Gente che avrei voluto conoscere: Montezuma

da | Mag 6, 2014 | Senza categoria

Credo sia il caso di dire che alla base della mia ammirazione per Montezuma ci sia una profonda empatia: la stessa che provo per il rinoceronte di Giava, per Giobbe e per la sonda spaziale Voyager 1 proiettata per sempre verso la solitudine del freddo spazio interstellare. Per le grandi tragedie umane insomma, quelle personali, per le esistenze votate solo al fallimento. Onestamente non ci vedo molta retorica: le vittorie contribuiscono al progresso, le sconfitte al significato dell’esistenza e forse è anche per questo che le frasi alla Smemoranda “qualche volta vinci qualche volta impari” non mi sono mai piaciute.

L’assunto empatico fondamentale che mi porta a considerare Montezuma II uno dei personaggi tragici per eccellenza è che l’essere umano, anche quando non dovrebbe, non può fare a meno di percepire se stesso all’interno di un tempo che non abbia qualcosa di simbolico, di potenzialmente decisivo. È successo anche a me, in qualche eccesso di ottimismo verso il futuro, quando ho pensato che le cose che mi capitavano intorno potessero cambiare l’assetto e il significato della presenza umana nel mondo.

È una cosa che c’entra con lo stimolo a cercare il significato della dimensione umana, ma solo come palliativo: anche se non riuscissi a capire che cosa ci faccio qui (e non fossi nemmeno un mistico armeno coperto di terra rossa), l’idea che almeno il tempo che stia vivendo abbia un significato (per quanto incomprensibile e a sé stante) in qualche modo mi tranquillizza, mi appaga, un po’ come devono sentirsi colpevoli genitori troppo severi di fronte ai successi dei figli che in fondo nemmeno amano. L’idea che da qualche parte ci sia qualcosa basta a riempire un vuoto esistenziale che non si potrebbe colmare in nessun altro modo: la tranquillità delle cose che funzionano nonostante noi mischiata a quel bellissimo debito di responsabilità verso il futuro.

A noi occidentali in qualche modo ci è andata bene, non abbiamo dovuto fare tanta strada per trovare questo pseudofarmaco: il cambio di millennio e tutto quello che doveva significare, almeno in teoria, ci ha fatto sentire fortunati del fatto di stare al mondo al tempo del Millennium Bug, pensando per un attimo a quei contadini intorno all’anno mille che scrutavano il cielo medievale convinti dell’apocalisse imminente. Per tutti gli altri sfortunati, nati in periodi in cui non succedeva niente (tanto per la cronaca, uno studio di Cambridge ha indicato l’11 aprile 1954 come il giorno più noioso della storia), ci hanno pensato le guerre, le carestie, i cambi di governo, le rivoluzioni, ma ho sempre pensato che forse non c’era stato mai, nella storia del mondo un avvenimento grande e significativo come quello della scoperta delle Americhe, almeno intesa come possibilità. Il Nuovo Mondo serviva esattamente a questo, a categorizzare la novità: se scoprissimo un pianeta abitabile e facilmente raggiungibile probabilmente la cosa sarebbe molto meno entusiasmante che entrare una mattina di novembre a Tenochtitlan, attraversando l’enorme ponte di palafitte sul lago Texcoco.

 

L’idea che il divenire porti con sé una carica aggiustativa verso il futuro è tipicamente hegeliana almeno in senso logico-ontologico (ma non solo, Frank Tipler, un fisico statunitense, ha formulato la teoria del punto omega per spiegare, tra le altre cose, la futura esistenza di Dio) e io potrei essere portato a sostenere che lo spirito assoluto possa essere semplicemente un altro modo di chiamare internet, ma io sono un nativo digitale: per forza di cose la mia comprensione del mondo è limitata dalla virtualità. Dicevo, la maggior parte della popolazione che ha transitato sulla terra non poteva, a rigor di logica, sostenere di star passando un momento decisivo della storia del mondo, perché allora o è tutto significativo o non lo è niente.

