Il romanzo e la fine della materia

da | Giu 7, 2013 | Senza categoria

Noi siamo polvere di stelle: è un’immagine molto poetica e vera dal punto di vista scientifico. La materia che compone il nostro corpo è composta di atomi che si sono formati in qualche supernova miliardi di anni fa. Se vi osservate una mano, come faceva ossessivamente per ore il Monsieur Teste di Paul Valéry, nelle vostre cinque dita non vedrete solo l’arto di un mammifero imparentato con le ali di un pipistrello, con le pinne di un pesce o con le zampe di un coccodrillo. Non è escluso, anzi, che nella vostra carne ci siano atomi appartenuti a un T. rex, o ad altri esseri umani vissuti milioni di anni prima di voi.
È la grande tragedia dell’esistenza e, ridotta all’osso, o meglio alla sua realtà molecolare, è che essere vivi significa, in altri termini, essere anche oggetti. Ci siamo dovuti inventare un’anima per sopravvivere al nostro triste destino cellulare e termodinamico: la decomposizione. Anche il Sole, a cui guardiamo come un simbolo di eternità, tra 5 miliardi di anni si decomporrà, cesserà di essere una stella.
Ma dal materialismo della vita non si scappa: perfino la fisica delle particelle elementari subatomiche parla di materia e interazioni con la materia; ogni nostro respiro e pensiero è dovuto alla materia. È l’inesorabilità della materia che Leopardi chiamava nulla: «Essendo tutto il reale un nulla, non vi è nulla di reale né altro di sostanza al mondo che le illusioni». Un fisico probabilmente obietterebbe che il nulla non è esattamente nulla, ma è nulla per noi che vorremmo essere qualcosa per sempre. In un’altra pagina dello Zibaldone Leopardi specificò «tutto è nulla, solido nulla».

Tutto questo fa pensare che l’essere condannati in un corpo, e perfino senza conoscere la struttura fisica degli atomi e delle cellule, non sia una percezione così contro-intuitiva. Tutti i popoli umani primitivi devono aver sentito la spaventosità della materia se hanno inventato mondi simili e salvifici popolati di anime, fantasmi, spiriti, inferni e paradisi affrescati dagli artisti sulle pareti dei luoghi di culto. Era in fondo l’unico modo dato agli artisti per illudersi di controllare il caos. Qui, a proposito del ruolo dell’arte nella propaganda dell’ordine metafisico, si apre un’altra questione, già accennata addirittura da Galileo Galilei: o l’arte è importante per la conoscenza, o non è poi così importante.
In realtà le cosiddette “due culture” (quella umanistica e quella scientifica, riprendendo l’analisi sviluppata da Charles Percy Snow in un suo famoso saggio) hanno cominciato a separarsi solo in tempi recenti. Ma solo perché, fino a Darwin, scienza, filosofia e teologia erano una cosa sola. Neppure Newton ha mai pensato a un mondo “senza Dio”. William Paley era sia un teologo che uno scienziato e si appoggiava tranquillamente all’ordine “divino”, ingenuamente primitivo, dell’universo. In definitiva scienza e letteratura si sono separate quando il pensiero scientifico è entrato in rotta di collisione con la metafisica, ossia con la fiction mistica su cui si fondava quasi tutta la cosiddetta cultura umanistica. Uno strappo doloroso ma necessario, vissuto da Darwin sulla sua stessa pelle.
In fin dei conti la vera tragedia dell’essere umano è proprio dover prendere coscienza della materia di ogni cosa. Il dualismo cartesiano, che separa la sostanza della mente da quella del corpo, è di nuovo il rifiuto platonico di essere organismi mortali alla deriva in un universo senza scopo. Tuttavia, al contrario, non si dà vera tragedia nell’immortalità, e perfino il mondo di Shakespeare è un mondo mistico, dove male che vada si diventa fantasmi. Ecco perché il disfacimento dell’ordine mitologico del mondo non poteva non portare con sé il disfacimento dell’arte, e sono proprio le prime avanguardie artistiche del primo Novecento a strappare la tela per arrivare a mettere in scena il caos della materia stessa: l’oggetto senza significato.

