Altre voci in altre stanze: Romain Gary & Jean Seberg

da | Dic 12, 2016 | Non Fiction

“Nessun rapporto con Jean Seberg. I patiti dei cuori infranti sono pregati di rivolgersi altrove”.
Recita così la suicide note di Roman Kacew, dal 1951 all’anagrafe come Romain Gary e in arte Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat e Émile Ajar, sebbene di questi ultimi non sia più possibile reperire nulla perché Romain Gary li ha riassorbiti tutti dentro di sé. Fa eccezione solo qualche prima edizione, come un Rizzoli del 1976 comprato per due euro qualche anno fa a Bologna.
L’opinione dell’autore su un tale epilogo editoriale la si potrebbe forse supporre, con il consueto margine di errore che è proprio del dibattere sulle scelte dei dipartiti, da Vie et mort d’Émile Ajar. Lui si era dilettato a falsificare le carte mentre il resto del mondo, come è sua prerogativa, alla fine ha avuto la meglio e ogni altro aspetto della questione è diventato buono solo per fare conversazione. Ma questa è un’altra storia, almeno per il momento.

“Nessun rapporto con Jean Seberg”, in ogni caso.
Il 10 settembre del 1979, un anno prima di arrestare il suo processo di invecchiamento con un suicidio dalla scenografia impeccabilmente elegante (la celebre vestaglia di seta rossa addosso, così da non far risaltare troppo il sangue), Gary aveva disposto una conferenza stampa. Ci teneva a dire la sua dopo che, l’8 settembre, Jean Seberg era stata trovata morta per overdose di alcol e barbiturici. Il suo corpo riposava in una Renault 5 da più di una settimana.
Lei, maschietta bionda della Nouvelle Vague, aveva baciato fino all’ultimo respiro Jean Paul Belmondo sui sedili di una Thunderbird, per poi sprofondare nell’oblio assordante che solo il gossip effimero sa garantire. Per lei i pettegolezzi delle cene mondane si erano tradotti in diffamazioni e spionaggi da parte di CIA e FBI, convinti che, oltre a essere attivista per i diritti degli Indiani d’America, fungesse da infiltrata nel mondo hollywoodiano per conto del Black Panther Party. Quali fossero le vere dinamiche, la sua carriera era crollata sotto il peso di quella campagna di demolizione che l’aveva trascinata allo sfinimento mentale.
Invece lui, nel 1979, era ritenuto dalla critica uno scrittore finito, che “doveva sentirsi un po’ triste e anche un tantino geloso per l’ascesa sfolgorante di suo cugino Émile Ajar nel firmamento letterario”. Poco importava che non esistesse nessun cugino chiamato Émile Ajar, ma solo un Paul Pavlowitch, convocato per incarnare un autore fino a quel momento senza volto.
Durante quella conferenza stampa, Gary accusò i membri dell’FBI di essere i veri responsabili del suicidio della sua ex moglie. Specificò inoltre che non c’era alcun legame fra la sua scomparsa e Clair de femme, il film che Jean Seberg aveva visto al cinema la sera prima di morire.
Film tratto dal romanzo omonimo di Gary pubblicato nel 1977.
Il motivo per cui sentì di sottolineare l’assenza di relazione fra i due fatti, non è mai stato del tutto precisato. Anche perché Clair de femme non parla esplicitamente di Jean Seberg, non più di quanto la canzone di un cantautore che non conosciamo nell’intimità non ricordi un qualche suo amore passato, che non ci è dato osservare nel dettaglio. Come se non bastasse, erano passati dieci anni dal loro divorzio e lei si era sposata altre due volte.
Tutto quello che sappiamo con certezza riguardo un possibile legame fra Clair de femme e Jean Seberg, sta nelle parole di Romain Gary: nessun rapporto. Una pura coincidenza. Allo stesso tempo, questa negazione non può che lasciare intuire qualcosa, come solo le negazioni sanno fare. Nel volere sviare i sospetti, l’autore dal suo pulpito crea l’intrigo e dà adito alle supposizioni; in piedi sull’altra sponda, si guarda sotto una lente diversa l’opera, illudendosi di avere il potere per decifrarne i più contorti segreti. Si vuole compensare la conoscenza che non si possiede con l’analisi e lo svisceramento dell’aneddotica: se l’interpretazione è manchevole, ci si inventa i sottotitoli, facendoli partorire dallo spazio bianco sulla pagina.
Eppure il vero nodo della questione, forse, risiede proprio in questo atteggiamento, che si stia scrutando la didascalizzazione delle vite di Romain Gary e Jean Seberg o che si guardi alle biografie di altre personalità, letterarie o meno che siano. I presenti in sala, il giorno di quella conferenza stampa, si saranno chiesti dove poter andare a riscattare i dettagli dei quali a loro spettava godere.
