Padri e figli 2 – La resa dei conti

da | Mag 24, 2013 | Senza categoria

Nella prima puntata ho parlato del racconto di Stanley Elkin Il Condominio. La storia di Marshall Preminger, trentasettenne velleitario, ex conferenziere, laureando, che eredita l’appartamento da scapolo del padre Phil, morto giovane (intorno ai sessanta), in un complesso residenziale popolato  da gente con una trentina d’anni più di lui.

Avevo finito col dire che Marshall è un personaggio la cui sofferenza non si capisce e che prende decisioni sempre forzate (forzate dal contesto del condominio o dalle scelte narrative di Elkin). Questa è una rubrica che tratta del rapporto tra i padri e figli all’interno dei libri e riguardo al Condominio non mi è chiaro perché Marshall non riesca, come dice Giuseppe Berto nel Male Oscuro, a mettersi il proprio padre sotto i piedi. Se il cuore del loro conflitto è nei problemi di Marshall con le donne, nel sesso cioè, nei soldi, o magari di un’idea sbagliata di cosa significhi essere un uomo. E non nel senso in cui lo intende Levi, ma più una cosa come: cosa è un adulto? Quando Marshall potrà considerarsi adulto?

Una situazione simile alla sua la vive Tommy Wilhelm, il protagonista di quello che sembrerebbe essere il modello principale alla base del libro di Elkin: La Resa dei conti  di Saul Bellow (del rapporto familiare tra i due libri parla anche Gianluigi Ricuperati nella prefazione all’edizione minimum fax del Condominio – e se volete approfondire consiglio questo pezzo di Francesco Pacifico uscito sulla Repubblica).

Anche Tommy vive in un palazzo di vecchi, l’Hotel Gloriana nell’Upper Weast Side, e tra quei vecchi, qualche piano più sotto rispetto alla sua camera, c’è anche suo padre. Tommy ha quasi dieci anni più di Marshall (quarantasette) ed è un ex venditore di mobili per bambini adesso disoccupato (non si sa se si è licenziato di sua sponte o, come teme il padre, lo hanno cacciato). È separato dalla moglie (e dai due figli) già da quattro anni ma non riesce ad ottenere il divorzio. L’avvocato della moglie ne tira sempre fuori una nuova, dice.

Il modo migliore, però, per mettere in collegamento i due libri secondo me è passare attraverso i dirigenti del condomino dove finisce a vivere Marshall Preminger, e che Elkin descrive come “uomini in carne, abiti eleganti, scarpe pregiate”.

Sid Harris, il presidente della società che gestisce il condominio, è molto anziano e in teoria più vicino alla morte di Marshall ma non è tipo da sentimentalismi. Harris porge così le sue condoglianze a Marshall: “(…) volevo parlare di quanto mi è dispiaciuto. Un dispiacere che non se ne vuole andare, come un fastidioso raffreddore estivo”.

I dirigenti stanno cercando di comprare a Marshall l’appartamento del padre facendogli pressione con le spese arretrate che non può pagare.

“Va bene, senta”, disse Harris, “Le cose stanno così. Mi dispiace tantissimo doverla importunare con certi dettagli in un momento tanto terribile, ma i fatti sono fatti. La vita va avanti anche quando ci capitano delle disgrazie. Quando è venuto a mancare, suo padre era indietro con i pagamenti. Era rimasto senza soldi. Non ho mai visto uno spendaccione simile in vita mia. E pensare che quando l’ho conosciuto era così cauto. Prudente. Prudente è l’aggettivo giusto, vero Shirley?
“Molto prudente”.
“Ma verso la fine… be’, verso la fine ha cominciato a spendere e spandere. Mi chiami un taxi, tenga pure il resto”.
“Mani bucate”, disse Colper.
“Aveva un che del marinaio ubriaco”.

Se il padre di Marshall, Phil Preminger, ci viene presentato come il cadavere di un sessantenne che negli ultimi tempi viveva un po’ come un marinaio ubriaco (una figura affascinante ma patetica in fondo), il padre della Resa dei Conti è un vecchietto arzillo senza peli sulla lingua proprio come i dirigenti del condominio. Innamorato come loro dei soldi, con un’idea di soldi e di capitalismo, anzi, superiore, più pura di quella a cui magari noi europei siamo abituati a pensare.

