Il dilemma di Raskolnikov

da | Apr 24, 2014 | Senza categoria

Negli Archivi di “Nuovi Argomenti” abbiamo trovato questo intervento di Alessandro Piperno. Era la primavera del 2008, si parlava di soldi sfruttando la figura del Signor Bonaventura e del suo fortuito milione di lire. Sfogliando i classici – da Balzac a Fitzgerald – Piperno si chiede: ma è davvero questa l’unica differenza tra i ricchi e i poveri? l soldi?

 

Mi ha sempre colpito che Vladimir Nabokov per introdurre la Recherche di Proust ai suoi studenti della Cornell University (durante quel ciclo di lezioni sulla Letteratura Europea ormai passato alla storia) abbia sentito l’esigenza di partire da una questione banalmente pratica:

Tutti i personaggi della Recherche sono uomini e donne che vivono di rendita. Le uniche professioni in cui si imbattono sono quelle artistiche o erudite. Non hanno un lavoro: il loro lavoro è divertire l’autore. Sono liberi d’indulgere alla conversazione e al piacere, come quei leggendari personaggi d’altri tempi che vediamo in certi dipinti, chini intorno a tavole cariche di frutta, o intenti in elevati colloqui mentre camminano su pavimenti intarsiati, ma che non vediamo mai in un ufficio e in un cantiere.

A qualcuno potrà apparire corrivo fare i conti in tasca ai personaggi di un romanzo. Per Nabokov, nella sua didascalica precisione, è un punto di partenza inalienabile. Una questione fondamentale da chiarire immediatamente, per donare un colore emotivo al romanzo.

In fondo è utile comunicare a chi non ne sa niente che Proust (tanto per rimanere all’esempio di Nabokov) ha scritto un’opera infestata da una fauna di ricchi sfaccendati. E che per scriverla ha voluto affidarsi agli occhi e alla sensibilità di un personaggio non meno ricco e non meno sfaccendato di quelli da lui osservati.

Tale constatazione non ci autorizza forse a concludere che il denaro nella Recherche occupa un posto di assoluto rilievo accanto al Tempo, allo Snobismo, alla Gelosia, alla Letteratura?

Tutto questo mi spinge a una riflessione più generale.

Diciamo così: solo un genere come il romanzo — allo stesso tempo sporco e sfavillante, volgare e sontuoso, cinico e sentimentale — poteva concedere al denaro un ruolo da protagonista.

Che importa se tale fantasmatico protagonista si comporta da presenza rassicurante (come in Tostoj, in James, nella Woolf), o da grande assente (come in Dickens, Dostoevskij, Zola). Ciò che conta è che ti basta aprire un romanzo per sentire l’odore acre e muffoso dei quattrini spesi o agognati.

D’altra parte, se ci si pensa bene, esiste una stretta relazione tra il denaro e i romanzi. Sebbene non abbiano alcun intrinseco valore legato alla rarità o alla lucentezza (come l’oro e come i diamanti), entrambi esibiscono una carica simbolica eccezionale. Non c’è niente nella carta e nell’inchiostro di cui i libri e il denaro sono fatti che l’emozione che essi riescono, ciascuno a suo modo, a suscitarci. Tale emozione deriva dal legame che noi intratteniamo con quella carta e con quell’inchiostro. Quella carta e quell’inchiostro hanno un potere allegorico sulle nostre vite, le influenzano e talvolta le determinano.

Paolo Breda scriveva che: «La differenza tra stare economicamente bene e stare molto male si può ridurre a pochi grammi d’inchiostro». Sì, insomma quelli che servono per scrivere la cifra dei tuoi averi su un estratto conto prestampato, o il numero Vincente su un biglietto milionario della lotteria. Non si può dire un’analoga cosa per i romanzi? Il valore di un romanzo non è forse determinato dalla sequenza di segni d’inchiostro che lo compongono?

Ecco perché vorrei dire che il denaro – proprio in virtù della sua natura immateriale e simbolica e della sua utilità pratica – si presta così bene a diventare uno strepitoso personaggio romanzesco.

Un pregiudizio romantico induce il lettore a ricordare che Emma Bovary si è suicidata per ragioni amorose. In realtà lei si è tolta la vita perché i suoi amanti, Léon e Rodolphe, non l’hanno aiutata a fronteggiare i debiti. I soldi che quei due mascalzoni le hanno negato sono diventati per lei l’epitome del disamore e della disillusione.

Nei drammi etico-religiosi di Dostoevskij, così come nei romanzi epici di Tolstoj, il denaro occupa un ruolo essenziale. I quattrini ereditati dal principe Miskin e da Pierre Bezuchov hanno il potere di decidere del destino di questi due disadattati di successo.

