, ivi, p. 5.

[15] Ivi, p. 8.

[16] Ibidem.

[17] “e con tutto il languore di cui m’aveva infradiciato la malinconia in servizio permanente effettivo del capitano Edmondo De Amicis io su quell’ultimo lembo della mia città lasciai le mie più labili lacrime di bambino che sapeva di non tornare più” G. Caproni, Io genovese di Livorno, in “Italia socialista”, 22 febbraio 1948 ora in PC, p. 281. Per le diffuse dichiarazioni su Edmondo De Amicis sparse sui giornali si vedano almeno i seguenti articoli ripresi in PC: Id., Lamento del recensore, ivi, pp. 857-860; Id., Poesia ispano-americana del ’900, ivi, p. 999; Id., Genova: denaro e poesia, ivi, p. 1271; Id., Problemi di traduzione, ivi, p. 1895 (“detesto il cuore in s.p.e. di De Amicis”) e Id., Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia, ivi, p. 1961.

[18] I. Bencivenni, Le avventure di compare Grillo, Firenze, Salani, 1925.

[19] “Era così bello parlare”, cit. p. 82. Le informazioni sul Chiostri, Walt Disney e Le avventure di compare grillo le ho ricavate proprio da questa pagina di “Era così bello parlare” nella quale tra l’altro Caproni racconta di aver fatto ripetuti esperimenti con i suoi alunni delle elementari per disegnare Pinocchio fuori dagli schemi, mentre tutti i bambini di solito disegnavano il Pinocchio “prefabbricato” di Walt Disney. La stessa situazione è ricordata nella risposta a Emilia Folcarelli Id., Il mio “carissimo Pinocchio”, in “L’Informatore librario”, 4 aprile 1990 ora in IA, p. 430 per la quale si veda anche questa affermazione: “è mia opinione che il più grande poeta di questo mondo sia principalmente un romanziere. […] Io mi definisco uno scrittore in versi a cui, qualche volta, ‘scappa la poesia’, è così è successo anche a Collodi”.

[20] “Sì, sono nato tra gli animali, anzi, anche di qui viene il mio amore per gli animali, tant’è vero… a Genova qui, un pochino più adulto, io allevavo rettili in casa, con la disperazione di mia madre; ero riuscito a trovare tritoni, salamandre, poi lucertole, naturalmente, a volontà. Ero arrivato fino all’accoppiamento”, ivi, p. 83. Anche per il riferimento al museo di Genova (“a Genova c’è il più grande museo di storia naturale d’Italia, forse anche d’Europa”) e al quartiere di Livorno chiamato Parterre cfr. Ibidem.

[21] Da un ritratto televisivo di Caproni fatto da Franco Simongini nel 1984 ripreso nelle interviste per Antologia cfr., ivi, p. 44. E si veda anche il pezzo autobiografico I tarponi, in “La Giustizia”, 30 dicembre 1962 in cui Caproni racconta le uccisioni dei topi durante la sua infanzia.

[22] Ivi, p. 83.

[23] Terza puntata della rubrica I sentieri della poesia intitolata Infanzia e pubblicata di recente in Tre antologie radiofoniche, cit., pp. 28-32. In questa puntata i testi italiani usati da Caproni per le citazioni sono Sotto il cielo di aprile la mia pace di Sandro Penna, La bambina che va sotto gli alberi di Camillo Sbarbaro, Lelio di Alfonso Gatto, Il grano nuovo di Guglielmo Petroni. Ai poeti stranieri citati, di cui parlerò più avanti, si aggiunge un anonimo canto indio intitolato Com’è bella la danza dei ragazzi.

[24] Si vedano le dichiarazioni di Caproni che ho riportato nel primo capitolo del libro (pagine 19 e nota 34). Con ogni probabilità Caproni legge da giovanissimo le traduzioni di Montale da Jorge Guillén sulla rivista “Circoli” e torna a lavorare su di esse a distanza di anni.