Tuttavia non dovrebbe interessarci la concessione, soprattutto quando si tratta di letteratura. Forse dovremmo accettare con serenità, e lontani da qualunque sapore di vittimistica rassegnazione, che a volte non ci è elargito nessun diritto e non è possibile arrancare alcuna pretesa. Da un lato ci sentiamo fieri dei dati che abbiamo raccolto, statici e intaccabili nella loro obiettività, che eserciteranno sempre un certo fascino perché creano atmosfera; ma dall’altro c’è un indicibile che qualcuno è riuscito comunque a esprimere, un indicibile che sopravvive perché parte da sé, divaga per il mondo e infine torna sempre in sé, su quella pagina con la quale ha scovato la sua forma.
La nostra unica concessione, allora, era e dovrebbe essere soltanto Clair de femme. Il nostro unico diritto sta nella condivisione che ci è stata accordata, dal momento in cui si può leggere di Lydia e Michel e del loro incontro accidentale; due persone che, se non si fossero conosciute, avrebbero passato il resto della vita a odiarsi.
E sorvoliamo allora sulle coincidenze, sull’ultimo film visto prima di morire, sul nome del protagonista che è lo stesso di À bout de souffle. Distogliamo lo sguardo dal riverbero che quel chiaro di donna si porta dietro e che trascina la nostra attenzione fino al frangettino di Jean Seberg, e concentriamolo invece su due figure diverse, che si imbattono inavvertitamente l’una nell’altra e nelle rispettive tragedie. Sull’orlo del baratro, entrambi stanno convivendo con gli strascichi di una fine che non è ancora avvenuta del tutto, e si accompagnano in questo modo, per una notte soltanto, perché è meglio così dato che “è molto più difficile quando non c’è nessuno da salvare”.
Michel è un uomo che non crede più ai presentimenti, anche se da tempo ha perso fede nella sua stessa incredulità; un uomo per il quale il “troppo è uguale a nessuno”, che non si sente ancora finito perché “quando un uomo è finito, vuol dire soprattutto che va avanti”. Per lui non esiste felicità “che non abbia un sapore senza tempo”. Sta fuggendo da qualcosa ma la sua è una rincorsa circolare, piena di parole. Come Gary stesso, Michel fa dell’ironia uno strumento di cultura e sovversione.
Lydia invece è una donna che “quando sorrideva affiorava una vita completamente diversa” perché “doveva essere stata a lungo felice”. Una donna che non accetterebbe mai di “ridursi a un tempio dove si viene per adorare l’eterno”.
Succede che lui apre la portiera del taxi e la urta, rovesciando a terra la sua busta con la spesa.
Sono due solitudini che si incontrano troppo tardi e troppo presto; che portano rispetto alla felicità perché entrambe conoscono bene il suo peso specifico.
Fra un addestratore di cani col suo barboncino rosa e il compleanno di un figlio della Santa Russia, si concedono una notte insieme che scardina il tempismo consueto degli incontri, arrivando a edificare un’altra dimensione dove “l’unico valore umano dell’indipendenza è un valore di scambio”. Nell’assistere alla loro conoscenza, si può scrutare ciò che attende oltre l’apparentemente impossibile, quando si riuscirà a scavalcare il più denso e sanguinolento grado di separazione fra due esseri umani: l’assolutismo del proprio passato. Ed è solo allora che la salvezza si rivelerà nella sua vera natura duplice, di supplica e redenzione.
Quella notte, in una Renault 5 parcheggiata nel XVI arrondissement, Jean Seberg aveva questa storia impressa nello sguardo. Dovrebbe, tuttavia, trattarsi di un dettaglio utile unicamente a fare conversazione, perché incarna la malinconia tipica delle cose che si preparano a finire. Un aneddoto che, svincolato da storie di umana sopportazione la cui comprensione spetta soltanto a persone a noi lontane, dovrebbe solo invogliarci a leggere un romanzo. Il nostro diritto si deve fermare qui, e non è poco.

Negli ultimi anni, improvviso come nel mondo editoriale si avvicendano improvvise rinascite e sepolture, Romain Gary è asceso a ospite fisso nella maggior parte delle librerie italiane. Proprio lì, fra gli highlights delle proposte letterarie, sui tavolini appena superato l’ingresso.
La vie devant soi è l’invitato di punta, e con ogni buona ragione. Dal 2005 Neri Pozza ha pubblicato, a cadenza quasi certosina, altre nove opere di Gary, fra romanzi, raccolte di racconti, saggi e finte interviste. Invece Clair de femme è attualmente edito da Casagrande, nella traduzione di Maurizia Balmelli, mentre L’Angoisse du roi Salomon, l’ultimo romanzo dato alle stampe da Émile Ajar, nel 1979, è disponibile nel catalogo di Giuntina.
Proprio come è capitato a quel Momo che avrà per sempre tutta la vita davanti, prima o poi tornerà anche il momento di Clair de femme, con le sue pagine cariche di urgenza e intrise di un altro tipo ancora di malinconia, quella che solo le cose accadute per caso sanno raccontare.

