La nostalgia a rovescio

da | Nov 20, 2013 | Senza categoria

Settembre, in questo caso, è il più implicato dei mesi. Ricordo con precisione come arriva sul mio tavolo giallo la notizia della morte di Giovanni Raboni, un giovedì pomeriggio di settembre del 2004, mentre sto studiando. Quest’uomo elegante, con la barba bianca di un profeta o di un filosofo greco, l’avevo visto una volta sola, senza parlargli; ma lo seguivo sulle pagine del «Corriere della Sera». Scriveva di letteratura con una passione sobria, sorvegliata dall’intelligenza. Su quello stesso giornale, all’indomani della morte, Franco Cordelli ricordava, di Raboni, la «presenza morbida, morbidissima, come la sua prosa». E la parola «presenza» è quella che torna più spesso, nel ricordo degli amici – la signorile affabilità che un po’ intimidisce, i gesti del «lavoratore infaticabile». Traduttore, critico teatrale, critico letterario, direttore di collane, poeta: uno degli episodi della vita di Raboni che m’impressionò scoprendolo è quello di un infarto, nel 1987, da lui addebitato al lavoro eccessivo:

Ho cominciato ad avere dei dubbi sulla mia “onnipotenza”: prima credevo di poter far di tutto, sopportare qualsiasi fatica, invece poi ho cominciato a rendermi conto che non era così. Sta di fatto che l’infarto mi è venuto in un momento di spaventoso affaticamento da lavoro. Mi ricordo che quando mi sono ritrovato in sala rianimazione in ospedale, oltre tutto in Germania, ho pensato che in fondo fosse un momento in cui poter tirare un po’ il fiato. (Intervista con D. Piccini, Vivere almeno al 50 per cento, in «Poesia», n. 168, gennaio 2003).

D’altra parte, se non ci fosse altro, basterebbe ad ammirare Raboni l’impresa davvero eroica della traduzione integrale di À la recherche du temps perdu. Il suo nome l’ho trovato lì per la prima volta, nei volumi della collana «i Meridiani Mondadori». Il colophon dice: «Prima edizione giugno 1983» – e curiosamente è il mese e l’anno in cui sono nato. Ma di nuovo a un settembre risale la lettura, credo quello dei miei diciott’anni. Le pagine finali di Combray, preso dall’esaltazione, mi misi stupidamente a segnarle con matite colorate. Mi piace oggi l’idea che si possa riconoscere per intero a un traduttore il merito di averci permesso di scoprire un libro. Le frasi e le immagini che mi esaltavano – e che così chiaramente influenzavano i primi racconti che scrivevo – sono di Proust, ma sono anche di Raboni. Del Proust di Raboni, direi – così diverso da quello di Natalia Ginzburg, per esempio, dove le madeleines diventano «maddalenine» e tutto ha un’aria più spiccia, più domestica. Al Proust di Raboni appartiene la «zona di tristezza» in cui il Narratore entra dopo avere sognato di essere amico della duchessa di Guermantes, «pescare trote, andare in barca sulla Vivonne». È con questa voce di un poeta italiano che ho saputo di «camere d’estate dove è bello essere uniti alla notte tiepida»; di una nonna che scosta dal viso le sue ciocche di capelli disordinate e grigie sotto la pioggia, in giardino; di un campanile che sembra il dito di Dio – e tutto il resto.
La poesia di Raboni l’ho accostata più tardi: dall’ultimo suo libro, uno dei più belli, Barlumi di storia. Pubblicato – ancora settembre! – nel settembre del 2002. Qui gli endecasillabi «cesellati e pur semi-disintegrati» di cui parlava Zanzotto sono polverizzati; la maschera della forma chiusa si infrange e cade. Brani in prosa appaiono tra i versi, ma non più caratterizzati, come nelle raccolte precedenti, da un lirismo acceso, estremista: sono più composti, in una parola più tenui.

La mattina di Ferragosto mio padre usciva ogni anno in giardino e scrutava il cielo con un’espressione più rassegnata che interrogativa. Era azzurro dappertutto, sopra il Monte Rosa che a quell’ora era veramente rosa […]: un azzurro purissimo, incontaminato; ma mio padre scuoteva il capo e mormorava: «Pioverà anche oggi». (G. Raboni, Barlumi di storia, Mondadori 2002).