Probabilmente è esistita solo una persona, nella prima metà del 1500 che aveva la possibilità di percepire questa cosa dell’urgenza del destino che ti rincorre configurando il suo tempo come necessario: si tratta di Montezuma II, l’ultimo imperatore del popolo Azteco.

 

Disclaimer che c’entra e non c’entra: uno dei miei grandi limiti è quello di non amare Calvino. Non è un disamore propriamente giustificato ma è anche una di quelle cose di cui ti vergogni e che sei costretto a giustificare quando ti capita di parlarne, un po’ come quando dici che non ti piace la pizza margherita o che Borges è un tantino sopravvalutato, perché Calvino è uno di quelli che proprio non ti può non piacere. Ora, io gli scrittori sono sempre stato abituato a leggerli, ascoltarne la voce e sentirli parlare è una cosa che mi destabilizza sempre, perché per esempio tutto pensavo tranne che Calvino potesse avere questa voce leggera, tremante, lievemente impacciata. La voce di Calvino l’ho scoperta come si scoprono tutte le cose che contano: per caso. Succede che durante una qualsiasi delle notti universitarie passate a casa di gente di cui non ricordo il nome a festeggiare stronzate, dalla grande libreria del salotto che io andavo spulciando per darmi un tono e cercare di arrestare l’ubriachezza, spunta fuori un cd masterizzato con su scritto Interviste Impossibili: Calvino + Montezuma. Prima di allora chi fosse Montezuma era nascosto nel buio opaco di quello che successe laggiù, in Sudamerica, mentre noi in Europa sviluppavamo un Rinascimento molto poco igienico. Mi chiudo nello studio ad ascoltarla, steso su una di quelle poltrone sospese che come schienale hanno quella che sembra una pelle pezzata di mucca, e che hanno quell’odore strano, che sa di roba selvatica disinfettata.

 

https://www.youtube.com/watch?v=jYrcNjN_J0M

Questa è stata la prima intervista impossibile che ho ascoltato. Dopo essere tornato a casa e aver scaricato tutte le altre le ho messe nell’Ipod e quando lo shuffle me le ripropone sono sempre piuttosto contento. Credo di saperne a memoria almeno un paio (ascoltate anche quelle di Tutankhamon e di Marco Aurelio).

È così che conobbi Montezuma, l’uomo triste, trasfigurato nella voce profonda e controllata di Carmelo Bene, ed è così che sono riuscito a farmi stare simpatico il balbettio di Calvino uomo, che con lo scrittore non c’era niente da fare.

 

C’era una profezia, nella religione azteca, che stabiliva le regole del fluire del tempo. Come succederà quasi duecento anni più tardi con Hume e la sua credenza, l’abitudine delle cose che succedono non si fondava su nessuna legge del mondo. Come accadeva per Ramesse II, in un altro tempo, in un altro spazio, anche per lui il fluire dei giorni, le piene del Nilo, i cambiamenti stagionali, erano qualcosa che poteva finire da un momento all’altro: compito del sacerdote e, nel caso di Montezuma, del Re Sacerdote, era ottenere che il flusso del divenire non venisse arrestato. Era l’attestazione del grande miracolo della continuità, l’idea che si dovesse fare qualcosa, per permettere al divenire di continuare a fluire: un visione attiva dello stare al mondo, che questo poi si tramutasse, tra le altre cose, in cruenti sacrifici umani non conta poi così tanto.