[25] Eugenio Montale aveva tradotto sei poesie da Cántico per “Circoli”, 1, 1931, pp. 55-59 riprese in E. Montale, Quaderno di traduzioni, Milano, Edizioni della Meridiana, 1948. È oggi possibile rileggerle anche in J. Guillén, Amici così, per grazia di lettura, traduzioni di Montale, Traverso, Guidacci, Bigongiari, Luzi, Risi, Zanzotto, a cura di C. Zapponi, con una nota di E. Donzelli, Roma, Donzelli, 2013, p. 17.

[26] G. Caproni, Omaggio a Pound e a Guillén, in “La Fiera letteraria”, 11 gennaio 1959, ora in PC, p. 1130.

[27] Le traduzioni da Gerardo Diego inserite da Caproni nel progetto per Curcio sono cinque. Le prime tre E la tua infanzia, di’, Saluto alla Castiglia e Autunno sono firmate a penna con lo pseudonimo e una cassatura “Trad. di Giorgio Caproni Attilio Picchi” e sono tratte dalla prima raccolta di Diego El romancero de la novia, Santander, Pérez, 1920. Seguono due traduzioni di Oreste Macrì come segnala lo stesso Caproni nella scheda all’autore: “Le ultime due poesie qui riportate, seguono la traduzione di Oreste Macrì (Poesia spagnola del Novecento, Guanda, Modena, 1952), omaggio al critico e all’interprete che con tanto amore e non minore studio ha saputo donare all’Italia, intatta, la più grande poesia di Spagna”. Per il ruolo decisivo che ebbe Oreste Macrì – accanto e diversamente da Vittorio Bodini – nella diffusione della cultura letteraria e poetica della Spagna del Novecento, soprattutto come formazione culturale per i poeti del secondo Novecento italiano, rimando a un volume molto interessante Lettere a Simeone, Sugli epistolari a Oreste Macrì, a cura di A. Dolfi, Roma, Bulzoni, 2002.

[28] Cfr. BNC fascicolo 5, cartella 6 fogli 156 e 157 numerazione d’autore.

[29] Cfr. sempre BNC, 5,6. Numerazione d’archivio 14, numerazione d’autore foglio 156. Il ds della traduzione è pressoché in pulito, esclusa l’occorrenza “di retrocederci” che è variante alternativa dell’occorrenza “che di ripetere”. Il “che” è cancellato con la macchina da scrivere, “di ripetere” è cancellato a penna. Sul margine dx compaiono altre due varianti alternative anch’esse cassate a penna: “arretrare” e “regalarci”.

[30] I riferimenti sono rispettivamente agli aggettivi usati da Caproni in due poesie delle quali parlerò nel prossimo paragrafo: “l’infanzia illimitata” del IV dei Sonetti dell’anniversario e il “tempo ancora intatto ed indiviso” de Le biciclette.

[31] P. Zublena, Caproni, Genet e il male, in Id., Giorgio Caproni, la lingua, la morte, cit., p. 137 e p. 142. Per le traduzioni da Genet si vedano almeno le seguenti edizioni: J. Genet, Tutto il teatro, traduzione di G. Caproni e R. Wilcock, Milano, Il Saggiatore, 1971; Id., Quattro romanzi, traduzione di G. Caproni, Milano, Il Saggiatore, 1975; Id., Diario del ladro, traduzione di G. Caproni, Introduzione di L. Erba, Milano, Mondadori, 1978. Capitale anche il lavoro condotto da Caproni sui testi di Genet che per la parte relativa ai testi teatrali, a differenza del teatro di F. G. Lorca, non è stata ripresa nel progetto del Quaderno di traduzioni, uscito postumo nel 1998.

[32] L. F. Céline, Morte a credito. Romanzo, saggio critico di C. Bo, versione di G. Caproni, Milano, Garzanti, 1964.

