Gente che avrei voluto conoscere: Casanova

da | Mag 13, 2014 | Senza categoria

Ho letto Storia della mia vita che avevo quindici anni e mezzo, un eskimo, su una mensola sopra il letto tutta la collana di opere di poesia ordinata per colore che a un certo punto ti davano  ogni lunedì col corriere, un motorino con i sigilli ancora attaccati che ho colpevolmente distrutto  l’anno dopo contro una rotatoria e, cosa più importante di tutte, una ragazza mora con gli occhi  scuri e le labbra sottili sottili che un pomeriggio d’estate aveva suonato per me il piano senza niente addosso, e con cui ho fatto l’amore per la mia prima volta nel letto dei suoi nonni in una stanza con le serrande chiuse, i centrini all’uncinetto sopra i comodini, gli specchi anneriti attaccati agli armadi di legno lucido coi ghirigori dorati vicino le cerniere, e nell’aria l’odore dolce delle cose vecchie.

 

Si chiamava Marta (a proposito, mi è rivenuto in mente che qualche tempo fa durante un LibriCome io e un mio amico, Fabrizio Gabrielli, ragionavamo sulla grande quantità di occorrenze del nome Marta usato come pseudonimo, come in questo caso. A lui è venuto in mente che il fatto che il gruppo consonantico “mrt” sia lo stesso della parola morte potesse entrarci qualcosa. Io non ho detto niente ma mi è comunque sembrato interessante), ora vive a Londra col ragazzo, uno dei miei migliori amici del liceo con cui è fidanzata da anni con una serietà che da lei non mi sarei mai aspettato. Si sono messi insieme la sera prima del mio orale della maturità, praticamente l’unica notte di quell’estate in cui io non fossi di compagnia in spiaggia con gli altri ma chiuso in casa a cercare di capire il perché di tutta quell’ansia (la mattina seguente la mia infantile tesina su quanto mi sentissi figo nell’amare la poesia di Campana avrebbe comunque fatto un figurone).

 

Per leggerlo ci ho messo tre mesi, prendendo in prestito dalla biblioteca comunale davanti al comune tre volumi alla volta dei dodici di cui si componeva quell’edizione del ’64, con le pagine lise e ingiallite che se volevi tornare indietro e rileggere un passo quasi per ammonirti si scollavano e dolcemente, senza fatica, venivano via dalla brossura. Forse perché certi libri si devono leggere solo una volta nella vita, avevo pensato, è un po’ come quella cosa del questo libro si autodistruggerà non appena verrai in possesso di un carattere degno di questo nome.

 

Io un carattere, un’intimità da scandagliare non ce l’avrei avuta ancora per un po’ e quando i  volumi alla fine mi si sono distrutti tra le mani (la segretaria della biblioteca che praticamente mi ha visto crescere ancora mi guarda storto, se le capita di riconoscere il mio cognome) io e Marta non stavamo più insieme: mentre io leggevo le ultime pagine di un Casanova che esiliato e invecchiato e solo assisteva impotente da una biblioteca buia della Boemia alla fine dell’Ancien Régime e all’inizio della rivoluzione che avrebbe estirpato via dall’Europa tutto quello che rimaneva di vecchio, compresa quella classe di nobili amata e odiata da cui non verrà mai accettato tra le sue schiere a causa delle sue origini popolari, lei mi aveva detto, con una naturalezza che io non ho mai imparato a usare e che ho invidiato a lungo nelle persone che mi lasciavano senza farselo pesare, quasi sorridendo, comunque senza caricare di troppi significati il momento (eravamo in piedi sotto la fermata di un autobus, quasi pioveva, il tempo era grigio notte e non eravamo comunque intenzionati a sfiorarci), forse è il caso che la finiamo qui, semplicemente, non ci vediamo più, e io forse non sapendo che dire sono stato d’accordo, essere d’accordo quando non si pensa niente va bene sempre, va bene, non ci vediamo più e ho pensato che magari avevo fatto qualcosa di sbagliato di cui non mi rendevo conto, ma di sicuro non potevo chiederle che cosa ti ho fatto, o perché, non facevamo niente di strano, uscivamo il sabato sera e ci vedevamo due ore dopo pranzo, e avevamo timore pure nel parlarci, e se ripensavo a quel pomeriggio nella camera da letto dei suoi nonni mi veniva un ricordo confuso e una vergogna strana, che non riuscivo a spiegare nemmeno a me stesso.

 

La mia prima ragazza vera mi stava lasciando, e io che non sapevo niente di come funzionano queste cose un po’ mi stupivo della mia innocenza e del mio non sapere bene come reagire, mi sentivo disarmato e inerme e solo e allora è così che funziona mi sono detto, è strano che non faccia tanto male come dicono, forse ora siamo tutti diversi, nel settecento in Europa le cose dovevano funzionare diversamente, e io di sicuro non sono come Giacomo, no, e allora mi sono ricordato di quando l’unica donna durante tutto il libro che lui ama sinceramente (anche se usa la parole amore e i suoi sinonimi più inflazionati a ogni nuova avventura senza il timore di sembrare superficiale per questo, per Henriette si percepisce qualcosa di diverso nel suo usare metafore mediche per raccontare il dolore del cuore) ed è disposto a soffrirne la perdita e la mancanza, Henriette, lo lascia, quasi non si amassero, pregandolo di fingere di non riconoscerla, se mai si fossero incontrati di nuovo.