In comune, Il Condominio e La Resa dei Conti hanno sopratutto il cattivo rapporto dei loro protagonisti con quel materialismo metafisico che ha scavato fondamenta e innalzato edifici il più in alto possibile, sfruttando al massimo le lottizzazioni del terreno e contemporaneamente avvicinandosi al cielo.

(ovviamente ci sarebbe tutto un discorso su come entrambi i libri trattino la tradizione ebraica che lascio ad altri, a me interessano i Padri e i Figli)

 

La resa dei conti

Il vero nome del protagonista del racconto di Bellow è Wilhelm Adler. Tommy Wilhelm è il nome d’arte scelto ad Hollywood quando ha provato una carriera d’attore. Come detto, vive sotto lo stesso del padre, in un albergo sulla Broadway. Il dottor Adler è un professore di medicina interna ritiratosi a vita privata. Si sta godendo i suoi ultimi anni e non vuole problemi.  Il figlio non porta il nome del padre, lo ha “lasciato cadere” quando ne ha dovuto scegliere uno da aspirante attore. Il Figlio, quindi, ha un nome di troppo, mentre il Padre ne ha uno di meno: quello di battesimo è sostituito dalla sua professione. Bellow lo chiama sempre, anche nei monologhi interiori di Tommy, “il dottore” (o, in alternativa, “il vecchio”). Senza lanciarmi in interpretazioni fuori dalla mia portata, mi sembra (anche, solo) un bel modo per marcare la differenza di concretezza tra i due, usando proprio un materiale di base diverso (un pittore magari avrebbe dipinto uno a spatolate e l’altro coi pastelli di cera).

La virilità di Tommy non è perfettamente sana, è un tipo grande e grosso che guardandosi allo specchio si paragona a un “ippopotamo biondo”, a un’orso, che beve Coca Cola prima di colazione e si mette i mozziconi di sigaretta nelle tasche. La sua figura di ragazzone contrasta con la popolazione anziana dell’albergo ma anche lui non è esattamente un ragazzino, la sua schiena è già curva. Tommy è solo relativamente giovane e per questo (e per come si giudica guardandosi allo specchio o tirando una delle tantissime somme della sua esistenza) fa un po’ pietà. Il padre invece ha “un sano colorito rossastro e quasi traslucido, come un’albicocca matura”. Tommy vive peggio e ha un aspetto peggiore di lui.

(Per il ruolo di Tommy nella versione cinematografica del racconto è stato scelto Robin Williams, anche se io lo immagino più come un John Voight prima che invecchi, un John Voight “TQ”, solo più grasso, una bellezza non priva di potenziale – vedi la figlia – ma facile da rovinare.)

Wilhelm Adler, aka Tommy Wilhlem, aka Wilky (come lo chiama il padre), non ha niente da fare tutto il giorno ed è in bolletta. Si sente “leggermente fuori posto” all’Hotel Gardenia.
“Wilhelm era abituato a una vita attiva e gli piaceva uscire al mattino a far qualcosa. E per diversi mesi, poiché non aveva un lavoro, si era tenuto alto il morale alzandosi presto; scendeva, già sbarbato, alle otto in punto. Comprava sigari e giornali e beveva una Coca cola o due prima di andare a colazione col padre. E dopo colazione, fuori, fuori, fuori per le sue preoccupazioni. Uscire era diventato di per sé la sua principale occupazione”.

Quello di andare in California per sfondare nel cinema è stato il primo dei suoi fallimenti.Il talent-scout con cui era entrato in contatto aveva detto che non gli sembrava un duro alla George Raft (il protagonista di Scarface nella versione originale di Howard Huges) ma piuttosto: “Il tipo a cui un George Raft o un William Powell portano via la ragazza. Siete leale, fedele e vi tradiscono. Le donne più vecchie pensano che avrebbero preferito voi. Le madri sono dalla vostra parte. Con tutto quello che hanno passato, se dipendesse da loro, vi piglierebbero subito. Le intenerite. Anche le giovani s’inteneriscono, sareste un buon marito, ma s’innamorano degli altri. È chiarissimo”.