[33] P. Benzoni, Caproni traduttore di Céline: la versione di “Mort à crédit”, in Caproni poeta europeo, cit., p. 70. Per uno studio più ampio della versione da Céline si veda Id., Da Céline a Caproni. La versione di “Mort à crédit”, Venezia, Istituto di Scienze, Lettere e Arti, 2000. L’analisi tecnica condotta da Benzoni sulla traduzione caproniana di Mort à crédit mi sembra abbia anche il valore aggiunto di non fare a tutti i costi coincidere l’autore tradotto con l’autore che traduce individuando punti di coincidenza con Céline solo all’altezza di Res amissa e sempre con le dovute differenze: “La nostra sensazione è che la versione di Mort à crédit abbia rappresentato soprattutto un incontro-scontro con il diverso: che Caproni sia stato qui portato a scavare e sperimentare in un terreno – quello dell’espressionismo formale e gergale – molto lontano, se non del tutto alieno dagli interessi delle scritture in proprio” Ibidem. Si vedano anche le dichiarazioni su Céline di Caproni nell’articolo Problemi di traduzione, in «Il Verri», XVIII, 26, 1968 poi pubblicato in Id., La scatola nera, cit., ora in PC, p. 1891.

[34] In una direzione simile mi sembrano scritte le pagine del romanzo di Maurizio Cucchi, Il male è nelle cose, Milano, Mondadori, 2005, in particolare il frammento a pagina 103 che allude a un episodio dell’infanzia: «“In fondo” si diceva “i bambini, che sono natura, dove vedono la debolezza colpiscono senza esitare, senza pietà, e ci provano gusto, soddisfazione”».

[35] Rispettivamente C, pp. 11, 18, 19, 20.

[36] Ivi, p. 32.

[37] A Cecco in Id., Come un’allegoria, cit., ora in C, p. 9.

[38] Prima luce, ivi, p. 13.

[39] La poesia di Jouve è Blanches hances in P. J. Jouve, Œuvre, cit., vol. 1, pp. 312-313. Cfr. anche S. Agosti, “Le bruit et les mots”, cit., p. 323.

[40] Molti i casi e le occorrenze nelle poesie disperse, inedite o disperse postume raccolte nel Meridiano: “giocano al magro sole / giubbette gialle e turchine di bimbi” in Dopopranzo, ivi, p. 925 (testo apparso nel 1934 su “Gioventù” e non incluso in Come un’allegoria; cfr. Apparato critico di C, p. 1781); “come il lino che nell’infanzia fu steso a asciugare sul fildiruggine!” in “Nuovi Argomenti”, 5, ottobre-dicembre 1995 ora in C, p. 972 (Zuliani segnala che la poesia non riporta data ma è contenuta in un fascicolo composto dagli abbozzi del periodo del Passaggio d’Enea e del Seme del piangere. Cfr. Apparato critico, in C, p. 1798); si veda anche Versicoli dal “controcaproni” di Attilio Picchi, pp. 993-998 : 995 “Era stato alla Spezia / da piccolo, ma ricordava di quel soggiorno / una bambina che un giorno / lenta lenta pisciava / fissandolo accoccolata, la coscia bianca staccata dall’altra coscia, e ferita / nell’intimo della vita”. Quest’ultimo è un poemetto inedito scritto nell’estate del 1953 che ha ispirato a distanza di anni la sezione Versicoli del controcaproni 1969-19.. di Id., Tutte le poesie, cit., 1983 (cfr. Apparato critico di C, p. 1816). Simile per metro e lunghezze brevi del verso a L’ascensore, in un’atmosfera per nulla solenne ma dal tono discorsivo, in questo poemetto disperso riecheggia forse in lontananza la coscia della bestia ferita dello Jouve di Capasso. Più in generale in Versicoli dal “controcaproni” di Attilio Picchi i ricordi d’infanzia sono sempre associati a quelli dell’infanzia dei suoi bambini, nello stridore tra il sé padre e il sé bambino. Come anche la presenza degli allievi, cfr. ivi, p. 997.

[41] C, pp. 251-252.

[42] Ivi, p. 259.