Non penso tanto alla scomposizione cubista o all’astrattismo, visioni ancora legate alla certezza metafisica del dipinto. Penso a Marcel Duchamp. Duchamp attaccò l’idea di rappresentazione alla base: smise di dipingere perché non ne poteva più della visione superficiale, da lui chiamata “retinica”, della pittura, ritenendo inutile qualsiasi forma d’arte che non implicasse «un approfondimento del pensiero». Una risposta a Galileo sul ruolo dell’artista, quattro secoli dopo. A tal punto da voler diventare un anartista.
Duchamp, va precisato, non fu un fulmine al ciel sereno: l’arte già da qualche decennio cominciava a presentire una certa inquietudine nei confronti sia dei propri fini che dei propri mezzi. Mentre gli impressionisti esordivano studiando la visione, Maurice Denis aveva definito i quadri solo «una superficie piana ricoperta di colori». Duchamp, però, andò oltre, e inventò il readymade: qualsiasi oggetto scelto dall’artista poteva diventare un’opera d’arte. Proprio così, qualsiasi oggetto. Tutto era arte, ma anche niente poteva esserlo più. Prendete un asse da stiro ed esponetelo in un museo, prendete un Rembrandt e usatelo come un asse da stiro. Sono le cose che mettono in mostra se stesse, la loro inquietante indifferenza di cose.
Infatti i readymade, a differenza degli oggetti surrealisti, venivano scelti proprio per la loro indifferenza, secondo una precisa prescrizione di Duchamp. Indifferenza degli oggetti, che richiama l’indifferenza delle nostre cellule al nostro destino, degli atomi di cui siamo fatti, delle stelle nel buio cosmico: l’indifferenza come proprietà universale della natura e dell’universo in cui ci troviamo a vivere.

È solo un caso, ovviamente, ma la formulazione del concetto di readymade coincide all’incirca con l’anno di divulgazione della teoria della relatività di Albert Einstein (il 1916, mentre il readymade si definisce tra il 1913 e il 1917, anno del famoso Fountain). Mentre un artista abbatteva l’ordine metafisico dell’arte, uno scienziato concepiva un’equazione fondamentale sul mondo fisico. Altrettanto emblematicamente, poco più di trentennio dopo, nel 1948, un critico reazionario tedesco, Hans Sedlmayr, scrisse un saggio intitolato Perdita del centro, dove addirittura proponeva un ritorno all’arte sacra per recuperare un senso del mondo. Nel frattempo, nel 1929 Hubble aveva scoperto che le galassie si allontanavano le une dalle altre, l’universo si disperde nell’infinito.
In ogni caso dopo Duchamp l’arte non ha più smesso di inghiottire oggetti, come in un buco nero: le pattumiere di Arman, i rottami arrugginiti di Tinguely, le feci inscatolate di Manzoni, i sacchi di Burri, i rimasugli di cibo di Spoerri, i cadaveri di Serrano, fino ai recenti animali sezionati da Damien Hirst. Walter Benjamin, all’inizio del secolo scorso, aveva parlato di “perdita dell’aura” per indicare quella particolare magia perduta dall’arte in quanto manufatto, dando la colpa alla sua riproducibilità tecnica. Ma la questione era più seria: era scomparsa dalla rappresentazione la centralità dell’uomo, la fiction di un ordine superiore. Al suo posto era entrata l’entropia, la meraviglia e lo sgomento di fronte all’inerte materia di cui sono fatte le cose.
In letteratura le cose sono state più difficili, e si sono arroccate nel castello dell’illusione romantica di un esistenzialismo teologico. È per questo che il letterato ha continuato a porsi contro la scienza in apparenza per partito preso: dietro questo rifiuto c’era il timore che l’edificio umanistico potesse crollare miseramente sull’uomo ridotto a mammifero, o peggio a un ammasso di molecole. D’altra parte, per quanto si possa nobilitare il pensiero, ciò che vive dipende da questo ammasso di molecole. Se non sappiamo esattamente che cos’è la vita, sappiamo cosa non è, e cos’è la morte.
