Copia carbone

da | Gen 21, 2014 | Senza categoria

Questa è una copia carbone di molte delle pagine che alcuni fra i più grandi scrittori italiani e stranieri hanno lasciato su Napoli, la città che anni fa ho scelto e, oggi, ho lasciato: è un centone, un drappeggio cucito con scarti preziosi e altri miserabili, il cui incontro muta ogni possibile gerarchia.

Parto. Non dimenticherò né la via Toledo né tutti gli altri quartieri di Napoli, ai miei occhi è, senza nessun paragone, la città più bella dell’universo.
Impressioni di viaggio fantastiche hanno colorato la città. In realtà, è grigia. Chi non comprende le forme ha qui poco da vedere. E’ rocciosa. Dall’alto, essa giace morta nel crepuscolo. L’architettura è porosa. A tutto si lascia lo spazio per divenire teatro di nuove costellazioni: si evita il definitivo, il codificato.
Civilizzata, privata e ordinata solo nei grandi hotel. E’ anarchica, contorta e paesana al centro. Mentre, all’interno, essa è il blocco di abitazioni, tenuto insieme agli angoli dalle immagini murali della Madonna, quasi fossero mollette di ferro. Nessuno si orienta coi numeri civici. Negozi, fontane e chiese sono i punti di riferimento.
Esiste dentro un passaggio chiamato la Galleria Umberto I. E’ un che di mezzo tra una stazione ferroviaria e una chiesa, piena di sirene, sopravvissuti e cafoni.