[43] Ivi, p. 743 e p. 749. A Parigi Caproni scrive il distico Constatazione, tutto dedicato all’amore per la città francese: “Non c’ero mai stato. / M’accorgo che c’ero nato.” ivi, p. 741.

[44] Il giuoco del pallone è un racconto pubblicato a pezzi su varie riviste tra il 1947 e il 1948 ora ripreso integralmente in G. Caproni, Racconti scritti per forza, cit., pp. 215-228. Per il riferimento a Lamento III: “Tu che hai udito / un tempo il mio tranquillo passo nella / sera degli Archi a Livorno […]” C, p. 117. Per le interviste si veda questa dichiarazione: “mio padre Attilio, ragioniere, la domenica mi portava con mio fratello Piero agli Archi, in aperta campagna” in Id., Luoghi della mia vita e notizie della mia poesia, cit., ora in PC, p. 1962; ma anche Id., Le mie città più amate, in “Il Telegrafo”, 19 maggio 1976 ora in IA, p. 117; e le dichiarazione rilasciate durante la trasmissione televisiva del 1984 ripresa da Michele Gulinucci in Antologia del 1988 cfr.“Era così bello parlare”, cit., p. 60.

[45] “i giuochi / dei pagliacci rissosi, e alla selvaggia / boria dei bimbi” e “il giuoco / fatuo che incendia al ponte il buio dell’arco” in Palco della Baldoria in C, p. 943 (testo apparso su “Corrente di vita giovanile” nel 1940 e pubblicato nella prima edizione di Finzioni del 1941 e nella sezione dedicata a Finzioni in Cronistoria del 1943. Espunto nei libri successivi. Cfr. Apparato critico di C p. 1787). Ma si vedano anche le poesie Ai genitori: “Là già corremmo l’età più tranquilla / a squarciagola, al fischio dei vapori / tra le sassate a segno nella Villa / di Negro (anch’essa apparsa solo nella prima edizione di Finzioni, cfr. C, p. 944 e Apparato critico, p. 1788) e Sono i tuoi regni: “si fa leggera la rincorsa / dei bimbi sul piazzale” (stessa datazione e presenza nelle raccolte segnalate per Palco della Baldoria, cfr. C, p. 945 e Apparato critico, p. 1788).

[46] A mio padre, in Id., Finzioni, cit., ora in C, p. 47.

[47] Nelle interviste Caproni ha accennato a questo ricordo che è stato ricostruito in un preciso episodio da Silvana e Attilio Mauro Caproni in A. M. Caproni, S. Caproni, A. Berardinelli, Portami con te lontano. Per Giorgio Caproni. Poesie e ricordi, Roma, Emons audiolibri, 2013, pp. 20-21.

[48] C, p. 294.

[49] Ivi, p. 823.

[50] Ivi, p. 919. Per una dilatazione dell’immagine del padre in termini universali e plurimi si veda L’Idalgo, in Il muro della terra, cit., ora ivi, pp. 296-297.

[51] C, p. 266. Per l’occasione dalla quale nasce la poesia Toba cfr. le parole di Caproni riportate anche nell’Apparato critico di C, p. 1531: “Si riferisce a un periodo quando usava, cattiva usanza, fra rione e rione, di feroci guerre, a sassate, a sassaiole ferocissime, proprio si mirava a uccidere, non a ferire”. Riassume Zuliani: “Caproni ricorda che l’amico […] gli lanciò un sasso mirando alla testa; lui si difese con la mano ferendosi, e gli rimase sempre la cicatrice sotto l’anello matrimoniale” Ibidem.

[52] Cfr. Sonetti dell’anniversario III, in C, p. 93.

[53] Sonetti dell’anniversario I, ivi, p. 91.

[54] Per l’importanza delle due prose Ai genitori cfr. anche il primo capitolo dedicato a Caproni e Jouve, p. 34.

[55] C, p. 92.

[56] Ivi, p. 94.

[57] Cfr. la nota 19 del primo capitolo.