Così il mondo delle lettere è rimasto pregiudizialmente, ottusamente impermeabile alle scoperte scientifiche, pur di non fare i conti con la fine della speranza di sopravvivenza individuale a lungo termine. Solo gli scrittori di fantascienza si sono avvicinati senza timore alla scienza, benché spesso in chiave futorologica, da Verne a Lovecraft a Crichton. Altri, più amati dal pubblico colto, al limite ne hanno fatto tema di gioco, eliminandone il lato tragico. Un nome fra tutti: Italo Calvino e le sue Cosmicomiche, la scienza ridotta a aneddoto, a favola felice. Oppure, più recentemente, l’entropia come incubo cosmico-capitalistico, per esempio nel grandioso Canti del caos di Antonio Moresco. Purtroppo con la solita morale finale: se le cose vanno male la colpa non è della natura ma dell’uomo, e con la solita tendenza mistica che non fa mai male, magari infilando un senso magico, salvifico, un al di là, nella materia oscura, come in una puntata della trasmissione Misteri.
La consapevolezza di essere un piccolo pianeta tra miliardi di stelle, tra centinaia di miliardi di galassie, in un universo in espansione destinato a raffreddarsi; la scoperta raccapricciante e provata di essere mammiferi sullo stesso piano di altri animali, generati da un’evoluzione senza scopo, non ha impedito agli scrittori di vivere in una trascendenza dorata e fuori tempo massimo. È per questa stessa ragione che gli uomini raccontano le favole ai bambini, per cercare di ingannare anche se stessi.
In tutto il XIX secolo forse la frase più realistica sull’esistenza in un romanzo l’ha scritta Gustave Flaubert, descrivendo la morte di Madame Bovary: elle n’existait plus. Ma in genere i letterati umanisti hanno preferito mettere la testa sotto la sabbia, alzando gli occhi al cielo. I progressi della scienza sulla definizione della realtà non hanno impedito alla maggior parte degli scrittori di sentirsi garanti di qualcosa da chiamare anima o spirito, rifiutando ancora una volta la materia. Viene in mente una frase di Emile Cioran: «La morte, che disonore, diventare di colpo oggetto!». E così tuttora per il mondo letterario, «discendiamo dalla scimmia», mai da pesci, tantomeno da cellule procariotiche vecchie tre miliardi e mezzo di anni.

Non è la discendenza a non essere accettata, è ciò che implica in termini di ordine perduto, di condanna alla fine, di ineluttabile disfatta nei confronti della materia. Al massimo, nei più informati, il dramma evolutivo e termodinamico è stemperato in una distinzione elettiva tra primati (gli uomini, separati dagli altri animali, ancora rassicurati dalla gerarchia di Linneo) e nella beata ignoranza di tutto il resto.
E allora, tornando al punto centrale: come possono gli scrittori non tener conto degli sconvolgimenti della biologia, dell’astronomia, della meccanica quantistica? Come possono continuare a fingersi architetti di casette narrative sulle macerie di un ordine che non c’è più? È come se la letteratura si trincerasse dietro la prima legge della termodinamica, opportunamente spiritualizzata, per evitare di finire stritolata nella seconda.
Tra i grandi scrittori che non hanno ignorato il caos che mina l’ordine immaginario dell’uomo c’è senza dubbio Marcel Proust. L’intera Recherche è un’immane costruzione fintamente romantica, che in realtà si autodistrugge completamente nell’ultimo volume. Il tempo ritrovato è il tempo perso per sempre, la precarietà fisica della vita che precipita verso il disordine, verso il caos, e presto verso il nulla. Nulla esiste senza consumarsi, nessuna forma, nessun simbolo, neppure i nobili Guermantes. Marcel Proust fa crollare l’intera impalcatura narrativa dell’opera nella consapevolezza della dissoluzione di ogni cosa, e lo fa dal punto di vista più estremo e biologico. Non a caso fu un lettore di Darwin e ne trasse le conseguenze (per chi fosse interessato alla questione affronto il darwinismo della Recherche nel mio saggio L’evidenza della cosa terribile). È come se Michelangelo avesse affrescato la Cappella Sistina al solo fine di esibirne il cedimento della struttura, il disfacimento, la finzione, le crepe nell’effimero cemento.

