Mo + Th + Ta

da | Mag 6, 2016 | Melotecnica, Non Fiction

Mo + Th + Ta → MoThTa
(molibdeno, torio e tantalio)

Il numero atomico delle cose che finiscono

«Dato che quegli istanti erano stati resi possibili da un futuro che non era mai arrivato, era impossibile ricordarli da questo futuro che, nel presente e come presente, aveva prevalso: erano svaniti dalla fotografia»
Ben Lerner, Nel mondo a venire, Sellerio, 2015

Quando mi sono trasferita a Roma, stavo in una stanza con due pareti dipinte di rosso e due dipinte di giallo: una romanità stretta, con un letto piccolo e un armadio enorme. Avevo la scrivania, ma non avevo mensole, né librerie. All’inizio non sembrava un grande problema, visto che mi ero portata dietro pochi libri e visto che lo spazio centrale di quella mega-struttura aveva i ripiani; ma, dopo un po’, mi sono accorta che l’idea di avere i libri chiusi nell’armadio mi dava un senso tale di soffocamento da obbligarmi a un trasloco.
Me ne sono andata nel giro di sei mesi.
«Il fatto che lì dentro ti prenda il cellulare, non è una buona giustificazione», mi urlava mia sorella quando mi accucciavo nella parte bassa di quella libreria sigillata, chiudevo le ante e parlavo al telefono con qualcuno, curando con costanza la sensazione che non avrei mai trovato il mio posto nel mondo.
È così che succede quando finiscono le cose ed è così che succede anche quando iniziano: le configurazioni elettroniche delle diverse fasi della nostra vita appaiono traguardi insensati, partenze che sembrano arrivi, addii che sembrano ritorni, e tutta l’aria che respira tra le forme incidentate dei nostri desideri rischia di essere parte dei corpuscoli infinitesimali che ci arrugginiscono il futuro.
La fine dei vent’anni è il primo disco da solista di Francesco Motta e racconta questo, racconta la natura ondulatoria del tempo: noi che ci svegliamo giovani e accartocciati, noi che cerchiamo di muoverci, noi che soli e senza equilibrio esordiamo nel presente come se fosse davvero possibile prendere il passato e farlo diventare futuro.

Un’altra guerra: il molibdeno

[Simbolo dell’elemento: Mo / Numero atomico: 42 / Serie: metalli di transizione]

Pisa, i Criminal Jokers, la voce, This Was Supposed To Be The Future, la chitarra, gli Zen Circus e Appino, i suoni, la tastiera, Nada, il basso, il Pan del Diavolo, la batteria, le parole, Giovanni Truppi, Bestie, gli strumenti, almeno due lingue, Roma. Ci sono state un po’ di cose, per Francesco Motta, prima di questo disco, tra i vent’anni, i dieci e gli zero, in mezzo a tutte quelle domande senza punto interrogativo che sembrano affermazioni solo per distrazione. Si sente: bastano i primi versi della prima canzone del disco per capire che anche lui era lì, che Motta era in fila con noi ad aspettare di capire, a toccare, annusare, scegliere, morire, lamentarsi, a sparare sul niente, mentre gli anni dell’adolescenza ci si consumavano in tasca, in attesa del resto, alla casa del bar. Si sente.
Abbiamo imparato a conoscerli bene quei periodi di transizione che ci fanno tendere asintoticamente a zero: io rovisto nel nucleo di me stessa, conto e riconto i protoni, cerco di capire chi sono e chi invece vorrei essere, poi prendo il mio numero atomico e una sedia, mi siedo nel posto che mi sembra più giusto, sperando che sia giusto davvero.
L’adolescenza è la prima volta che ti succede, ma poi risuccede e io, tutte le volte, mi metto a pensare a una frase che dice Holden Caulfield in The Catcher in the Rye. «Sono in quella frase», penso e poi penso subito a J.D. Salinger, alla seconda guerra mondiale e al molibdeno.
«Dopo attraversata la strada, mi sentii come se stessi svanendo. Era uno di quei pomeriggi pazzeschi, freddo da morire, senza sole né niente, e ti sentivi come se stessi svanendo ogni volta che attraversavi una strada».
Prima di attraversare la strada, prima di creare un personaggio immortale, prima di scrivere uno dei romanzi di formazione più famosi di sempre, prima del freddo e dell’isolamento, Salinger è stato in guerra. E quindi io penso ai periodi di transizione, all’adolescenza, a Salinger, alla seconda guerra mondiale e poi al molibdeno.
Nei cannoni, nei mortai, nelle armi, nelle leghe metalliche: per indurire l’acciaio, per alzare il suo punto di fusione, per non farlo corrodere, si aggiungeva questo metallo come alternativa al tungsteno. Distruggere tutto per il gusto di farlo. Senza vincere niente.
Ingabbiare gli atomi di ferro, combattere forte con le domande e i punti interrogativi.
(R)esistere.