Il sottinteso è che il pubblico maschile un personaggio del genere lo disprezza. Che sia uno che piace alle mamme ma non ai padri. Un cocco di mamma, ma non un daddy’s boy.

Non per niente Tommy soffre terribilmente per la morte della madre e una delle cose che rinfaccia al dottor Adler è di non ricordare esattamente la data in cui è morta.

Da questo capiamo anche un’altra cosa: che per Bellow i fallimenti sono tanto importanti quanto i successi, anzi sono forse un modo migliore per indicarci il ruolo dei suoi personaggi nello scacchiere umano. Per rimetterli al loro posto. Che la verità è figlia della sofferenza; che gli individui (almeno a livello formale, narrativo) sono il risultato del conflitto inconciliabile tra dentro e fuori, tra quello che sentono di essere e quello a cui alla fine somigliano le loro azioni.

Wilhelm si sente in colpa ma allo stesso tempo: “Poiché in Wilhelm c’erano delle profondità da lui stesso insospettate, qualche elemento remoto dei suoi pensieri gli suggerì che il compito della vita, il vero compito – portare il proprio fardello, provare vergogna e impotenza, sentire il sapore di quelle lacrime rattenute –, il solo compito importante, il più alto compito era proprio quello. Forse era proprio negli errori il senso della sua vita, la sostanza del suo esserci. Forse egli doveva farli e soffrire per essi su questa terra”.

Un’idea del genere è tutta l’opposto di come il padre di Tommy vede le cose. Il dottor Adler minimizza i fallimenti del figlio davanti ai suoi amici dell’albergo dicendo che “Wilky ha avuto ogni sorta di esperienza” e  si vanta con loro dei tempi in cui Tommy vendeva molti mobili per bambini e aveva “delle entrate a cinque cifre”. Gli amici del dottor Adler cambiano voce quando si parla di soldi e usano come metro di valutazione le tasse. Il che non fa che aumentare il senso di inadeguatezza del povero Tommy: “«Davvero? Era nella categoria del trentadue per cento? Anche di più, forse?» Domandava per sapere, e pronunciava le cifre non con indifferenza, ma con gusto, con voluttà. Coma amano il danaro, pensò Wilhelm. Adorano il danaro. Sacro danaro! Meraviglioso danaro! La gente capiva poco le cose, ma capiva sempre quando si trattava di danaro. E se tu non ne avevi eri un cretino qualunque. Dovevi farti perdonare la tua presenza su questa terra. Porcheria! Ecco cos’era. La peste del mondo. Se solo avesse potuto liberarsi di tutto ciò.”

Per questo il dottor Adler non può capire il figlio, cosa di cui lo stesso Tommy è consapevole nel bene e nel male: “(…) non si può fare un paragone tra te e me, perché tu, papà, hai avuto successo nella vita. E il successo… è il successo. Io no.”

Tommy è una drama queen e porta tutto all’estremo. A un certo punto dice: “Vuoi che sia io a consolarti di avere un figlio simile?”. Ma il dottor Adler pensa che il figlio dia troppa importanza ai suoi problemi. Non può capire quel figlio sporco, che non si lava le mani neanche prima di colazione e quando sguscia un uovo lo riempie di ditate nere. Che usa il rasoio elettrico “per non dover toccare l’acqua” e che lui non va mai a trovare in stanza perché la sporcizia in cui vive lo manda ai pazzi. Oltretutto Tommy quando parla si agita e non la smette di muoversi, è diventato “un campionario completo di tic”.

Al sentimentalismo del figlio, il dottor Adler risponde con toni da commedia. Quando vuole andare a trovare la tomba della madre, lui si rifiuta perché non gli piace come guida, perché “Distrattamente, Wilhelm restava in seconda per dei chilometri”.
Ai suoi slanci emotivi replica: “Devi avere un qualche tuo scopo”, disse il dottor Adler “per comportarti in maniera così irragionevole. Che cosa vuoi? Che cosa ti aspetti da me?”