Una presa di coscienza dell’entropia la troviamo in molti altri grandi scrittori del Novecento, dal Cosmo di Witold Gombrowicz al Pasticciaccio di Carlo Emilio Gadda, come pure nell’opera di Samuel Beckett, spinta fino alla paralisi e al silenzio. Ma, a parte Proust, spesso si tratta di una crisi ideale tutta interna al pensiero umanistico-filosofico, come quella di Albert Camus. Mai fondata su una precisa visione scientifica. Difficilmente, insomma, troviamo scrittori realmente consapevoli della nostra realtà evolutiva, fisica, astronomica e che fondino su questo la propria visione del mondo.
Eppure nel frattempo è passato un secolo, e non un secolo qualsiasi. Un secolo in cui abbiamo campionato l’intera sequenza del nostro genoma, abbiamo scomposto l’atomo, siamo arrivati a verità infinitesimali e infinitamente grandi. Ci sono tantissime altre verità da scoprire, ma nessuna verità scoperta è consolatoria per la nostra eternità, e nessuna la sarà mai. Una tra tutte: noi non sopravviveremo, neppure l’universo sopravviverà a se stesso. Solo che, a differenza nostra, non se ne accorgerà.
Essere coscienti è la più straordinaria avventura che ci è dato vivere, il nostro pensiero è una rarità statistica nel cosmo. Ma anche la nostra tragedia è straordinaria, e la maggior parte degli scrittori non vuole saperne. Se ne è accorto Michel Houellebecq, subito definito «pessimista», «materialista» o «nichilista» (le etichette classiche appiccicate dai letterati vetero-teologici, guardiani dell’ordine neoplatonico del mondo) per il quale l’universo è solo «una furtiva accozzaglia di particelle elementari, una figura di transizione verso il caos, destinato ad avere la meglio».

Ecco perché, da questo punto di vista, trovo abbia un valore speciale l’opera di uno scrittore come Ian McEwan. Insospettabile, tra l’altro, perché a differenza di Gombrowicz è decisamente popolare. I romanzi di McEwan, da cui spesso sono stati tratti film di successo, non rinunciano all’ordine della narrazione, e perfino alla narrazione di storie in apparenza ordinarie. E tuttavia nascondono al di sotto della trama una potente sottotrama scientifica, una precisa visione tragica dell’uomo aggredito dal caos della realtà. Anzi, forse l’uomo di fronte al caos è il vero tema nascosto di Ian McEwan.
È una percezione condivisa da molti scrittori della seconda metà del XX secolo, ma perfino pensare al rumore bianco di Don DeLillo non è un buon termine di paragone, poiché è un rumore di fondo prodotto da una condizione economico-sociale (il capitalismo) più che dal caos dell’universo, una forma di alienazione sociale. Essendo un romanziere tradizionale, McEwan non può scardinare e far esplodere le strutture narrative del romanzo come avrebbe fatto Joyce, né approdare al silenzio antinarrativo di Beckett. E in un certo senso sarebbe fin troppo facile.
L’operazione è più efficace se compiuta all’interno del romanzo classico, un mondo narrativo dove circoscrivere un senso che nella vita vera non c’è. Il romanzo tradizionale è una forma infida proprio per la sua necessaria costruzione narrativa, è in qualche modo una forma implicitamente religiosa. L’Antico Testamento, il Corano, il Vangelo, qualsiasi testo “sacro”, sono macchine narrative, fabbriche di favole, romanzi di illusioni.
McEwan si trova di fronte lo stesso scarto tra l’ordine fittizio della filosofia prescientifica garantito dalla religione e la visione reale, evoluzionistica, termodinamica, dell’universo moderno. Il romanzo come macchina della menzogna deve anzitutto dire la verità, e se possibile autodenunciarsi dall’interno, dichiarare il paradosso.