«Frammento condiviso di una coscienza collettiva» : il torio

[Simbolo dell’elemento: Th / Numero atomico: 90 / Serie: attinidi]

«Se si smette di guardare il paesaggio come l’oggetto di un’attività umana subito si scopre (sarà una dimenticanza del cartografo, una negligenza del politico?) una quantità di spazi indecisi, privi di funzione sui quali è difficile posare un nome. Quest’insieme non appartiene né al territorio dell’ombra né a quello della luce. Si situa ai margini. Dove i boschi si sfrangiano, lungo le strade e i fiumi, nei recessi dimenticati delle coltivazioni, là dove le macchine non passano. Copre superfici di dimensioni modeste, disperse, come gli angoli perduti di un campo; vaste e unitarie, come le torbiere, le lande e certe aree abbandonate in seguito a una dismissione recente.
Tra questi frammenti di paesaggio, nessuna somiglianza di forma. Un solo punto in comune: tutti costituiscono un territorio di rifugio per la diversità. Ovunque, altrove, è scacciata».
Nel Manifesto del Terzo Paesaggio, Gilles Clément spiega i meccanismi evolutivi dei luoghi abbandonati dall’uomo, la loro importanza nella conservazione della diversità biologica. Anche le persone contengono spazi disabitati, aree della memoria e della coscienza che si preferisce non coltivare: ricordi su cui piove, speranze radioattive.
L’idea che mi sono fatta è che Francesco Motta, per scrivere questo disco, sia uscito senza ombrello e abbia affrontato il dio norreno del tuono che ha dato il nome al Torio. Me lo sono immaginata rovistare nei cassetti e poi decadere come un atomo instabile. L’ho visto suonare tra le erbacce di un’aiuola spartitraffico, sotto a un cielo spaccato in onde elettromagnetiche da un martello mitologico qualunque e poi in una libreria chiusa dentro a un armadio. Ha visto, ha sentito, ha scritto.
Sono strade senza un senso. Di storie assurde e di silenzi. La luna che ci insegue in fondo a una salita. Non ridere, non piangere, non stringermi le mani. La magia della noia. Quello che ho sbagliato non è servito a niente. La polvere negli occhi. Conservi i ricordi per farci un incendio. Un nodo alla gola. Vuoi ballare a tutti i costi. Le amicizie e la rivolta. Ora e per sempre ti accontenti. Ma alla fine l’hai tenuto. Dentro cassetti vuoti milioni di versi. Ho piene le tasche di tempi spezzati. La testa sulle spalle, le spalle sopra ai denti. Se continuiamo a correre. Del tempo che passa la felicità. La mia tranquillità l’ho cercata, l’ho presa in mano e me la son bevuta. La puzza di gente. Ti passa un treno sopra agli occhi. Tutte quelle rughe. Poi lo dimenticherai. Aspettare insieme la fine delle cose.

Prima o poi ci passerà: il tantalio

[Simbolo dell’elemento: Ta / Numero atomico: 73 / Serie: metalli di transizione]

Dopo qualche anno che vivevo a Roma, ho cominciato a camminare: ho aperto le ante e mi sono fidata, ho pensato che camminare era l’unico modo per capire dove mi trovavo. Ho previsto tempi, calcolato distanze, mi sono persa e stupita, sono arrivata in ritardo, mi sono sentita disordinata come i sogni bruciati da questa città. Passeggiavo, guardavo, prendevo appunti, certe volte davo ai turisti indicazioni su dove andare, ma in ogni caso Roma mi teneva in disparte, come se fossi uno strumento esterno, una protesi che era nel suo corpo ma che non le apparteneva. È per questo che ho pensato e penso che esista un vestito di tantalio, una giacca, una maglietta, una cintura, qualcosa che forse si prende come una malattia, negli armadi dentro i quali si cura con costanza la sensazione che non si troverà mai un posto nel mondo.
Il tantalio è un metallo duro e forte, che resiste agli attacchi, che non si lascia corrompere, talmente ostinato da non reagire nemmeno ai fluidi corporei, per questo viene usato in chirurgia, sia nei ferri che nelle componenti artificiali che ci vengono inserite dentro, perché non si lascia toccare.
«(…) nell’essere pregni di
immenso spazio e tempo, nell’essere
nello strabordare, nell’essere
adesso pronti a qualunque
morire ridere correre
fare la domanda o
per sempre restare»
(Mariangela Gualtieri, Fuoco centrale e altre poesie per il teatro, Einaudi, 2003)

Adesso, vivo in una casa con le pareti bianche e con diverse librerie; da poco, ho montato una mensola: Nel mondo a venire di Ben Lerner sta proprio lì sopra. Ogni volta che lo guardo penso al fatto che prima di leggerlo non sapevo che cosa fosse la «propriocezione», questa capacità importantissima per l’apparato neuro-motorio che ci permette di riconoscere la posizione del nostro corpo nello spazio, i movimenti che possiamo fare, a prescindere dalla vista. Una specie di senso di appartenenza con se stessi. Ci penso spesso, guardo il mio armadio pieno di vestiti, senza nemmeno un libro, senza nemmeno un cantuccio per me, e mi sento in bilico, indefinita, estranea, aliena a tutte le cose, tranne che a quelle che finiscono.
Di quelle conosco il numero a memoria.
La fine dei vent’anni
è un po’ come essere in ritardo
non devi sbagliare strada
non farti del male
e trovare parcheggio.

Elisa Casseri è nata a Latina nel 1984 ed è laureata in Ingegneria Meccanica. Autrice del blog "Memorie di una bevitrice di Estathè", ha pubblicato il suo romanzo d’esordio "Teoria idraulica delle famiglie" per Elliot nel 2014. Nel 2015, ha vinto la 53° edizione del Premio Riccione per il Teatro con il testo "L’orizzonte degli eventi". Il suo ultimo libro è "La botanica delle bugie" (Fandango, 2019).