In morte di un amico

da | Lug 1, 2013 | Senza categoria

Per tutta la vita aveva creduto nell’importanza delle regole.
Certo, ci aveva creduto dogmaticamente, con disinvoltura e senza rifletterci troppo, così come credeva in Dio e nella democrazia. E poi, era da intendersi, esistevano regole per loro natura malleabili e altre più ferree, a cui per una questione di etica e reputazione non avrebbe mai trasgredito, per nessuna ragione al mondo.
Per esempio, e neanche uno tra i suoi più fedeli collaboratori avrebbe potuto negarlo, sin dal giorno in cui poco più che trentenne fu eletto per la prima volta in parlamento, e di seguito per tutti i quarant’anni in cui aveva vissuto freneticamente facendo la spola tra Roma e il Sud Italia immerso tra interessi nazionali e affari di straordinaria importanza per il benessere della sua gente, il Tiranno non si era mai svegliato prima delle dieci.
Mai. Nemmeno ai tempi d’oro degli incarichi di stato.
Né a inizio anni settanta, quando era stato scelto come sottosegretario alla difesa, né nel periodo madreperlaceo degli anni ottanta, quello della notorietà su scala nazionale, quando rodato da una mezza dozzina di legislature e universalmente stimato da dorotei, morotei e perfino da socialisti, repubblicani e comunisti, era stato vicinissimo a conquistarsi un ministero.
E non un ministero farlocco, come Spettacolo e Turismo, e neanche una di quelle nomine che non voleva nessuno, come il ricovero senile alla presidenza del CONI, promozioni che di norma erano deliberate per togliere di mezzo per sempre il loro beneficiario dal giro delle decisioni importanti, con il massimo dello stile e una dignitosa buonuscita. Nient’affatto. Lui era stato in odore di un ministero prestigioso, di quelli con il portafogli. Era stato addirittura il favorito per il ruolo di ministro delle finanze, anche se al momento dell’epilogo, com’era sempre accaduto nella sua lunga e onorata militanza nel partito, qualcuno dei falchi interni lo aveva sopravanzato al fotofinish, chissà per quale comandamento tipico del codice di cooptazione, e a lui, nell’immenso Palazzo delle Finanze di cui amava profondamente le ombreggiature prodotte dalle splendide volte su due piani che si affacciavano sul cortile interno, era toccato soltanto, di nuovo, il ruolo vicario del sottosegretario.
In verità, solo una volta in quasi mezzo secolo di vita il Tiranno era stato mattiniero.
Sei del mattino, fuori era ancora buio, l’anno era 1994. Da coordinatore regionale del nuovo partito Budda, Forza Italia, l’ultimo dei loggioni di ambizione maggioritaria che secondo il Tiranno avrebbe consentito al paese di perpetuarsi nell’esercizio delle sue regole eterne, ossia una certa linea di continuità nell’impostura che nella sugna della verità non si era mai infranta da Mussolini al demofilo De Gasperi, e poi da Andreotti al volto nuovo, allo statista-imprenditore invocato a gran voce dal popolo.
Quella levataccia significò per lui andare a Roma per l’ultima volta; e non per un congresso DC, né tantomeno per un viaggio di piacere sulle tracce del Bernini o del Caravaggio. Bisognava intervenire, con il massimo del peso politico guadagnato per via di un virtuoso, machiavellico, rinascimentale clientelismo esercitato per tutta la durata della prima repubblica, allo scopo di favorire il figlio di Ruggiero Armonia, il segretario personale ancora in carica che al tiranno era rimasto fedele per più di trent’anni, e che meritava un compenso ad appannaggio del rampollo, un bel ragazzone dai tratti saraceni che dopo la maturità aveva manifestato il desiderio di entrare in marina da ufficiale.
Per il Tiranno fu un divertissement, un’adrenalinica eccezione all’abitudine, oltre che un tributo all’importanza delle regole. Perché se c’era una cosa che aveva imparato dalla politica della belle époque, così come aveva preso a chiamarla dopo Tangentopoli, era che la lealtà doveva considerarsi l’unica vera caratteristica umana meritevole di essere premiata.