E in un certo senso sembra aver ragione il dottor Adler, se si pensa che Tommy gli lascia un biglietto in cui gli chiede di pagare l’albergo al posto suo. Allo stesso modo noterò di sfuggita che Tommy, in quanto padre assente di due figli indietro con gli alimenti, non è nella posizione migliore per rimproverare al suo alcunché (scrivo io: figlio di un padre divorziato spesso indietro con gli alimenti); e che il ricordo tenero della madre contrasta fortemente con la figura minacciosa e angosciante della moglie, che per Tommy la donna-moglie è qualcosa di completamente diverso dalla donna-madre (o forse lo è per Bellow).

Diciamo quanto meno che se si sottraggono alle recriminazioni di Tommy le sue mancanze, ai pregi i difetti, il risultato è uguale a zero (come con quasi tutti i personaggi scritti bene, almeno secondo me). Tommy e il padre sono la base del problema e il vertice è un personaggio di nome Tamkin. Anche lui è dottore, psicologo, ma forse è solo un millantatore (pare faccia delle ricette). Il “dottor” Tamkin sa quali sono le corde da toccare per muovere quell’ippopotamo biondo a compassione. All’auto-compassione, cioè, terreno fertile per spingerlo a compiere nuovi errori: “Wilhelm, io sto cercando di aiutarvi. Voglio dirvi di non sposare la sofferenza, come fa certa gente. C’è chi sposa la sofferenza, ci mangia e ci dorme insieme, come marito e moglie. E se vanno con la gioia pensano di essere degli adulteri”.

Tamkin è un imbonitore che lo convince a investire in borsa (in lardo e cereali) e si interessa all’eredità del dottor Adler (io lo immagino come il tizio col parrucchino che entra dal barbiere – nel film dei fratelli Coen: L’Uomo che non c’era – e si fa dare i soldi da Billy Bob Thorton per il suo business di lava-secco). È un Figura Paterna illusoria e gli racconta di pazienti con storie più complicate della sua, donne che avevano più uomini e padri che non potevano essere sicuri del legame di sangue coi propri figli: “«Voglio raccontarvi di questo ragazzo e di suo padre. È interessantissimo. Il padre era nudista. Tutti andavano in giro nudi, in quella casa. Forse la donna era attratta dagli uomini vestiti. Inoltre suo marito pensava che tagliarsi i capelli non fosse una cosa naturale. Era un dentista. Nello studio indossava pantaloni da equitazione e stivali, e una visiera verde.»
«Via, non è possibile» disse Wilhelm.
«È la pura verità.»”

Tamkin fa uscire di testa Wilhelm alternando racconti di questo tipo a pensieri con una loro presa come quello sulla sofferenza di prima, o come questo che segue: “«Non vi rendete conto (…) che non si può marciare verso la vittoria in linea retta? Uno ci arriva fluttuando».

Noi sappiamo, intuiamo, che non sia una buona idea associarsi con lui e anche Tommy dubita in più di un’occasione della sua buona fede. Ma alla fine commette comunque l’errore di dargli tutti i suoi risparmi per un investimento che si rivelerà sbagliato. Ripeto, non è un colpo di scena. Bellow ce lo fa capire abbastanza bene come andranno le cose. Il punto è un altro.

Il punto, forse, è che Tommy vuole essere accettato dal padre anche sbagliando. Anche da fallito. Questa è la natura del suo sentimentalismo. Dopo aver confessato al padre di aver subito l’ennesimo scacco, quando questo gli rifiuta l’aiuto economico di cui avrebbe bisogno Tommy è definitivamente nudo: “Non è solo una questione di danaro… Ci sono altre cose che un padre può dare a un figlio”.

Tommy si è sbucciato il ginocchio dopo essersi scontrato con La Vita e vuole che il padre lo consoli. O quanto meno che non lo disprezzi perché debole.

 

Conclusione

La Resa dei Conti (uscito sulla Partisan Review nell’estate del 1956 col titolo originale Seize the Day) si colloca all’interno della bibliografia di Bellow come cerniera tra un primo periodo di letteratura che lui stesso definiva “vittimistica” e il secondo più esuberante inaugurato da Le Avventure di Augie March (che però gli è precedente).

