Caleidoscopio

da | Nov 27, 2018

Caleidoscopio è una delle ultime raccolte di José María Micó (Madrid, Visor, 2013). Ora si può leggere nell’edizione italiana a cura di Pietro Taravacci uscita per Passigli (2018). Proponiamo una selezione di sei poesie nella traduzione di Pietro Taravacci.

GENERAZIONE

Il letto è uno specchio che ci lascia nudi.
La mia nudità è nera come bile di un cieco.
Cieco come il bambino senz’occhi che ha sparso
di queste viscere il bianco imprudente
con lo stesso retaggio di altri poveri
di greve e di solenne mansuetudine.
Sono un mite cavallo cavalcato
da tempi ciechi, e bianchi e denudati,
tempi per qualche vuoto gesto inutile
come questo umido taglio, perché il solco
è già aperto,
già è rotto il solco,
mio padre aprì la via,
e voglio dire il padre di mio padre,
che già di questa madre aprì le viscere,
e adesso è quell’uomo che nel letto ti copre,
povero giovine forzuto e vigoroso,
ignaro zappatore in questa grotta
splendente di lenzuola.
È adesso lui quell’uomo che ti copre,
ti copre e poi ti scopre come bimbo stupito
su un fosso senza fondo
innanzi a quella morte immersa che il mar liscia
ben oltre questo specchio.

*

AUSIAS MARCH

a Raimon

C’è qualcosa nel fondo, e non la lingua,
che fa che ci intendiamo.
Non so come spiegarlo.
Niente io so del tuo passato d’uomo
di navi e di falconi,
non ho terreni o schiavi,
e le donne che ho visto quest’estate
erano corpi sterili,
nudità grigia che di nero vestiva
ogni mattino col bianco ostinato
d’un gelsomino in fiore,
profumando e tristezza e allegria.

Neppure credo che ci affratelli
quello che mai cambiò:
qui un moro amputato perché ladro,
per la legge del tempo;
qui un prete assassinato sopra l’aia,
braccato dai vicini.
Perché la geografia del nostro sangue
e di questa barbarie
è da sempre la stessa:
mare che brucia e sole che ti affoga.

Dev’esser qualcos’altro
che io non so spiegarmi.
Come buco nel cuore fatto al globo,
un’immondizia indomita che a te
faceva amare il corpo d’una zoccola
mentre pensavi alla vera fede
delle anime pulite, che ignoravano
il nobile metallo della brama.
Altro non era
che un pezzetto di quello che volevi.

Ma forse ti comprendo per il fatto più semplice:
perché io e te abbiam visto
dei ragazzetti a correre in piazza
e poi lieti svagare,
segnati dalla lebbra della vita.

&

Qualcosa c’è più in fondo, e non la lingua,
che fa che tu ed io ci si intenda.
Non so come spiegarlo.
Io nulla so della tua eroica vita
di navi e di falconi,
non ho né schiavi né poderi,
le donne poi che in estate vedevo nel paese
erano corpi sterili,
un grigio resto che tutte le mattine
si vestiva di nero e s’accendeva
dell’ostinato bianco di un gelsomino in fiore,
che profuma il dolore e l’allegria.

Neppure credo che ci affratelli
quel che non è cambiato:
qua un moro mutilato perché ladro,
la legge lo esigeva;
un prete lì disteso su uno spiazzo,
bucherellato dai suoi parrocchiani.
Perché la geografia del nostro sangue,
della nostra barbarie
resta sempre la stessa:
un mare che ti brucia sotto un sole che affoga.

Dev’esser qualcos’altro
che io non so spiegare.
Come un solco nell’anima tracciato nella terra,
un’immondizia indomita per cui tu ti vedevi
padroneggiare intera una puttana
mentre pensavi alla fede sincera
delle anime più pure, che ignoravano
un sublime metallo: il desiderio.
Era soltanto
una piccola parte di ciò che tu volevi.

Forse, però, ti intendo per un motivo semplice:
perché abbiamo visto, tu ed io, dei bimbetti
correre per la piazza,
spensierati e felici,
segnati dalla lebbra della vita.

*

TANGO DOLCE

Quando apro la porta e tu appari,
la luce è superflua, come il tempo.

Io so che tu domani
sarai solo un oggetto,
disteso come adesso,
rigido sotto il suolo,
ma intanto ora respiri
e sento il tuo ansimare.
La tua musica d’oro
fa nudo il mio silenzio.

Quando apro la porta e tu appari,
la luce è superflua, come il tempo.

Che voglia di restarmene
con nient’altro che un corpo
fatto di tristi briciole,
allegre nel tuo fuoco!
Se non ho più le forze,
il tuo mucchietto d’ossi
porta in spalle la carne
che ti aspetta nel letto.

Quando apro la porta e tu appari,
la luce è superflua, come il tempo.

*

A . Ω

Di tutte le penombre in cui son stato,
questa è la più profonda.

Al di sopra di me durano i sogni.

Sotto il terso rovescio di due date
sono rovina di rubate attese.

Ciò che fui non è più, e qui dichiaro
il mio postumo sogno: la mia morte
a tutti voi appaia prematura.

*

CALEIDOSCOPIO

Che c’è dietro alla luce?
……………………………..Altra, e più pura.
Anche il cristallo è aria. L’aria, nulla
che si possa toccare, né che pesi,
carica solo di un brillio che include
tutto quanto hai vissuto.
Niente che sia visibile.
Disegno senza tracce di una ombra
fatta di chiarità che ospitava
e ospita ancora
le persone che amasti,
quelle toccate senza amore un giorno
e i loro persi nomi che ora il vetro
ripete nei riflessi. E tutti hanno
la stessa forma, essendo stati uguali.
In quella loro massa, denudata
dell’essere e del vivere, dei tratti
che un giorno hai contemplato,
s’accalcano i loro abiti, e salive,
le loro urgenti frasi di speranza
e quei giorni di sangue di tua madre
quando non c’eri e lei non era nulla.

Adesso è tutto questo
un pozzo di colori,
un fumo incanalato che assopisce.
C’è altra luce al suo fondo, come nata
dal vapore di vampa, che oggi solo è vapore,
rara tonalità di altra purezza,
un’incisione in più, dietro al tutto.
Pure il cristallo è aria, e nell’aria
vedrai, tutto infranto,
quell’ultimo colore, che ti incendia.

*

GENERAZIONE

Il letto è uno specchio che ci lascia nudi.
La mia nudità è nera come bile di un cieco.
Cieco come il bambino senz’occhi che ha sparso
di queste viscere il bianco imprudente
con lo stesso retaggio di altri poveri
di greve e di solenne mansuetudine.
Sono un mite cavallo cavalcato
da tempi ciechi, e bianchi e denudati,
tempi per qualche vuoto gesto inutile
come questo umido taglio, perché il solco
è già aperto,
già è rotto il solco,
mio padre aprì la via,
e voglio dire il padre di mio padre,
che già di questa madre aprì le viscere,
e adesso è quell’uomo che nel letto ti copre,
povero giovine forzuto e vigoroso,
ignaro zappatore in questa grotta
splendente di lenzuola.
È adesso lui quell’uomo che ti copre,
ti copre e poi ti scopre come bimbo stupito
su un fosso senza fondo
innanzi a quella morte immersa che il mar liscia
ben oltre questo specchio.
La mia mano è una cagna in calore che ti morde,
ma più non resta spazio ormai per i suoi morsi.

Immagine: Isabel Muñoz.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).