Al centro di Tenochtitlan, che urbanisticamente rifletteva la conformazione dell’universo azteco, c’era il tempio doppio, consacrato ai due dèi che venivano adorati in città: Tlaloc, il dio della pioggia e Huitzilopochtli, il colibrì azzurro. Ma c’era un altro dio nella mente di Montezuma, che risiedeva al centro della Ciudadela, nell’antica città santa di Teotihuacan definita “la città dove nascono gli dèi”. Era Quetzalcoatl, il serpente piumato, adorato da tutte le civiltà precolombiane. Secondo il mito Quetzalcoatl era stato scacciato oltre l’oceano e un giorno sarebbe tornato, portando con sé la fine di quel ciclo del tempo, la conseguente fine del mondo, la fine di un mondo. Ma non si aspettava il ritorno di quel dio come i cristiani aspettano la parusia, gli ebrei la venuta del messia, il transumanesimo il mind-uploading e io che la mia prima ragazza del liceo mi venga a citofonare sotto casa: queste sono ovviamente cose irrealizzabili (ad oggi è più probabile un’improvvisa inversione magnetica dei poli che Claudia che mi dice scendi senza intenzioni bellicose), la fede nel fatto che a un certo punto succederanno è qualcosa che c’entra con la speranza, non con la realtà. Ecco, per Montezuma no. Quetzalcoatl sarebbe tornato, di questo si era certi, occorreva solo sapere quando, che senso avrebbero avuto altrimenti i presagi sinistri di comete luminose sopra gli altipiani del Messico, gli incendi, le colonne di fuoco, i fulmini? Come si sarebbero dovute leggere le estasi infervorate di persone che straparlavano di qualcosa che stava per accadere e che avrebbe cambiato tutto, e quale l’utilità dei grandi sacrifici, e per estensione anche tutto il resto, una radiosveglia che azzera il conto dei suoi anni, un fuoco d’artificio che ti scoppia in mano, io che mi batto il petto pensando di meritare il dolore che provo, e poi svegliarsi tutte le mattine soffrendo un po’ meno e pensando che abituarsi a tutto quel dolore deve essere una cosa terribile, perché si priverebbe di significato anche ciò che l’ha causato: è per questo che è così difficile essere schifosamente felici, perché abbiamo bisogno di significati, ovunque questi arrivino. Ma se io posso permettermi il breve lusso di fingere di non capire quello che mi sta succedendo, un messaggio che ancora non arriva, una telefonata nel cuore della notte, brevi sguardi interrogativi di due che si sono lasciati da anni ma che ancora non lo sanno, Re Montezuma, amico mio, ecco, tu non potevi.

 

Febbraio 1519. Le undici navi di Cortés appaiono all’orizzonte. Nella mente di Montezuma i segnali premonitori cominciano ad avere un senso, il compiersi di quel destino che cercava e temeva allo stesso tempo doveva essere vicino.

Vengono mandate ambasciate, l’otto novembre di quell’anno i 508 soldati spagnoli vengono accolti nella città sacra. Il primo incontro dei due mondi avviene sul ponte di palafitte che collega Tenochtitlan alla terraferma. Montezuma non pensa che Cortés sia il dio scacciato, non si fida di quegli alieni con le corazze, con le canne che sputano fuoco, con gli occhi che impazziti naufragano alla ricerca d’oro. Ma il dubbio è atroce, perché Cortés potrebbe esserlo e in un certo senso alla fine lo è stato, quel dio distruttivo e tremendo. Montezuma rappresenta il Sacro e lo spirituale, Cortés il profano e la materialità e infatti ecco che in quel primo incontro il conquistador spagnolo si fa avanti, fa un passo verso l’imperatore e semplicemente lo tocca, lo abbraccia. In quell’abbraccio c’è tutto il simbolo dello scontro tra due mondi che non potevano compenetrarsi. I nobili aztechi urlano per quella profanazione. Todorov, ne La conquista dell’America ne fa un problema di alterità, di disequilibrio relazionale: Montezuma sarebbe stato incapace di accettare quella diversità sfruttandola, come invece ha fatto Cortés. Gli spagnoli entrano nella capitale, l’imperatore indeciso tratta i suoi rapitori come ospiti: tutto purché l’universo continui a fluire.