Ricostruendo la storia di quell’immancabile temporale, che segnava la fine delle vacanze, Raboni ne recupera anche la sfasatura, l’intoppo: quando, nel 1942, l’acquazzone, anziché chiudere, aprì «un’unica, grande vacanza senza scadenze né regole, una villeggiatura obbligatoria». Più volte, in versi, Raboni aveva raccontato quest’epoca della sua vita: i viaggi del padre, le «strane provviste», le notizie che riportava dalla «città sbranata». Ma qui sembra che la prosa sia in grado di cucire le intermittenze, di tenere fissi più a lungo i bagliori, i barlumi appunto.
Nella tesi di laurea che infine, nel 2008, su Raboni avrei scritto, mi soffermavo – con quelle frasi un po’ recitate, da laureando in Lettere, che oggi mi disturbano – sul rapporto fra prosa e poesia. In modo abbastanza confuso, arrivavo a sostenere l’inadeguatezza di certi proverbi critici. Cosa significa – mi chiedevo – che la poesia va verso o si compromette con la prosa? Nemmeno ora saprei rispondere, e forse non m’interessa più. Ma allora non potevo eludere quel genere di interrogativi, anzi mi ci accanivo: vivevo a Milano, scrivevo di notte o di mattina presto, intanto facevo mia la geografia di Raboni – Porta Venezia, Parco Sempione, i Navigli. I luoghi nominati nella sua poesia mi facevano strada nella città sconosciuta. Scendevo su via Farini, prendevo un caffè in un bar tenuto da cinesi, imboccavo via Paolo Sarpi, ed era questa la città dei giorni feriali, il grigio fresco del mattino in cui era avvolta – ma lampeggiava appena oltre un’altra città, appena un po’ sfasata, accordata a un altro calendario.

Numeri sbiaditi o divelti, rete
fatua di sentinelle, pagherei
per essere con voi dove non siete
più, 9 su un portone, 26

su un cancello, sbarrato il primo, muto
atrocemente il secondo che prima
cigolava che come da un liuto
ne era vinto il cuore, con tetra lima

sfranti entrambi. Ma: prendici per quello
che siamo ora, vi penso opporvi, povere
zampette frenetiche sul più bello
spiaccicate contro un muro, e s’infervora

così ancora una volta a vuoto il mio
corpo a corpo col virus dell’oblio.

Così, in questi versi di Quare tristis (Mondadori 1998), Raboni torna «ancora una volta» a interloquire con «gli sfrattati dal tempo», a immaginare con ostinazione – in una strana, vitale tristezza – il passato come un luogo ancora abitabile, un luogo che, volendo, si sovraimprime al presente. Proustiano? A suo modo. La luce che viene dall’infanzia di Raboni non ha niente a che vedere con quella del Narratore della Recherche: è più grigia, più severa, più dura. «Nell’aria ulcerata» scrive Raboni di quel tempo, mentre immagina di ricomprare l’infanzia da un antiquario, di «riavere i miei / feticci di fulgida latta ieri / derelitti, oggi preziosi, stranieri».
Coetaneo di Raboni, Enzo Siciliano ha evocato, nel congedo dall’amico distante, l’infanzia dei nati nella prima metà degli anni Trenta:

Sotto rispetto a lui di due anni, siamo nati nella prima metà degli anni Trenta. La guerra l’abbiamo attraversata da ragazzetti, sull’orlo di non essere più bambini: ce ne è rimasta addosso un’identica paura, che ci ha portato a vedere le cose, nonostante tutto, quasi sempre «in bianco e nero». […] Giovanni dice che non sapevamo più come scrivere, forse avremmo scritto «col gomito o col naso», e la violenza realistica di quest’immagine proietta intera una disperazione che ci avrebbe accompagnato di giorno in giorno fra tanti libri amati come sotto un riparo, un diverso riparo lungo una storia che poi ci lasciava girare la ruota accanto come fossimo estranei a tutto. […] Nessun altro, fra noi, come Raboni, ha saputo raccontare in versi quel levarsi in alto del fiato in cui ci siamo sentiti cacciati, quell’intermittenza cardiaca che rende le notti tormentate e bianche. (E. Siciliano, Giovanni Raboni, un’angoscia raccontata in versi, in «la Repubblica», 17 settembre 2004)