[58] Cfr. Apparato critico di C, p. 1108.

[59] L. Surdich, Giorgio Caproni. Un ritratto, cit., p. 58.

[60] G. Caproni, La funivia, in “Botteghe oscure”, gennaio-giugno 1949, p. 141.

[61] Id., Lettera da Genova, in “Aretusa”, novembre 1945, pp. 57-62, ora in PC, pp. 145-152.

[62] Id., Le borgate confino di Roma, in “Il Politecnico”, 12 gennaio 1946 e Id., Viaggio fra gli ‘esiliati’ di Roma, in “Il Politecnico”, 23 febbraio 1946. “I piani regolatori romani nella storia dell’umanità (da quello di Giulio Cesare al piano di Sisto V sino a quello del loro “piccolo epigono” Mussolini) erano stati il sasso gettato contro la povera plebe” (Le borgate confino di Roma). Una costante nella storia di Roma che il poeta individua con esattezza descrivendo il fenomeno della “fame di mattoni”, parallelepipedi di calcestruzzo svenduti e tramutati “in un pezzo di pane da dare ai figliuoli” (Viaggio fra gli ‘esiliati’ di Roma). Gli articoli sono stati ripresi in Giorgio Caproni: Roma la città del ‘disamore’, cit. e sono poi confluiti in PC, pp. 163-172. Per un’analisi più dettagliata di queste inchieste rimando alla scheda del catalogo della mostra pp. 61-62.

[63] Id., Viaggio tra gli ‘esiliati’ di Roma, cit. Oltre ad alcuni racconti tra cui Il sasso sui bambini (storia di una giovane coppia di sposi giunti in città alla ricerca di un tetto, uscita su “Il Politecnico” nel 1945), nel triennio 1946-49 l’indagine sulla città di Roma prosegue sull’“Avanti!” (Id., Tutto scompare sotto una macchia, 8 maggio 1947), su “Il lavoro nuovo” (Id., Sui selciati dell’urbe formicolano gli accattoni, 18 maggio 1949) e su “L’Italia socialista” con la prosa Sotto il Gianicolo (3 agosto 1948) nella quale Caproni svela la vera età anagrafica di Roma, una città in cui “la giovinezza […] è eterna” ma l’infanzia è finita al confino, ad abitare le borgate. Nel Repertorio bibliografico ragionato. Dieci anni di studi su Giorgio Caproni (2003-2012) – uscito su “Moderna”, XV, 1, 2013 a cura di A. Aveto, M. Chiarla e L. Surdich – Myriam Chiarla ha segnalato anche l’articolo Cenci e pozzanghere nel regno triste della miseria (“Sempre Avanti!”, 19 giugno 1947) che riprende in parte Viaggio tra gli ‘esiliati’ di Roma.

[64] C, p. 1147 e seguenti.

[65] Ivi, p. 1151.

[66] Si veda il piano generale del poemetto riportato nell’Apparato critico di C alle pp. 1152-1153.

[67] Ivi, p. 1150.

[68] C, p. 139.

[69] Ivi, p. 137.

[70] Ivi, p. 1207. Zuliani spiega anche che “furono dunque lasciate in sospeso per un certo tempo le str. VII, VIII, XI, e XII, e sono andati perduti i fogli su cui fu terminata la stesura” ivi, p. 1149.

[71] B. Frabotta, La malinconia dei sopravvissuti, in Ead. Giorgio Caproni poeta del disincanto, cit., pp. 72-73.

[72] G. Bàrberi Squarotti, Le stazioni della vita, in Per Giorgio Caproni, cit., p. 250.

[73] C, p. 130.

[74] L’occorrenza “brivido” e “brividi” ricorre quattro volte ne Le biciclette, cfr. ivi, pp. 127-129. Il “tempo ormai diviso” chiude ciascuna delle strofe della ballata esclusa l’ottava strofa con la quale Caproni che fa terminare la poesia sul “tempo ancora intatto ed indiviso”. Per il “grido” cfr. “esce il grido / ch’è scoppiata la guerra” ivi, p. 130.