Ecco perché quel lunedì mattina di maggio, in una giornata canicolare che già ammiccava all’estate torrida, e il cui fulgore di mezzogiorno aveva invaso l’intera masseria fin nei suoi corridoi più tentacolari, il Tiranno incassò la notizia della morte di Giulio Andreotti, amico personale e padrino di battesimo del suo primogenito, mentre era pimpante, fresco e rilassato. Era impegnato nella vestizione, in quella fascia di tempo giornaliero in cui gli attacchi di amnesia di norma non si manifestavano quasi mai, proprio quando nell’anticamera del suo studio ricolmo di targhe, medaglie, fascioni e coccarde, erano da poco sopraggiunti, in attesa spasmodica, i pochi, sparutissimi postulanti che ancora si recavano al suo glorioso capezzale per domandare udienza.
La notizia della morte dell’amico non lo scosse più d tanto.
“Giulio mio” – sospirò dolcemente – “uomo immenso.  Glielo accennai una volta, all’inizio del suo settimo governo, nel 1992… Ci siamo sempre dati del lei, anche in intimità, lui voleva così. Onorevole, sussurrai, resta solo una cosa, in questa vita, in cui l’allievo può superare il maestro. Vivere un po’ più di lei. Non dico tanto, giusto qualche anno. Lui accennò un sorriso, com’era solito fare, assottigliò gli occhi da faina e rispose serafico: lei si occupi di far sopravvivere questo governo, intanto. Era un uomo sempre presente a sé stesso.”
Su quell’intima reminiscenza il Tiranno si abbandonò a qualche attimo di silenzio.
Si lasciò cadere sulla poltrona di servizio scompigliando i vestiti perfettamente stirati e reclinò il capo albugineo sullo schienale, socchiudendo gli occhi.
Ruggiero Armonia, da buon segretario assorbì parte del dolore, ma come sempre restò ligio al dovere. Pensò che quel momentaneo commiato dai sensi fosse il prodotto di una crisi d’amnesia dovuta all’erompere del dispiacere, e si preparò a scegliere le parole giuste per riannunciare daccapo al patriarca la ferale notizia.
Ma il Tiranno si riprese in fretta.
Interruppe le titubanze del suo portaborse e spalancò gli occhi appena lucidi, e tenue fu lo scintillio dei suoi prismatici cristalli azzurri, iridi colme di beatitudine bagnate dalla rugiada, e così, silente, si abbandonò al flusso magmatico della nostalgia.
Ripensò al 1983, quando era stato uno dei deputati italiani che avevano ricevuto il più alto numero di preferenze. Quasi centoventimila in tre province. Un record. Fu proprio quel lieto evento a fruttargli il soprannome che da quel momento i giornali locali adoperarono per evocare il suo tracimante peso politico, e se al primo battesimo del fuoco esser definito con ferocia “tiranno” gli sembrò un’immonda scorrettezza dei detrattori, già ai primi replay aveva compreso che mai nessun atto politico concreto né la massima benevolenza verso il bene della comunità avrebbe potuto contribuire alla definizione della sua mitopoiesi più è meglio di quel tronfio epiteto, e così cominciò ad amarlo.
Anche perché in campo nazionale era arrivata qualche delusione.
Il risultato elettorale, straordinario, aveva lasciato presuppore per lui l’investitura a qualche incarico di primissima importanza. E invece proprio nell’occasione più evangelica Andreotti non concesse, lui sì, tirannico, nessuna indulgenza; soltanto la guida di una delle decine di commissioni parlamentari che durante ogni legislatura nascevano e si perdevano nell’oblio.
Il giorno previsto per l’annuncio l’intero gotha del partito era riunito all’Eur come d’abitudine, al palazzo intitolato a Don Luigi Sturzo, nelle cui segrete si spalancava, ligneo e non troppo dissimile da un teatro vittoriano, il parlamentino DC, un covo che riproduceva capillarmente l’aula del parlamento nazionale e in cui si disponevano con ordine le diverse correnti democristiane di destra, centro e sinistra, e segretamente si discuteva di strategie interne al partito e ci si abbandonava al dolce-amaro della vita in confraternita.