 

È il carnevale del 1749, Henriette viaggia per l’Italia sotto mentite spoglie, vestita da ufficiale, rea di aver abbandonato il tetto coniugale. Casanova se ne innamora all’istante, la prende con sé, e insieme trascorrono tre mesi tra i più felici della sua vita. Poi il sogno di una vita che non sarebbe valsa la pena scrivere finisce (e me lo immagino, Giacomo Casanova, in un giardinetto all’americana sul retro di una casa di legno, a insegnare a bambini con le guance rosa e l’accento veneziano l’arte la scherma e Orazio, e una moglie francese che lo guarda innamorata, e non ha bisogno di nient’altro), lei viene riconosciuta, a Ginevra il cuore di Casanova si frantuma all’istante in centinaia di minuscoli pezzettini come si frantuma il cuore di un uomo quando capisce che la sua unica possibilità di redenzione è perduta per sempre, e che ormai di sé stesso gli rimarrà solo quello che la gente sa di lui, quello che la gente immagina e lui, forse perché non è tipo da deludere le aspettative delle persone che incontra, accetta il suo martirio con tutta la vanità di cui dispone.

 

Nel momento in cui Henriette se ne va Giacomo diventa Casanova.

 

Rimasi in camera e passai uno dei giorni più tristi della mia vita. A un certo punto, su uno dei vetri delle due finestre scoprii una scritta. Diceva: “Dimenticherai anche Henriette”. L’aveva incisa lei con la punta di un piccolo diamante che le avevo regalato. Non era una profezia consolante, ma cosa voleva dire Henriette con “dimenticherai”? Non poteva in verità voler dire se non che la ferita si sarebbe cicatrizzata, ma questo era naturale e mi parve inutile che mi facesse una così triste profezia. Ma non l’ho dimenticata, e mi scende un balsamo in cuore ogni volta che mi viene in mente. Se poi penso che ciò che mi allieta la vecchiaia è la memoria, mi rendo conto che la mia lunga vita deve esser stata più felice che infelice.

 

Testimonianze posteriori suggeriscono che sia stato lui stesso a incidere la scritta sul vetro: è perfettamente plausibile, ma lo stesso conta poco. Henriette e Casanova si incontrano altre due volte, ma la prima volta lui non la vede e la seconda, forse come lei gli aveva suggerito di fare, finge di non riconoscerla, trasformando il dolore in boria, in infantile sicurezza di sé.

 

Quando Marta torna a casa, a Natale o qualche settimana in agosto se ci incontriamo per strada e ci riconosciamo ci sorridiamo imbarazzati senza dirci niente, o se magari abbiamo voglia di farci un piacere a vicenda fingiamo di non riconoscerci, lasciando alla visuale periferica dell’occhio il compito di non metterci fuoco e di confonderci col resto del mondo.

 

È l’unica donna di cui lui ha paura.

 

È chiaro che certe cose non si dimenticano.

 

Perché ora lo so, come funziona, perché certe cose nemmeno io le ho dimenticate, e anche se sono sicuro di non averla mai amata, Marta (non avevo le categorie necessarie per capire quello che stava succedendo e come avrei dovuto in qualche modo ricollocarlo dentro la sfera dell’intimità, forse perché ero io, o perché era la prima volta o solo perché non era il momento) qualche anno dopo ho sperimentato che cosa vuol dire giudicare qualcun altro più importante di sé stessi, ed è una cosa devastante, per niente scontata, che c’entra col capire per la prima volta di non essere solo al mondo, anche se per me è stata qualcosa che dura poco, che forse non vale la pena raccontare, solo il tempo di ricordarsi come si fa piangere, e il modo sicuro per sentirsi morire mentre invece sei vivo.

 

Poi ho amato altre persone, qualche volta senza nemmeno rendermene conto o capendolo solo alla fine, quando era troppo tardi, fingendo una naturalezza distaccata e ridicola, qualche volta  rimanendoci molto male. Lei è scappata come ha fatto Henriette, anche se non aveva qualcosa di più importante da qualche altra parte o un dovere che la reclamasse, forse aveva solo paura, o era insicurezza, o forse sono io che mi sopravvaluto, quella era semplice perfidia, magari era solo un rivalersi sul genere maschile in generale e io ci ero solo capitato mio malgrado, ma quando scappi conta solo quanto veloce riesci ad andare, e io ancora mi chiedo lei che fine abbia fatto e se sapeva che non ci saremmo mai più potuti parlare come prima, doveva aveva imparato a dire addio alle cose, e che cosa deve avere pensato, mentre correva via anche se non poteva andare veramente da nessuna parte (nessuno dei due conosceva ancora abbastanza strada che potessimo calpestare per allontanarci), e lei abitava dietro la scuola elementare (se mi sporgevo abbastanza dalla finestra di camera dei miei riuscivo a vedere la luce accesa della sua soffitta), a sette minuti di bicicletta da casa mia, le volte che proprio non potevo aspettare.