C’è una donna, con gli spagnoli. Montezuma l’ha riconosciuta subito, insieme al dubbio all’interno del suo cuore che quegli uomini venuti da lontano con una tecnologia strabiliante potrebbero non essere effettivamente gli inviati degli dèi. È La Malinche, che per gli spagnoli diventerà Doña Marina e l’amante di Cortés. È una donna del popolo, donata ai conquistadores come schiava da una popolazione autoctona stanca dei tributi da pagare agli aztechi. Sarà lei l’anello di congiunzione comunicativa tra i due mondi e molti dicono anche la vera stratega della conquista, nutrita dall’odio che provava nei confronti del sovrano. La figura di Doña Marina è importante per un motivo preciso: nell’incomunicabilità emotiva non ci sono sponde su cui appoggiarsi. Se non ci si capisce, se nessuno dei due può permettersi di scendere o di salire al livello dell’altro (come poteva Montezuma accettare quella materialità, iniziare a trovare per Cortés e i suoi il posto nel suo mondo ordinato, e come poteva il conquistatore spagnolo, accedere a tutta quella spiritualità incomprensibile, alle categorie che gli avrebbero permesso di conoscere quel popolo distinto, civile e furioso allo stesso tempo, prima di annientarlo) il silenzio si trasforma presto in aperta ostilità. Ecco La Malinche nel ruolo della mediatrice linguistica, che trasforma lo spagnolo in lingua nahuatl permettendo al Re di capire quello che stava succedendo: quelli non erano gli dèi che aspettava, ma il suo destino sarebbe stato lo stesso.

 

Passa un anno, durante il quale Montezuma è prigioniero nel suo stesso palazzo dorato. Nel maggio di quell’anno un manipolo di soldati spagnoli interviene per fermare un sacrificio umano. Saltano sugli altari, slegano le vittime designate. Questo per il popolo azteco è troppo: è la classica goccia di sangue che fa traboccare il vaso, la tradizione che viene interrotta. Avevano potuto sopportare l’occupazione, le icone cristiane, il loro re battezzato con l’acqua del lago, ma no, la cerimonia di Toxcatl era troppo, il ragazzo che sarebbe stato uscciso (e che durante l’anno precedente aveva impersonato la divinità e che ben conosceva il suo destino di sangue) viene liberato, non sa se essere felice per la vita riavuta in dono o disperarsi per l’incompiutezza della sua missione. La rivolta è cruenta eppure impietosa, la tecnologia nettamente superiore degli spagnoli basta a contenere l’elevato numero dell’esercito azteco. Gli spagnoli vanno da Montezuma, che almeno teoricamente è ancora l’imperatore del suo popolo e lo intimano di uscire fra la gente e di calmare le folle. Montezuma esegue, offrendosi alla spietatezza del suo popolo che lo truciderà dopo poco.

Un’altra versione racconta che sia stato ucciso dagli spagnoli stessi, costringendolo a ingoiare oro fuso, lo stesso oro di cui quella città abbondava e per il quale gli aztechi non provavano lo stesso piacere europeo.

Come che siano andate le cose io me lo immagino, Montezuma, con le braccia aperte al cielo in uno dei suoi balconi a scrutare il cielo pensando alla sua personalissima Noche Triste, dicendo a sé stesso che se anche Cortés non era il dio che aspettava, il risultato, la fine del mondo, era avvenuta lo stesso e il suo destino si era compiuto perché era stato lui a ricercarlo.

Ecco, tornando per un attimo a parlare di letteratura, mi sembra un insegnamento troppo forte perché possa venire ignorato e non è che bisogna per forza credere nel ritorno del serpente piumato, per tentare di leggere una necessità nelle cose che succedono. Letterariamente parlando tutte le cose che accadono lo fanno per un motivo: la storia di Montezuma infatti funziona solo in letteratura, come racconto, con tutti i simboli che alla fine si mettono in ordine, in un mandala di conseguenze che tornano al loro posto: nelle grandi opere narrative niente viene lasciato senza una spiegazione ed è per questo che noi, mentre scriviamo, non siamo né Cortés né Montezuma che cercano semplicemente di pensarsi a vicenda, noi siamo il serpente che un giorno forse tornerà dal mare.