Il tiranno quel giorno fatidico era seduto nelle prime file, come se presenziasse alla prima assoluta della Traviata alla Scala. Imperturbabile, somigliava all’integerrimo David Niven nei panni dell’amato maggiore Richardson antagonista di Alberto Sordi ne I due nemici, e mai, per tutta la durata dell’intervento di Andreotti che nominava uno per uno ministri e sottosegretari in ordine d’importanza decrescente, osò muovere la testa scolpita a modo del Pensatore di Rodin, immobilizzata dalla tenaglia composta da pollice e indice con cui si stringeva il mento. Per ore restò seduto composto, a suo agio, ostentando la massima serenità. E in quella posa ascoltò ogni nomina, una dopo l’altra, aspettando di sentire la vocina cardinalizia del leader esplodere in un canto da usignolo nell’atto di sussurrare il suo nome, che tuttavia mai fu pronunciato.
Dopo i saluti di rito e i convenevoli, in macchina, nel silenzio sepolcrale dell’abitacolo, era stato proprio il tiranno a rompere il ghiaccio.
– Dottor Armonia – aveva detto – la vedo affranto. È successo qualcosa?
– Onorevole… – rispose l’altro – È uno schifo, un’ingiustizia. Eravamo i primi. Non dico gli Interni o gli Esteri, ma almeno… almeno una parola, una spiegazione!
Fu allora che il Tiranno raccolse le forze e distillò una perla di saggezza – Dottor Armonia, le darò un insegnamento. Non s’innamori mai del ruolo, o della poltrona. Mai. Perché non è il ruolo a designare il potere. Il capo sa benissimo quello che fa, non si dimentica di nessuno, e a nessuno deve spiegazioni. Non gli siamo serviti questa volta, gli serviremo in futuro. Il potere, lo tenga a mente, è un fatto di durata.
Fu proprio Armonia, quasi telepaticamente, a interrompere quel flusso di ricordi. “C’erano regole, allora” – disse, cercando la stessa lunghezza d’onda emozionale del capo.
“Esatto, c’erano regole. Lo chiamavano clientelismo, ma era solo politica.”
E difatti ai vecchi tempi durante i giorni di ricevimento, tre a settimana, in periodo di elezioni addirittura quattro, le centinaia di postulanti in cerca del miracolo erano disposti dai buttafuori in un’ala della villa comunicante a quella centrale, dove quell’uomo compito, addirittura maniacale per come incarnava in pubblico e in privato galateo e buone maniere, si dedicava alla famiglia nelle uniche due ore, una per pranzo e una per cena, che sottraeva alla funzione pubblica.
I clientes arrivavano già all’alba, e il tiranno dalle undici in poi li riceveva in ordine di arrivo in sala d’attesa senza favoritismi (per i pezzi da novanta esisteva un altro ingresso specifico), e non concludeva mai il ricevimento senza aver dedicato almeno dieci minuti a tutti i bisognosi, anche se si facevano le quattro del mattino.
Quel giorno di Maggio però il clima si era fatto pesante. Dopotutto era morto un amico fraterno, il compagno di mille battaglie.
– Dottor Armonia – disse il tiranno – lei lo sa che non ho mai saltato il ricevimento vero?
– Certo onorevole.
– Per oggi non me la sento. Vorrei riposare. C’è molta gente?
– Diverse persone, onorevole.
– Lo vedi. Hanno bisogno di una guida. Io c’ero, ecco perché avevo centomila preferenze. Oggi la gente ha ancora più bisogno, e per loro non c’è nessuno. Le cariche arrivano per nomina dei capi e il deputato non è nessuno. E’ uno schiavo. Dipende dal suo protettore.
– Toccherebbe a una coppia anziana, onorevole. Ricorda? Per il figlio… Vorrebbero un lavoro all’ufficio postale, anche un part-time.
– Chi conosciamo alle Poste?
– Onorevole, veramente ormai… nessuno.
– Va bene, va bene… Falli tornare. Ce ne occupiamo la prossima volta. Non casca il mondo.
Armonia annuì con un cenno del capo, aprì un filo di porta e sgattaiolò prima nello studio comunicante alla stanza da letto di servizio, e poi in sala d’attesa. Era pressoché vuota, immensa, e i suoi passi risuonarono come l’eco di una marcia militare. In fondo, seduti su sedie da giardino disposte a fil di muro come in una festa da ballo in parrocchia, due sagome, soltanto due, ben mimetizzate alla semioscurità prodotta dai tendaggi di velluto vermiglio, dischiusi. Non c’era nessun altro.
– Tornate domani – disse Armonia con voce ferma – Oggi l’onorevole è stanco. E ricordate: volete un lavoro alle poste per vostro figlio.
– Domani? Di nuovo? E la paga di oggi? – disse l’uomo in penombra.
– Alla fine del mese, lo sapete già. È questa, la regola.

 

Il testo è stato scritto in occasione della serata “Lei non sa chi sono io” al Festival delle Letterature di Roma 2013.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).