D’altra parte, lasciando in un angolo Tolstoj, la riflessione sul denaro di Dostoevskij è talmente ossessiva che talvolta riesce a scarnificare alcuni cliché borghesi dai quali è tanto difficile liberarsi. Così ecco il suo famoso giocatore chiedersi a un certo punto: «Perché mai il gioco dovrebbe essere qualcosa di peggio di qualsiasi altro modo di guadagnare del denaro, per esempio del commercio?». D’altra parte, anche uno dei più drammatici percorsi etici mai intrapresi – quello che conduce Raskolnikov alla redenzione – Viene innescato da una bieca questione di quattrini. Perché i soldi che mi servirebbero per salvare la mia sorellina da un indegno matrimonio sono concentrati nella mani di una vecchia usuraia e non nelle mie? si chiede il nostro eroe, anticipando di pochi anni l’interrogativo con cui Karl Marx avrebbe tenuto in scacco il nostro mondo per più di un Secolo…  Quale giustizia è questa? Chi mi impedisce di massacrare la vecchia usuraia e di prendermi ciò che, in una società più giusta, dovrebbe appartenermi?

Ecco il dilemma di Raskolnikov. Con cui tutti prima o poi abbiamo dovuto fare i conti. E che ha modificato la narrativa e la drammaturgia moderna. Da Scott Fitzgerald a Tennessee Williams, da Truman Capote a Saul Bellow, chi tra costoro non ha offerto una personale interpretazione del dilemma di Raskolnikov?

Come si può vedere ho citato parecchi americani. Diciamo che l’ho fatto capziosamente: il caso americano mi appare straordinariamente rappresentativo.

Proprio perché si tratta di un Paese il cui puritanesimo sessuale non trova alcun corrispettivo nel moralismo legato ai quattrini, la potenza simbolica che il denaro ha assunto negli Stati Uniti è del tutto peculiare. Spesso mi sono imbattuto in alcuni miei distinti compatrioti che facevano di tutto per dissimulare la loro indubbia ricchezza. Un atteggiamento impensabile negli Stati Uniti.

Edgar Allan Poe spiegava questa centralità del denaro nella società americana con il fatto che gli Stati Uniti, non avendo un’aristocrazia basata sul sangue, l’avevano dovuta fondare sul dollaro. Un’idea che mi persuade totalmente se penso a un delizioso racconto di Mark Twain intitolato La banconota da un milione di sterline, che racconta la storia di un poveraccio a cui due riccastri buontemponi prestano una banconota dal valore esorbitante, convinti che lui non potrà farci niente perché non troverà nessuno disposto a cambiargliela. Ma sarà proprio il credito garantito al poveraccio da quella banconota dal valore astronomico a consentirgli di diventare un uomo ricco. Non ho mai capito se il racconto di Twain fosse una satira contro il sistema americano o una sua ironica apologia, certo è che dava conto di quanto il credito, in quella società, avesse un valore persino superiore al denaro.

Non a caso Charles Baudelaire, afflitto dalla sua proverbiale indigenza e nemico giurato degli Stati Uniti, aveva scritto qualche decennio prima di Twain, in odio alla civiltà capitalistica dalla quale si sentiva soverchiato, che i soldi non servono a niente. L’importante è poter contare su «un credito illimitato». Provocazione raccolta dal conte Robert de Montesquiou-Fézensac – il celebre dandy fin de siècle la cui figura eccentrica ispirò artisti del calibro di Huysmans, Boldini, Whistler, Proust – che usava dire: «È già così triste non avere soldi che privarsi delle cose che essi possono comprare sarebbe davvero insopportabile». Sì, il nostro Montesquiou era pieno di debiti fino al collo, ma sapeva che se non li avesse contratti la sua vita fiabesca avrebbe semplicemente perso di senso.

E questo introduce una nuova sfumatura alla nostra divagazione sul tema. I soldi hanno il potere di trasformare le persone. Persino più dell’amore, il cui effetto allucinogeno brucia troppo rapidamente.

Su questa questione – sui soldi che ti rendono diverso e che, nel corso di qualche generazione, modificano persino i tratti somatici di una famiglia, ingentilendoli –  si fronteggiavano i due precoci campioni della cosiddetta «Lost Generation»: Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. Il primo rimproverava al secondo di aver idealizzato i ricchi. Sì, insomma, i ricchi per Hemingway non erano quella bionda classe di dei olimpici intenti in strani riti nei giardini di faraoniche ville di Long Island, così come li aveva descritti Fitzgerald nei suoi romanzi. I ricchi, per Hemingway, erano semplicemente mediocri fancazzisti. Sì, Scotty, la sola differenza tra noi e ricchi, diceva Hemingway al suo delicato amico, è che loro hanno i soldi.