Al riguardo in Sabato si legge: «A differenza di quanto succede nei romanzi, nella vita vera le rese dei conti sono di rado così precise; e gli equivoci restano spesso irrisolti. Senza neanche conservare chissà quale urgenza. Ma semplicemente dissolvendosi. La gente si confonde, ricordando, oppure muore, oppure muoiono i problemi lasciando il posto ad altri, nuovi». Il romanzo confligge con il vero senso del mondo, con la naturale tendenza di ogni cosa al disordine, non solo disordine materiale ma anche morale, etico, filosofico.
Questi due stati, realtà fisica del disordine contro illusione metafisica dell’ordine, sono rappresentati anche nella contrapposizione tra le due sorelle di Espiazione: Briony e Cecilia. La prima crede ancora nell’ordine, la seconda è già passata all’età adulta, ossia al caos sia sentimentale che materiale. Briony, abituata a controllare il mondo scrivendo racconti, si angoscia quando deve scrivere un dramma con attori di famiglia, perché la sua piccola forma non può resistere all’invasione devastante della vita reale. Ma presto Briony prende consapevolezza della propria non unicità, analogalmente all’uomo moderno rispetto all’uomo metafisico, religioso, o al Rembrandt di Duchamp che diventa un asse da stiro. Si sente unica, ma pensa: «Era così anche per tutti gli altri? Se la risposta era sì, allora il mondo, la società doveva essere complicata in modo insostenibile, con i suoi due miliardi di voci, e coi pensieri di tutti allo stesso livello e le pretese di una vita altrettanto intensa da parte di tutti, e con l’unanime convinzione di essere unici, quando nessuno lo era». E presto nella ragazza entra il pensiero dell’assurdità evolutiva, un primo orrore verso il mostro biologico di cui è composto il suo tanto amato spirito: «Alzò la mano flettendo le dita e si chiese, come già le era capitato di fare altre volte, come fosse entrata in possesso di quella cosa, quella specie di morsa, quel ragno carnoso al suo completo servizio».

Quasi tutti i romanzi di Ian McEwan iniziano da una situazione semplice, ordinaria, subito stravolta da un incidente, una causalità. L’amore fatale comincia su un prato, un paesaggio idilliaco, dove il protagonista sta facendo un pic-nic con la sua compagna quando vede un pallone aerostatico in difficoltà. Questo evento casuale darà origine a una serie di eventi ingovernabili. Stessa situazione in Sabato: la vita ordinaria di un neurologo, Henry Perowe, viene completamente stravolta a causa di un piccolo incidente insignificante, stavolta automobilistico. La nostra realtà sta in piedi per una serie di sforzi artificiali che ne limitano la naturale tendenza al caos.
«Dove l’umano bisogno di ordine incontra l’umana tendenza al caos», si legge ne L’amore fatale, «dove la civiltà inizia a cozzare con il proprio malcontento, si verifica una frizione, e un grande accumulo di stanchezze e conflitti diffusi. Se ne trova riscontro nelle chiazze di linoleum consumato davanti alle porte di ciascun ufficio, nella lunga crepa verticale sul vetro opaco dello sportello dell’ufficio denunce». Al culmine della vicenda il protagonista orina in un bosco e riflette sull’insensato brulicare di esseri viventi, con un riferimento all’innocenza perduta dell’illusione religiosa: «Cosa restava in tutto ciò che potesse servire al ciclo del carbonio e al fissaggio dell’azoto? No, noi ci eravamo esclusi dalla grande catena. Era stata la nostra stessa complessità ad espellerci dal Giardino. E adesso eravamo nel caos della nostra autodistruzione».
Per questo McEwan adotta di frequente una misura temporale rallentata, funzionale a cogliere gli eventi prima che vadano in frantumi. Come la fotografia stroboscopica dell’esplosione di un uovo che non è più possibile ricomporre, e la rottura di un uovo è un esempio familiare molto amato dai fisici per spiegare la seconda legge della termodinamica. Tutte le nostre vite sono uova in procinto di rompersi. In Sabato l’intero romanzo si svolge nella durata di un giorno, e come in altri romanzi di McEwan basta un minimo incidente per rompere l’ordine e far precipitare gli eventi nel caos. Tutto ciò che appartiene alla nostra esistenza è tenuto insieme da uno spreco di energia vitale, una forma provvisoriamente viva nell’universo insensibile della materia inerte.