[75] C, p. 131.

[76] All alone da Id., Il passaggio d’Enea, ivi, p. 151. Per la prima stesura del testo e in particolare dei versi di Epilogo che ho citato cfr. Apparato critico di C, p. 1250. In epigrafe alla seconda parte di All alone Caproni pone una citazione da The Bells di E. A. Poe: “And the people – ah the people – / They that dwell up in the steeple, / All alone […]”, ivi, p. 145. Così scrive infatti in una lettera a Betocchi del luglio 1954 a proposito dell’epigrafe: “I miei versi sugli uomini miti, che ora mi fanno venire a mente certo Poe” G. Caproni C. Betocchi, Una poesia indimenticabile, cit., p. 133.

[77] G. Caproni, Il passaggio d’Enea, cit., p. 156.

[78] L. Surdich, Le biciclette, la funicolare, l’ascensore, in Id., Giorgio Caproni. Un ritratto, cit., p. 66.

[79] Per un riassunto esaustivo dei principali autocommenti e interventi di Caproni sulla poesia del Passaggio d’Enea rimando alle indicazioni bibliografiche ricostruite da Luca Zuliani nell’Apparato critico di C, pp. 1262-1263.

[80] D. Colussi, Complessità sintattica nel medio Caproni, in Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure, cit., p. 98. Mi sembra utile affiancare l’analisi stilistica di Colussi a quella che di recente ha indotto Luca Zuliani a interrogarsi sulle motivazioni che sono a monte di questa prevalente oscurità e complicatezza caproniana: cfr. L. Zuliani, Sull’oscurità della poesia italiana del Novecento, in La lirica moderna. Momenti, protagonisti, interpretazioni, Atti del XXXIX Convegno interuniversitario, (Bressanone-Innsbruck 13-16 luglio 2011), a cura di F. Brugnolo e R. Fassanelli, Padova, Esedra Editrice, 2012, : pp. 420-423.

[81] B. Frabotta, L’io solo, in Ead. Giorgio Caproni. Il poeta del disincanto, cit., p. 87.

[82] Intervista a Caproni in Il mestiere di poeta, cit., p. 132.

[83] Ad portam inferi, ivi, pp. 204-205.

[84] Ivi, p. 205.

[85] Ivi, p. 206. E il rapporto di Annina con l’infanzia sembra una condizione naturale testimoniata anche dai versi di Eppure dove “Branchi di ragazzetti scalzi” circondano la fanciulla che “tirava confetti / a manciate” cfr. ivi, p. 208.

[86] C, p. 215.

[87] Ivi, p. 213.

[88] Intervista Antologia 1988 ripresa in C, p. 1316. Il seme del piangere si divide in due sezioni i Versi livornesi e Altri versi. Zuliani segnala anche la parziale coincidenza tra l’arco cronologico di questa raccolta (1952-1958) e quello del Passaggio d’Enea (1943-1955). Cfr. Apparato critico di C, p. 1321.

[89] Ultima preghiera in Id., Il seme del piangere, cit., ora in C, pp. 216-218.

[90] C, pp. 1445-1446.

[91] Il becolino, ivi, p. 232.

[92] La Nota dell’autore alla prima edizione del Seme del piangere è ripresa in C, p. 235.

[93] C, p. 149.

[94] Ivi, p. 231.

[95] “Era così bello parlare”, cit., ora citato in Apparato critico di C, p. 1458.

[96] A. Berardinelli, Caproni e il lettore impaziente, in A. M. Caproni, S. Caproni, A. Berardinelli, Portami con te lontano. Per Giorgio Caproni. Poesie e ricordi, cit., p. 75.

[97] “Ecco: il segreto che Caproni ci comunica non è l’esperienza del nulla, che è comune a tanta parte della poesia moderna; egli ci dimostra che ciò a cui il nulla si contrappone non è il tutto: è il poco” I. Calvino, Il taciturno ciarliero, in Genova per Giorgio Caproni, cit., pp. 249-250 .