Ma è davvero questa l’unica differenza tra i ricchi e i poveri? l soldi? I soldi spiegano tutto? Non c’è altro dietro il danaro? In un certo senso sì. Allo stesso tempo, però, bisogna considerare il potere che i soldi hanno di forgiare la personalità, soprattutto di coloro che li hanno ereditati. Allora forse Fitzgerald non sbagliava nel notare una difformità antropologica tra sé e i milionari di Long Island. Una specie di diaframma azzurrato che lui mai e poi mai avrebbe potuto bucare, oltre il quale vivevano quegli strani eleganti ectoplasmi, più simili a dei mitologici che a uomini di carne e sangue.

Un analogo dramma aveva vissuto quasi un secolo prima un altro ambiziosissimo ragazzaccio: Lucién De Rubempré, il protagonista delle balzachiane Illusioni perdute, il quale, durante il suo umiliante esordio in società in una Parigi scoppiettante, d’un tratto era stato letteralmente schiacciato dal peso dell’inadeguatezza sociale e finanziaria: “Guardando queste graziose bagatelle, di cui Lucién non sospettava l’esistenza, il mondo delle necessità superflue gli apparve, ed egli rabbrividì al pensiero dell’enorme capitale indispensabile per conquistarsi la condizione sociale di bel ragazzo!”.

Henry James, nel suo libro L’arte del romanzo, dedica un capitolo meraviglioso a Balzac. Per lui, Balzac è un romanziere grandioso, ambizioso sin quasi alla follia, anche se quasi totalmente sprovvisto di grazia. D’altra parte James analizza l’ossessione balzachiana per il denaro con un certo perplesso distacco. Come se giudicasse tale fissazione non perfettamente calibrata. È evidente che il punto di vista di James è quellodi un Gentleman americano. È chiaro che lui è troppo immerso in quel che Balzac chiama “il mondo delle necessità superflue” per rendersi conto di come tale condizione dia un sapore diverso alla sua stessa narrativa.

“Il mondo delle necessità superflue”. Come dir meglio? Ecco ciò che Hemingway non capiva e ciò che Fitzgerald non riusciva a spiegargli.

D’altra parte la vita avrebbe dato beffardamente ragione al secondo! Negli anni Trenta, quando la sua stella venne offuscata dalla tempesta della Grande Depressione e lui valutò la vanità delle sue glorie giovanili, poté constatare come un successo precoce lo avesse illuso che la vita fosse «una faccenda romantica». Ora, forse, bisognerebbe riflettere sugli attributi del successo. E notare come di solito esso si accompagni al denaro e, allo stesso tempo, come ti permetta di entrare in relazione con persone danarose che traggono piacere nel circondarsi di gente che come te ce l’ha fatta. Insomma Fitzgerald d’un tratto capisce tutto: ciò che unisce i famosi ai ricchi (che non a caso si frequentano) è l’idea che la vita possa essere una «faccenda romantica». È questo il pregiudizio su cui i ricchi fondano la loro diversità: aver vissuto sin dai primi istanti di vita in un ambiente romantico (culle di radica profumata al centro di stanze ben riscaldate piene di giocattoli e sorridenti peluche). Dal che si evince che i soldi sono il più semplice viatico per garantirsi un destino romantico. Tanto più che il peggior nemico del romanticismo è proprio l’indigenza.

Ecco perché i romanzi e i soldi hanno bisogno l’uno dell’altro.

Un esempio a chiudere?

Mi chiedo come avrebbe fatto Hans Castorp (il protagonista de La montagna incantata di Thomas Mann) a intraprendere l’avventura intellettuale che tanto ci avvince, se qualcuno non avesse provveduto a pagare la retta annuale al sanatorio di lusso nel quale si era recluso!

Sarà il caso di tornare nell’afosa aula della Cornell University, nella quale frattanto il professor Nabokov avrà quasi finito di leggere i suoi appunti. Credo che a questo punto i suoi studenti abbiano avuto il tempo di comprendere la ragione per cui il mondo di Proust appare circonfuso da quell’inconfondibile alone di struggente nostalgia: il fatto è che nessuno dei personaggi che lo abitano ha mai avuto problemi di quattrini. E i quattrini danno vita all’Universo.

 

 

IL MILIONE DI BONAVENTURA

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).