E’ la sola vera metropoli italiana.
Il popolo di Napoli, che non ha niente, è più popolo di un altro.
Preferisco l’ignoranza dei vesuviani alle scuole della repubblica italiana. Le scenette sia pure un po’naturalistiche, cui si può assistere nei bassi (o su YouTube) a quelle della televisione della repubblica italiana. Coi vesuviani mi sento in estrema confidenza, perché siamo costretti a capirci. Non ho ritegno fisico, perché essi, innocentemente, non ce l’hanno con me. Posso presumere di poter insegnare loro qualcosa perché la loro attenzione è un favore che essi mi fanno. Lo scambio è dunque assolutamente naturale. Ho per il sapere di un vesuviano un’idea piena di rispetto quasi mistico, e comunque pieno di allegria e di naturale affetto: in una casa dove uno si impicca, altri si ammazzano, altri si danno alla prostituzione, altri ancora vengono avviati al carcere o al manicomio, mentre una vecchia signora suona  – molto bene – la spinetta. Considero anche l’imbroglio uno scambio di sapere. Un giorno mi sono accorto che un vesuviano, durante un’effusione d’affetto, mi stava sfilando il portafoglio, gliel’ho fatto notare e il nostro affetto è cresciuto: tutta la città è pavimentata di lava. A questo si aggiunge che anche le case sono costruite con materie d’origine vulcanica. Tufo, pomice. Perciò il Vesuvio è vita e anima, attrazione e incessante pericolo della scandalosa Partenope. Il Vesuvio non appartiene forse a Napoli come l’Alhambra a Granada? No, è Napoli ad appartenere al Vesuvio! Il vulcano è l’essenziale, la città è l’accessorio.
Qui, succedono terremoti, inondazioni, eruzioni con lava ardente e ceneri. Montagne intere scompaiono e montagne emergono dal mare: altre all’improvviso si trasformano in vulcani. A causa delle paludi e delle esalazioni della terra vulcanica l’aria è infetta e provoca epidemie: gli uomini muoiono come mosche. Visitata Pompei, ho fatto colazione in un ristorante, dopo di che ho deciso di salire sul Vesuvio. Per questo provo oggi in certe parti del mio corpo caduco una sensazione come se m’avessero frustato.
Un martirio!
Cenere, montagne di lava, onde coagulate di minerali fusi, monticelli e ogni sorta di porcherie. Fai un passo avanti e mezzo indietro, le piante dei piedi ti dolgono, ti senti un peso sul petto. Cammini. Cammini. Cammini. E, la vetta è ancora sempre lontana. Ti chiedi se non sia meglio tornare indietro. Ma, ti vergogni, tutti ti prenderebbero in giro. L’ascensione è cominciata alle due e mezzo ed è finita alle sei. Mi sono trattenuto sul ciglio e ho guardato giù come in una tazza. Tutt’intorno il suolo è zolfo e fumiga. E, sotto giace e russa Satana. Provi una gran paura e nello stesso tempo vorresti saltar giù proprio nel bel mezzo del cratere. Adesso credo nell’Inferno. Scendere è brutto quanto salire. Affondi nella cenere fino ai ginocchi. Mi sono orribilmente stancato.
Brutta, sporca, lurida, chiavica città! Immondissima città! Casino delle sirene, scoglio de’malevestute, azzurro arenile infame!
Nessun esametro, spondeo, verso alessandrino, gloria di parola di Bisanzio, innocenza, nessuna purezza estratta dai fuochi, dai rochi poetici potranno mai competer coi fiumi, coi miasmi, con i mali odori delle viscere ammalate, con quel fegato di splendida puttana, infetto da dissenteria.
I terremoti nei Palazzi sono ancora in corso. Le scosse sono in rapporto con i continui indescrivibili crolli nei Palazzi del capitalismo privato dell’Occidente.
Esiste nelle più estreme e lucenti terre del Sud un ministero nascosto per la difesa della Natura dalla Ragione, un genio materno, d’illimitata potenza, alla cui cura gelosa e perpetua è affidato il sonno in cui dormono quelle popolazioni.
Se un fondo di esperienze vissute e di conoscenze è la condizione di tutte le descrizioni, dove potrebbe trovare, in Europa, un altro oggetto come Napoli, dove il viaggiatore come l’indigeno è continuamente testimone del modo in cui una superstizione antichissima e una modernissima impostura si congiungono in funzionali procedure di cui egli è usufruttuario e vittima?
In che modo incomparabile i due momenti si fondano fra loro nelle feste!
La minuziosa descrizione del miracolo del sangue di S. Gennaro è troppo povera e dice meno di quanto avrebbe detto uno solo tra gli usi di questa festa.
Tutto è segno a Napoli: che cosa ci rivela, dunque, il miracolo di S. Gennaro? Uomo per il suo sesso, donna per il sangue che scorre a periodi regolari. Fallo e vagina. Gennaro è per eccellenza il santo dell’androginia. Che divina provvidenza per quelli che non dimenticano la loro natura di donne e ne godono e per quelle che non dimenticano la propria natura di uomo e ne godono: Gennaro è il primo femminiello di Napoli. Va al martirio accompagnato dagli amici Festo e Desiderio e tutti e tre danno il “la” della luce all’alleluja formidabile del sangue.
Quest’autunno un inglese che rideva di tanta imbecillità è stato assassinato da quella plebe furente, incoraggiata dal suo funesto predicatore. L’esempio di quel solo crimine non avrebbe dovuto abolire un tal costume? E se la Ragione ha qualcosa di sacro è forse nel degradarla, nel profanarla così per le strade che la si può rendere rispettabile? Ma, se il ministero per la difesa della Natura dalla Ragione si allentasse, se le voci dolci e fredde della Ragione umana potessero penetrare quella natura, essa ne rimarrebbe fulminata. A questa incompatibilità di due forze ugualmente grandi e non affatto conciliabili, come pensano gli ottimisti, a questa spaventosa quanto segreta difesa di un territorio – la vaga natura con i suoi canti (le sirene), i suoi dolori (i sopravvissuti), la sua sorda innocenza (i cafoni)- e non a un accanirsi della storia, sono dovute le condizioni di questa terra e la fine miseranda che vi fa ogni volta che organizza una spedizione o invia i suoi guastatori più arditi, la Ragione dell’uomo. Qui il pensiero non può essere che servo della Natura, suo contemplatore in qualsiasi libro o nell’arte. Se appena accenna un qualche sviluppo critico, o manifesta qualche tendenza a correggere la celeste conformazione di queste terre, a vedere nel mare soltanto l’acqua, nei vulcani composti chimici, nell’uomo delle viscere, è ucciso.
E’ la Natura che regola la vita e organizza i dolori di queste regioni: questo genio materno e conservatore occupa la stessa specie dell’uomo; giorno e notte veglia il suo sonno; si strazia per i lamenti che la chiusa coscienza del figlio leva di quando in quando, ma è pronta a soffocare il dormiente se esso mostri di muoversi e accenni sguardi e parole che non siano precisamente quelli di un sonnambulo.
“Noi – dico ai miei amici- somigliamo a questi vulcani e le persone virtuose alla monotona e desolata pianura piemontese.”
Sodoma e Gomorra non sono niente in confronto di Napoli e dei suoi vesuviani, dove le lucertole fuggono tra i ruderi corrosi, che odorano di erbe aromatiche, di fritto e di cattivi odori come in una città araba e i baci sono un reciproco donarsi e rubarsi vigore e beatitudine.
Talvolta immagino di stare inginocchiato davanti a un ragazzo nell’oscurità di un vico e di tirargli giù la cerniera dei pantaloni. Mentre spinge avanti e indietro la sua escrescenza carnosa nella mia bocca, tira fuori un coltello dalla tasca dei pantaloni e mi conficca la lama tra le costole. Poi con i piedi spinge da parte il mio corpo e fugge via con la borsa. Mi inginocchio davanti a un ragazzo di vita come da piccolo mi inginocchiavo davanti a un Crocifisso. Inchioderò un giorno alla croce i ragazzi?
In fondo accontentarsi di qualche soldo di più in saccoccia è una forma di santità.