[98] Così in Träumarei in Id., Il franco cacciatore, cit., ora in C, p. 487.

[99] “Il bambino […] / mio Dio, / come potrà poi senza / odio perdonarti il furto / della tua inesistenza?” Cantabile (ma stonato), in Id., Il muro della terra, cit., ora in C, p. 321.

[100] Il gibbone, ivi, p. 264. La poesia è datata 1964 ed è iscritta nell’impossibilità di un ritorno all’infanzia e alla giovinezza.

[101] Intarsio in Id., Il conte di Kevenhüller, cit. ora in C, p. 613. Per il ricordo di Germana: “ancora coi pantaloni corti incollai per la prima volta le mie labbra in quelle d’una ragazzona piena di carne e di forma, dal seno rigonfio sotto il maglione di lana, che si chiamava Germana” in “La Giustizia”, 26 febbraio 1963 ora ripreso nell’Apparato critico di C, p. 1647.

[102] C, p. 695: “la tua stella, Jean, / così remotamente morto / con la mia infanzia”.

[103] Larghetto, in Id., Il franco cacciatore, cit., ora ivi, p. 434.

[104] C, p. 855 e cfr. l’Apparato critico di C, pp. 1765-1766 per le congiunzioni e le intertestualità di questa poesia con quella Finita la stagione rossa di Cronistoria.

[105] Versi didascalici in Id., Res amissa, ora in C, p. 860 e per la data l’Apparato critico, ivi, p. 1767.

[106] A mio figlio Attilio Mauro che ha il nome di mio padre, da Il muro della terra, ora in C, p. 317. La poesia vinse il Premio Gavicce Mare e il figlio la ascoltò per la prima volta in televisione. Nella raccolta del 1975 si trova isolata in una sezione dal titolo Poesia (o tavola) fuori testo.

[107] Ripreso nell’Apparato critico di C, p. 1794.

[108] Uscito su “Famiglia Cristiana” il 27 dicembre 1989 ora in C, pp. 961-962.

[109] V. Coletti, L’avventura triste della conoscenza, in Giorgio Caproni. Lingua, stile, figure, cit., p. 26 e p. 28.

[110] I. Testa, “Ragione eversa”. L’“afilosofia” dell’ultimo Caproni, ivi, p. 250.

[111] Mi riferisco soprattutto al libro Giorgio Caproni. Parole chiave per un poeta, a cura di L. Surdich e S. Verdino, in ”Nuova Corrente”, Genova, Interlinea, n. 149, 2012.

[112] P. V. Mengaldo, Per Giorgio Caproni, in C, p. XLIV.

[113] M. Raffaeli, La latteria metafisica, in “Alias-il manifesto”, 4 luglio 1998 ora in Id., Novecento italiano. Saggi e note di letteratura (1979-2000), Roma, Luca Sossella Editore, 2001, p. 54.

[114] A. M. Caproni, Mio padre Giorgio Caproni e Roma: un’idea di città, in Giorgio Caproni. Roma la città del ‘disamore’, cit., p. 35.

[115] Si veda il catalogo F. Francese V. Sereni, La bestia addosso, a cura di V. Scheiwiller, Collana di Arte Moderna Italiana, n. 71, Milano, All’Insegna del Pesce d’Oro, 1976. Il libro contiene la riproduzione a colori e in bianco e nero di 34 opere di Francese, le due poesie di Sereni Paura prima e Paura seconda, scritte una nel settembre del ’75 l’altra nell’ottobre dello stesso anno e confluite poi nella raccolta Stella variabile, e il testo critico di Sereni Da natura a emozione. Da emozione a natura preliminarmente uscita in Franco Francese, Milano, Galleria Tominelli, 1975 e poi ripresa in Amici pittori. I libri d’arte di Vittorio Sereni, Città di Luino, Nastro § Nastro, 2002.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).