Mi sono interrogato molte volte sul desiderio, così presente nella poesia di Raboni, di riabitare un tempo tutto sommato ingrato. Così come mi interrogo, quando me la propongono, sulla nostalgia di nonni che hanno l’età che avrebbe Raboni. La vita, quale essa sia, riporta sempre a un unico luogo? C’è solo un tempo che non smettiamo di immaginare? «Ah, stiamo qui, viviamo, / papà, mamma! dove vivi vi amo».
L’ultimo libro di Antonio Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta (Feltrinelli 2009), ha al centro l’idea che si possa infine provare nostalgia anche per gli anni più difficili: un vecchio signore, alla fine dei suoi giorni, si trova a rimpiangere la Bucarest di Ceauşecu; un ex agente della Stasi vorrebbe tornare agli anni del Muro. Personaggi che hanno addosso i segni dell’età – gente sbarcata nel nuovo secolo come da un’altra era – e i segni della Storia. Il tratto di Novecento percorso, per quanto doloroso, sembra risucchiarli indietro, pare impossibile trarsene fuori, ha qualcosa di vischioso e insieme di rassicurante. Come un Proust rovesciato, anti-consolatorio, senza idillio, Raboni rimette continuamente piede là dove forse non converrebbe; poeticamente si installa in luoghi che non coincidono più con le misure del presente: «la Milano che più mi riguarda e mi emoziona la ritrovo, ormai, soprattutto nella memoria», confessa in un’intervista.
Che si tratti di interni o di esterni, sia che gli spazi si dilatino («la notte si gonfia come un gufo», Tovaglia) o si siano ristretti fino a scomparire («Di tutto questo / non c’è più niente», Risanamento), tutto conserva una concretezza ruvida, senza lusinghe, a volte del tutto senza dolcezza. E se di «strani sortilegi» dei luoghi (l’espressione è di Anceschi) per Raboni si può parlare, essi maturano non in ampie distese, ma in anfratti bui, nel buio stesso («sprofondare / nel buio che torna tra un minuto»), o sotto luci fioche, manzoniane, tra ombre di disgraziati, streghe, mani di untori.

Di tutto questo
non c’è più niente (o forse qualcosa
s’indovina, c’è ancora qualche strada
acciottolata a mezzo, un’osteria).
Qui, diceva mio padre, conveniva
venirci col coltello… Eh sì, il Naviglio
è a due passi, la nebbia era più forte
prima che lo coprissero… Ma quello
che hanno fatto, distruggere le case,
distruggere quartieri, qui e altrove,
a cosa serve? Il male non era
lì dentro, nelle scale, nei cortili,
nei ballatoi, lì semmai c’era umido
da prendersi un malanno. Se mio padre
fosse vivo, chiederei anche a lui: ti sembra
che serva? è il modo? A me sembra che il male
non è mai nelle cose, gli direi.
(Risanamento)

Benché irriconoscibile, sfigurata, Milano per Raboni non può essere abbandonata: la vive, piuttosto – come è stato osservato da Paolo Maccari – con «una doppia cittadinanza»: «sicché anche la realtà presente trova il suo riscatto con quella luminosa realtà del ricordo». Può perdere, a quel punto, anche i toponimi, lasciarseli cadere di dosso come una polvere, raggrinzire; essere semplicemente «la città» – oscura, sbranata – da cui cava dolcezza quello stesso occhio che, «di sotto in su», guardava al padre e alla sua età «con spavento». Il «bordo chiaro dell’oscuramento», «quelle bianche sere / di prima guerra», il «lungo istante del rastrellamento»: quante volte torna tutto questo? Torna, per l’ultima volta, in Barlumi di storia, recuperando anche il gusto di nominare le piazze, le strade, proprio nel momento in cui la presa si allenta. Viale Piave, viale Vittorio Veneto, piazza Tricolore, piazza Cinque Giornate, piazza della Repubblica, via Pisani, viale Tunisia, piazza Fontana. La storia di tutti ha attraversato quei luoghi, ci è passata dentro e siamo passati noi, sono passato anch’io, sembra dire Raboni, mentre si protende verso le voci e i volti dei morti e loro verso di lui:

Non so, non capisco se avrei più gioia
scomparendo in voi, diventando voi
o tornandovi uguale a allora accanto
con il cuore d’adesso.

Loro, i morti, talvolta si ribellano, chiedono al poeta di smettere d’immaginarli: «Siamo dove siamo, non dove a te / piacerebbe che fossimo». Ma lui non si cura delle proteste, insiste, li cerca, li convoca. E loro, infine, rispondono all’appello e si lasciano stanare – in uno «spazio breve e ultimo ma infinito»:

Vivi, io e te, per quanto? Non facciamola,
non ha senso questa domanda. Vivi
finché è stasera, fino a quando
continua sullo schermo la partita
e ancora si può sperare che uno
dei nostri, magari in extremis,
magari nei minuti di recupero,
riesca a segnare. Non c’è tempo
che non sia questo tempo
qui dove siamo, nella casa
che è la tua casa e che ogni tanto
la domenica sera
diventa anche la mia casa,
in questo labirinto
di secondi dove tu mi precedi
dei soliti quattro anni e cinque mesi
che una volta davano le vertigini
(tu un ragazzo e io un bambino,
tu un padre e io ancora un figlio)
e adesso non sono più niente,
meno della durata di un’azione,
meno del tempo che ci vuole
a un mediano di spinta
per raggiungere l’area di rigore.

(a mio fratello, l’ultimo inverno)