Adam Thirlwell nel suo Mademoiselle O (un libro che non saprei definire, è critica letteraria, ma è bella come la letteratura stessa) descrive la svolta stilistica parallela a quella tematica. Secondo lui Bellow a un certo punto imparò a far perdere alle idee che esprimeva nei libri “la loro seriosità”. Per diventare un romanziere, un osservatore, Bellow ha dovuto cedere in prestito (definitivo) le sue idee ai suoi personaggi e guardarle da un metro di distanza. Erano ancora le sue idee ma al tempo stesso non erano più le sue idee. “Aveva imparato a imitare solo se stesso”. Questo, anche se si trattò di un cambiamento graduale, a partire da Augie March, libro con cui Bellow diventò veramente famoso.

James Atlas, nella biografia pubblicata in Italia col titolo Vita di Saul Bellow, nota che in Tommy Wilhelm sono riscontrabili alcuni caratteri autobiografici. In particolare la storiella dello scopritore di talenti hollywoodiano, è accaduta davvero proprio a Bellow. Chi conosce la sua storia sa quanto Bellow fosse ricco di ricordi patetici e quanto tempo avesse passato a compatirsi. Una malattia che lo aveva costretto all’ospedale per un lungo periodo da bambino, la morte della madre, la povertà.

Iniziò a scrivere nella camera da letto in casa dei suoceri, invece di andare a lavorare nel deposito di carbone del fratello (che alla fine lo licenziò per assenteismo). Prima ancora il padre scherniva le sue aspirazioni letterarie dicendogli: “Scrivi, poi cancelli. E lo chiami lavorare?”. Ma era il padre stesso un personaggio fallimentare in stile Tommy Wilhelm: “Sul certificato di nascita del figlio è descritto come «robivecchi»; per un certo periodo tentò anche il commercio delle granaglie. Aprì un forno con un altro greener, come erano chiamati gli immigrati appena arrivati, e si trovò a distribuire il pane nel cuore della notte. Si mise a vendere lotti al cimitero. Sperperò migliaia di rubli trafugati dalla Russia in un terreno a Valleyfield, nel Québec, con l’idea di fare il contadino”. Il padre di Saul, come Wilky, aveva avuto “ogni sorta di esperienza”.

Al tempo stesso, dice sempre Atlas, Wilky fisicamente sembrerebbe ispirarsi alla figura di Delmore Schwartz: poeta amico di Bellow, morto in povertà come molti degli amici e poeti frequentati da Bellow quando, negli anni quaranta, si era trasferito da Chicago a New York e da buon provinciale si misurava con gli intellettuali del Greenwich Village.

Più o meno dieci anni dopo, Schwartz sarà nuovamente utilizzato come modello nel romanzo premio Pulitzer Il Dono di Humboldt. Questa volta però non sarà il protagonista, ma il personaggio a cui il protagonista, Charlie Citrine, pensa colpevolizzandosi per il successo ottenuto scrivendo.  Humboldt/Schwartz rappresentava il mito dello scrittore romantico e intellettuale, rivoluzionario a suo modo, anti-sistema, con cui lo stesso Bellow era cresciuto e che a un certo punto, più o meno nel periodo della Resa dei Conti, per motivi stilistici, per far fluire la propria scrittura come abbiamo visto con Thirlwell, aveva dovuto abbandonare (ammesso che ne avesse mai davvero fatto parte – e da come ne scrive non sembra credere fino in fondo alla purezza di quel modello letterario). Humboldt è anche un antagonista che critica a Citrine di aver guadagnato un milione di dollari: “Che razza di scrittore o intellettuale è quello che guadagna cifre del genere?”

Bellow non era né romantico (non del tutto almeno), né tanto meno rivoluzionario. Amava l’America e la sua idea di successo. Certo ne vedeva il lato crudele, aveva perso degli amici in fondo e Humboldt doveva somigliare anche un atto d’accusa all’America per come ha trattato i suoi poeti più veri. Un atto d’accusa da un metro di distanza. E La Resa dei Conti, scritto nel momento in cui la sua carriera si stava staccando dal trampolino di lancio, mette in scena il personaggio più fallimentare, forse, il più bloccato, dell’intera bibliografia bellowiana. La Resa dei Conti forse è proprio quel passo lungo un metro.

Un modo come un altro per Bellow di mettersi sotto i piedi, ironicamente, non senza nostalgia, non senza sentirsi in colpa, il proprio padre, i propri fallimenti e i propri amici falliti. Tutti in una volta.

 

La prima parte è qui.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).