 

Io sono rimasto fermo dov’ero a fissare le luci di una soffitta che non vedrò ma più illuminata  dall’interno, né vedrò il giradischi, e le candele profumate che non ho mai visto accese. Le volte che ci ripenso sorrido, nel constatare che ancora mi ricordo il suo numero di cellulare a memoria, anche se le ultime volte che ho provato a chiamarla la voce diceva numero inesistente. Sono informazioni sbagliate che hanno la stesso valore di un brutto souvenir di un viaggio che hai fatto tanti anni fa in un posto che non ti ricordi più.

 

Pure Casanova è scappato, anche se non lo ammetterà mai, (come potrebbe d’altronde? È uno di quegli uomini perfettamente consapevoli della leggenda che li precede ovunque si spostino, un po’ come immagino che sia successo ad Alessandro Magno, a Gesù Cristo o a Maradona ma anche se lui ci proverà fino alla fine non verrà mai ricordato come artista, come scrittore, come alchimista poeta o truffatore, no, solo come uomo, tutto uomo nella presunta bassezza di alcune funzioni biologiche, come amante illusorio, come uomo irrequieto che vaga spensierato nei parco giochi d’Europa, che ha visitato corti e carceri di più nazioni, che tra le altre cose è fuggito dai piombi, ha litigato con Voltaire e parlato col Papa e ascoltato Mozart dal vivo e baciato sulla bocca (pare) Caterina II, e per dare una spintarella vaga alla fortuna la storia della sua vita l’ha scritta in francese, perché è una lingua che è una cassa di risonanza, per una questione di fruibilità di contenuti, l’unica degna di raccontare (svilendola) l’ipocrisia di quegli uomini e quelle donne con un realismo da reportage antropologico), scappa correndo l’Europa, declinando la fierezza mai sopita per la cittadinanza veneziana in una più vasta vocazione continentale, rifugiandosi nell’abbraccio di donne e nazioni, fino a dilapidare una fortuna, costruirne una nuova e (Napoleone ante litteram, mi viene in mente mentre scrivo) per l’ultima volta finire quasi cadendo, nel grembo esiliato di una biblioteca, a fare a botte con una servitù scostumata per mantenere ancora un briciolo di dignità.

 

Ora sono a Dux dove per andare d’accordo coi miei vicini basta che non parli con loro. E nulla mi è più facile.

A me Casanova ha fatto una gran pena, alla fine di tutto, perché so che la prima occasione che ti capita nella vita per darle un senso quasi sempre diventa il primo rimpianto, qualcosa di cui fatichi a valutare la portata, e insieme il giudizio su cui tarare le esperienze future, un metro di paragone che a poco a poco si fa sempre più sbiadito e innocuo, fino a che non ti servirà rileggere un vecchio libro, per farti ricordare dove sei arrivato, e che strada hai fatto per arrivarci. Per qualche tempo, un tempo che non conta più perché è passato, Storia della mia vita è stata la sintesi unitaria e perfetta di quanto nel mondo fosse detestabile e insieme desiderabilissimo, come se io, insieme a Giacomo, non potessi mai veramente decidermi tra la sincerità dei sentimenti del cuore e la vanità di quelli del corpo ma rimanessi sempre incastrato nel centro esatto di queste opposte tendenze, come se fossero allo stesso tempo ciò che mi lacerano e insieme ciò che mi circoscrivono. Per questo mi faccio un po’ pena anche io, e il ricordo di me a quindici anni (se è vero che poi a un certo punto si cresce e non si rimane sempre gli stessi), ingenuo e innocuo chino sulle pagine di un libro che non avrei capito, se non fosse stato per Marta e per una solerzia che mi aveva preso alla sprovvista, facendomi venire a parte per la prima volta e con sgomento del concetto di inadeguatezza.

 

Se chiudo gli occhi, Giacomo me lo immagino con il viso grave e perfettamente plausibile dell’attore del Casanova di Fellini (l’attore è Donald Sutherland, il cui viso è stato adattato per farlo assomigliare il più possibile a uno schizzo di Casanova che gli ha fatto Francesco, il fratello pittore, battaglista di discreta fama) nell’incontro con la madre, in una scena piena di poesia, che cammina col mantello e il fiocco bianco in mezzo ai lampadari ancora accesi nella grande sala del teatro di Dresda. E poi vedo un’ombra lunghissima che lo segue a ogni passo e che si allunga sempre di più, come se alla sua stella non riuscisse mai di tramontare del tutto, come se (anche se sei stanco e non te lo aspetti) dietro alle città e alle montagne rimanesse comunque qualche altro metro di un giorno ingrato, buono solo per farti vedere quanto buia riesce alla fine a diventare la notte.