Inchiostro blu

da | Mag 22, 2019 | Fiction

Il parco era pieno di gente, proprio come aveva detto lui. C’erano biciclette che sfrecciavano da tutte le parti, bambini che correvano e passeggini ovunque. Era il giorno di Natale eppure non faceva freddo, il sole era tiepido, quasi primaverile. Proprio come aveva detto lui.
Tutto insopportabile.
Quella mattina, nascosta dietro il portone, Gaia aveva visto sua madre salire sul taxi. Era quasi inciampata sui tacchi quando lui le aveva aperto lo sportello e da dietro il finestrino gli aveva rivolto un sorriso ebete. Il taxi era partito e quell’uomo si era diretto verso il loro portone.
Era corsa su per le scale.
Non gliene era importato nulla che a quella vecchia nonna dovesse tutto, la casa dove abitava, la retta della sua scuola, i suoi vestiti, tutta quella ricchezza scivolata come l’acqua della doccia su lei, sua sorella e sua madre. In tutta la sua vita l’aveva vista due o tre volte, sempre più decrepita, le guance gommose, flaccide, puzzavano di polvere e muffa. Ogni volta che veniva in città, dalla borsa tirava fuori le caramelle e pretendeva in cambio un bacio da ogni nipote. Non se lo riusciva a spiegare Gaia ma quando era il suo turno, l’odore di quelle guance sembrava più forte, come se sua nonna potesse controllarlo e lo aumentasse per farle un dispetto. Le restava conficcato nel naso per tutto il giorno.
No, non gliene era mai importato nulla di quella vecchia e forse lei lo aveva capito ed era morta proprio quel giorno, costringendo sua madre a lasciare lei e sua sorella a quell’uomo.
Già, come definirlo?
C’erano gli esami di maturità quell’anno. Le piaceva l’italiano, era brava. Ma per quanto avesse sfogliato il vocabolario non era riuscita a trovare la giusta definizione per quell’individuo e aveva deciso di chiamarlo proprio così: l’individuo. Se lo diceva tra sé e sé, ovvio! Mica lo poteva chiamare in quel modo ad alta voce, davanti a sua madre per di più.
Era da quando aveva sei o sette anni che ronzava intorno a sua mamma. Da allora di anni ne erano passati dieci e lui era ancora lì, ad ammirarla con uno sguardo da imbecille. Ecco, quello era un altro nomignolo che gli aveva affibbiato (sempre nella sua testa, ovvio!). Indossava vestiti semplici, lisi, dai colori spenti. Parlava poco e aveva le mani sempre sporche di inchiostro blu, proprio come Ilaria, la secchiona del terzo banco, una cretina convinta che quelle macchie fossero il marchio della bravura, di chi sta sempre in mezzo a penne,
libri e appunti.