“Mi sono davvero divertito. Arrivederci e grazie”. Con queste parole Romain Gary chiudeva la sua lunga confessione, inviata a Robert e Claude Gallimard il 30 novembre 1980, pochi giorni prima di suicidarsi. Metteva fine ad anni di sorde speculazioni, perché nessuno fra chi di dovere aveva colto la serie di rimandi e autocitazioni fra Émile Ajar e Romain Gary.
Annullando l’enigma che aveva indubbiamente contribuito alla fortuna di quei romanzi, la verità rendeva liberi Romain Gary e tutte le sue proiezioni letterarie. Svelava il mistero che i salotti culturali avevano frainteso, rivelando che era davvero lui Émile Ajar.
Perché menti sagaci – magari le stesse che, con sguardi inquisitori e avidi di segretezze, intravidero presentimenti di colpevolezza dietro la morte di Jean Seberg – avevano assegnato due volte il premio Goncourt allo stesso scrittore: nel 1956 a Romain Gary con Les Racines du ciel, e nel 1975 a Émile Ajar per La vie devant soi. Con una certa dose di involontaria comicità, riflessa tutta a loro discapito, erano andati contro il regolamento che non avrebbe mai tollerato un’impasse del genere. Un increscioso malinteso, o forse uno dei rari casi in cui l’arte è riuscita davvero a sovvertire le leggi imposte dal raziocinio umano. Di La vie devant soi quelle menti avevano ribadito, a ogni buona occasione e con sempre più enfatizzata e indubbia autorevolezza, che non c’era assolutamente nessun rapporto con Romain Gary. E invece Romain Gary si era divertito fino alla fine, o almeno così ci vuole far credere. E noi non possiamo che fidarci.
Eppure, sopra ogni altra cosa, la sua confessione marchiava con l’ultima parola, che solo la scrittura ha la facoltà di innalzare, la propria eredità letteraria. Si riappropriava dell’arte, a modo suo e con la tempistica migliore che si potrebbe architettare; la sua morte aveva soppresso ogni dialogo, costruendo una barriera oltre la quale non erano più accettate repliche, e così alla ragione veniva finalmente concesso di tornare dalla parte delle parole. Una ragione che, come l’arte stessa, era stata “tenuta in ostaggio” da chi confidava di possedere la responsabilità ultima dell’invenzione letteraria, quasi a rivendicarne il diritto di paternità in nome di quella sacrale supponenza che incede per precetti autonomi e si alimenta di se stessa, oggi come allora, perché la critica “ha ben altro da fare che studiare seriamente i testi”.
Ne La Promesse de l’aube, Gary professava di credere in tutta sincerità che, “in letteratura come nella vita”, si potesse “piegare il mondo secondo la propria ispirazione e restituirlo alla sua autentica vocazione, che è quella di un’opera ben fatta e ben pensata”. Credeva “alla bellezza, e quindi alla giustizia”.
Più di trent’anni dopo e con tutto il resto del tempo che deve ancora venire, Romain Gary continua a dimostrare, ormai al sicuro da qualsiasi impostura decretata dal gusto passeggero e dalla sordidezza delle cene mondane, che sono solo le sue parole a possedere il diritto naturale su loro stesse.

Quando ero al liceo, ci fu un anno – probabilmente il secondo – in cui tutti in classe sembrarono aver scoperto all’unisono Le notti bianche di Dostoevskij.
Se ora mi trovassi in una classe come quella, ma dall’altra parte della barricata, consiglierei a chi desidera ancora “un intero minuto di pura beatitudine – che non è poco, seppur nell’intera vita di un uomo” di cercarlo in Clair de femme, romanzo di un tale Roman Kacew, dal 1951 all’anagrafe come Romain Gary e in arte Fosco Sinibaldi, Shatan Bogat e Émile Ajar.

 

Le citazioni di Romain Gary presenti nel testo sono prese, salvo dove specificato, da Chiaro di donna (Casagrande, 2001) e Vita e morte di Émile Ajar (Neri Pozza, 2016).

Vito di Battista è nato nel 1986 in un paese d’Abruzzo a trecento gradini sul mare. Ha studiato prima a Firenze, dove si è laureato in Letterature comparate con una tesi su Romain Gary, Tarjei Vesaas e J.M. Barrie, e dopo a Bologna, dove la stessa sorte è toccata a Ted Hughes, Sylvia Plath e Hart Crane.
Dal 2016 lavora come editor e foreign rights manager presso l’agenzia letteraria Otago. Ha scritto sulla rivista letteraria «Nuovi Argomenti» e su Futura, la newsletter del «Corriere della Sera». Nel 2018 ha pubblicato il suoprimo romanzo L’ultima diva dice addio per SEM – Società Editrice Milanese.