A Napoli, il mio isolamento è assoluto. Il sole, la solitudine, le notti passate sotto il roteare delle stelle, il silenzio, lo scarso nutrimento, lo studio di argomenti remoti tengono attorno a me come un’incantazione che mi predispone al prodigio.
La Sirena, quell’ombra grigia profilata nell’azzurro, avanza verso di me e pare immobile, sospesa, come un aereo quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L’occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese – è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. Ma, la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia. La Sirena passa lenta, come se io non ci fossi, quasi potrei toccarla, e scompare in una zona d’ombra, nel buio degli scogli. Adesso inseguo la Grande Occasione Mancata. Man mano che mi abituo a quel morto chiarore distinguo le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde, il divano, la macchia di caffè sul cuscino giallo. La Sirena deve essere scomparsa in qualche angolo buio, dietro quel cassettone o nella stanza di là. Ma non importa più, ormai ci siamo, eccola La Scena.
La porta si apre, e sulla soglia, preceduti dal maggiordomo, appaiono quattro valletti in livrea recando al modo antico, sopra una specie di barella ricoperta di un magnifico broccato rosso dallo stemma dei Duchi di Toledo, un enorme pesce adagiato in un immenso vassoio d’argento massiccio. Ecco, la Sirena. Il maggiordomo depone il vassoio in mezzo al tavolo e si ritrae in alcuni passi. Guardo e allibisco. Un debole grido d’orrore. Una bambina, qualcosa che assomiglia a una bambina, è distesa sulla schiena in mezzo al vassoio sopra  a un letto di verdi figlie di lattuga, entro una grande ghirlanda di rosei rami di corallo. Ha gli occhi aperti, le labbra socchiuse. E’nuda; ma la pelle scura, lucida modella proprio come un vestito attillato, le sue forme acerbe e già armoniose, la dolce curva dei fianchi, la lieve sporgenza del ventre, i piccoli seni virginei. E’un pesce. A syren. La famosa sirena dell’Acquario.
Parla greco e dice: “Nobile signore, perdonami, per favore. Compiangimi e perdonami. Non credere alle favole inventate su di noi: non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto. Il nostro canto non esiste: la musica cui non si sfugge è quella della nostra voce. Per Ovidio siamo uccelli di piumaggio rossiccio e volto di vergine; per Apollonio Rodio , dalla vita in su donne e dalla vita in giù uccelli marini; per il maestro Tirso de Molina “mezzo donne, mezzo pesci”. Per il dizionario classico di Lempière ninfe, per quello di Quicherat mostri, per il Griminal dèmoni.
Il cadavere di una di noi, Partenope, fu trovato in Campania e dette il suo nome alla famosa città. Se con la nave, dopo aver attraversato lo stretto di Messina, passerai al largo del porto di Napoli è proprio qui che dimoriamo, poiché la lussuria è fatta di umidità.”
E, alla deriva, la Sirena muta in piacere il mio ultimo rantolo.

Di qui un gorgo torbido di fango ribolle ed erutta. E, il corpo dentro il quale faccio ombra è Napoli. I vicoli, gli scantinati, i cortili, le cripte, i recessi, le cloache sono porte legali che si aprono verso i mondi inferiori per necessità di scambi e di attuazioni, commerciando e trattando con loro se ne ha meno paura.
Creature?
Tre volte circondo il collo con le braccia dei vesuviani, tre volte, invano, essi mi sfuggono dalle mani.

Infine, un’altra cosa da vedere è nella zona costiera che lega il porto aiprimi sobborghi. In zone come questa vivono i cafoni: io so bene che il nome cafone, nel linguaggio corrente del mio paese è termine di offesa e dileggio; ma io l’adopero nella certezza che quando nel mio paese il dolore non sarà più una vergogna, esso diventerà nome di rispetto, e forse anche di onore.
Sui lati di ciascun corridoio si aprono 86 porte di abitazioni private, 43 a destra, 43 a sinistra, più quelle di un gabinetto. In ognuno di qwuesti locali sono raccolte da 1 a 5 famiglie, con una media di 3 famiglie per vano. Il numero complessivo degli abitanti della Casa è di 3000 persone, divise in 570 famiglie, con una media di 6 persone per famiglia. Quando 3 o 4 o 5 famiglie convivono nello stesso locale si raggiunge la densità di 25, 30 abitanti per vano.
Eppure questa popolazione non pare affatto un proletariato. Presi insieme, non fanno una classe. E quanto al loro ambiente sociale, è la strada. Non hanno per nulla l’aria di pensare alla loro situazione, di giudicarla o di soffrirne. Non trovo che abbiano l’aria allegra, ma sono certamente spensierati. Sono umanisti al loro modo e vivono tutto il giorno stretti a altri uomini che amano sin nella loro carne. Certamente si sfamano. E, quando non mangiano, dormono. Non è una leggenda.

Ora, parto. La luna è alta nel cielo ed è una di quelle notti meridionali in cui la sua luce non sembra cadere sulla nostra esistenza diurna, ma su un’altra terra, su un’antiterra.
Io, poi, a Napoli vorrei starci il meno possibile.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).