Che differenza con suo padre! Le foto che sua madre teneva chiuse in un cassetto lo ritraevano elegante, uno sguardo fiero, fisso sull’obiettivo. Era andato via quando lei aveva dieci anni e, qualche tempo dopo, si erano trasferite in una casa più piccola. All’inizio suo padre prendeva lei e sua sorella il fine settimana. Poi smise di farlo, le chiamava al telefono. Ogni tanto. E poi neanche più quello. «È andato all’estero, ma tornerà» diceva sua madre, senza aggiungere altro.
Dove è andato? Quando torna? A Gaia quelle domande rimanevano incastrate sotto la lingua.
L’individuo, invece, c’era sempre. Lucy lo adorava. Proprio lei, la piccola scontrosa, l’istrice furiosa. Aveva sei anni meno di lei, Lucia, detta Lucy come l’amica antipatica di Charlie Brown. Quel fumetto era insulso, Charlie Brown era troppo buono, troppo stupido, troppo ottimista. E l’imbecille lo ricordava un sacco. Forse era per questo che Lucy ci andava d’accordo: tutti e due erano personaggi inventati che vivevano in una striscia a fumetti. Forse era solo questa la spiegazione: la realtà non era nient’altro che un disegno e lei prima o poi si sarebbe svegliata nel suo letto, con la voce di suo padre dall’altra stanza, sua madre in cucina a preparare la cena e l’individuo…beh l’individuo non era mai esistito.
Il campanello della porta.
«Lucy vai tu, è l’indivi… vai ad aprire».
«Eccomi, eccomi» strillò l’istrice saltellando lungo il corridoio.
Dalla porta si udì la voce di Lucy esplodere, senza nessuna dignità, in irritanti trilli e squittii.
«Ciao Gaia, come stai?» le chiese entrando nel salotto.
Lucy era abbarbicata a lui e gli teneva la testa su una spalla, in silenzio, come se fosse concentrata sulle sue emozioni, come se non volesse lasciarle scappare.
«Ciao» rispose lei, in realtà senza rispondere, senza alzarsi dal divano.
Come sto sono fatti miei. Avrebbe voluto dire una parolaccia ma in casa erano vietatissime.
Ciao, stronzo – che soddisfazione poterle pensare, però – quanti anni è che giri intorno a mia madre? È tutta colpa tua, vero?
«Vi va di andare al parco? È una bellissima giornata, non fa freddo e in giro c’è un sacco di gente» disse l’imbecille.
«Sì, che bello!». L’istrice si era risvegliata.
«A te va, Gaia?».
Che domanda idiota! Non c’è il tasto no!
«Certo».
«Guarda, c’è Babbo Natale sui pattini a rotelle!» squittì l’istrice.
«Vi va di prendere le biciclette?» chiese l’individuo, come sempre pieno di stupide iniziative.
A Gaia toccò una ridicola bicicletta col paniere, a Lucy un trabiccolo mezzo arrugginito che però, pur non avendo le rotelle, la rese felice lo stesso; l’individuo montò su una bicicletta da donna coi manubri ripiegati in giù, era l’ultima rimasta al noleggio. Non aveva fatto una piega.
Cosa ci avesse trovato sua madre in quell’uomo, non riusciva proprio a capirlo. Era ancora giovane e bella lei, mentre lui era come tanti altri, anzi era più vecchio degli altri, con quei capelli tutti bianchi. Ricordava la prima volta che lo aveva visto. Lucy dormiva dentro il passeggino e lui era sbucato fuori da uno scaffale della libreria con in mano un libro sulle principesse: «per la principessa Gaia» aveva detto lanciando a sua madre un sorriso nero come la notte.
«Guarda, laggiù ci sono i Jack Russell!» disse Lucy a un tratto. Uscì dalla strada e si lanciò giù lungo un canalone sterrato. «Ferma! Là non c’è il sentiero» le gridò dietro lui. Il piumino giallo di Lucy traballava sui dossi, la sua bicicletta prendeva sempre più velocità, e la sua testa oscillava come fosse disarticolata. Quando la bicicletta si piantò su una radice, una scia gialla si proiettò sul verde degli alberi e atterrò alcuni metri più avanti. L’imbecille si precipitò giù per la scarpata, lasciando la bicicletta sul sentiero con la ruota posteriore che girava a vuoto.
Gaia era lì, impietrita. Il vialone era diventato improvvisamente vuoto. Non c’era nessuno, non si sentiva più neanche una voce, nemmeno quella dell’individuo, neanche il pianto di Lucy. Con lo sguardo percorse tutto quel viale e si sentì di colpo priva di peso, inutile. Quando il tempo stava ormai finendo di avvitarsi sulla convinzione che sua sorella era morta, riapparvero da dietro la siepe.

Lucy aveva il viso insanguinato e sporco di fango. Lui la sorreggeva tra le braccia.
«Lasciamo le biciclette, dobbiamo correre al pronto soccorso» disse deciso.
I suoi occhi erano sicuri, limpidi, buoni.
Gli appoggiò una mano sul braccio e il suo sguardo si posò quelle macchie di inchiostro blu, a un tratto così familiari.

Nasce in Sicilia e all’età di diciannove anni si trasferisce a Roma dove, dopo gli studi in giurisprudenza e un master negli Stati Uniti, da vent’anni svolge l’attività di avvocato. Fin da piccolo cresce in un universo fatto di libri e da sempre coltiva la passione della scrittura, cui da qualche anno si dedica con assiduità. Il suo nome viene scelto da sua madre nella speranza che possa evocare in lui le qualità del protagonista de Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Anche per questo motivo, scegliere Fabrizio Salina come pseudonimo è sembrata una scelta inevitabile.