Vale perfino per gli oggetti personali, che senza la forzatura di chi li possiede perdono ogni significato. Si noti la vicinanza con l’idea dadaista dell’object trouvé, o ancora con la poetica del readymade duchampiano, e in generale con l’invasione degli oggetti a cui ci ha abituato l’arte contemporanea d’avanguardia. «Gli oggetti si trasformavano in spazzatura non appena venivano separati dal loro legittimo proprietario e dal loro passato; senza di lei, il vecchio copriteiera era orrendo, con quel disegno sbiadito della fattoria, le chiazze marrone chiaro sul tessuto scadente e l’imbottitura ormai penosamente sottile. Henry si accorse che in realtà nessuno possiede niente».

Lo stesso ospedale dove lavora Perowe diventa simbolo di un ordine sterilizzato, artificialmente imposto. Soprattutto di notte gli spogliatoi rivelano l’aspetto caotico della realtà. Senza il personale delle pulizie niente sta più al suo posto e «può essere seccante andare di fretta e non riuscire a trovare due zoccoli dello stesso numero». Tra l’altro l’immagine dello spogliatoio ricorre anche in altri romanzi di McEwan. In Solar addirittura lo spogliatoio diviene simbolo del nostro naturale disordine sociale: «Come specie, non certo la migliore immaginabile, ma di sicuro la più interessante fra quelle esistenti. Che dire tuttavia di quella condivisa vergogna che era lo spogliatoio? La scienza era certo una bella cosa, e chissà magari anche l’arte, ma forse la soluzione non poteva risiedere nell’autoconsapevolezza. Occorrevano buoni sistemi organizzativi per fare in modo che delle creature fallaci potessero utilizzare correttamente uno spogliatoio. Meglio non affidare nulla alla scienza, all’arte o all’idealismo. Solo delle buone leggi potevano salvare lo spogliatoio». E proprio lì nello spogliatoio c’è un’agnizione esistenziale del protagonista, il Premio Nobel per la fisica Michael Beard, sull’esistenza umana: «Ciascuno di noi, tutti quanti, destinati senza scampo ad affrontare individualmente l’oblio, eppure nessuno che se ne lamenti troppo».
Vorrei concludere questa riflessione sulla letteratura, la vita e l’entropia citando un artista italiano, Gino De Dominicis. Nel 1970 De Dominicis pubblica un testo intitolato Lettera sull’immortalità del corpo nel quale chiamava esplicitamente in causa proprio l’arte, la scienza, e il dramma delle cose destinate a finire nel proprio disfacimento definitivo. È una lettera bellissima e lucidissima e scritta prima dell’infatuazione (ahimè) dell’artista per la mistica sumerica, e parla implicitamente dell’evoluzione, della provvisorietà materiale, quantistica, assoluta delle cose, dell’inconsistenza effettiva di qualsiasi organismo pensante di fronte al caos della materia.
In sostanza, dopo aver auspicato che tutte le risorse economiche del mondo vadano alla ricerca scientifica per cercare di raggiungere l’immortalità, De Dominicis dice: «Un bicchiere, un uomo, una gallina non sono veramente un bicchiere, un uomo, una gallina, ma solo la verifica della possibilità di esistenza di un bicchiere, di un uomo, di una gallina. Per esistere veramente le cose dovrebbero essere eterne, immortali».
È una delle cose più commoventi e più strazianti che si possano immaginare, la fine di tutto, che per la scienza è la cosiddetta morte termica dell’universo. Eppure siamo abituati a pensare al futuro prossimo, quando non ci saremo più. Capita di immaginare che cosa accadrà dopo la nostra morte tra cento, duecento, anche mille anni, perché è un tempo alla portata del nostro pensiero, nonostante già pensare la nostra morte sia atroce, considerando che ciascuno di noi non esisteva da sempre e non esisterà mai più, per sempre. Ma non immaginiamo mai che cosa accadrà fra uno, due, mille miliardi di anni.
Oggi sappiamo che le cose eterne non lo sarebbero mai, in nessun caso, neppure se dovessimo vivere mille miliardi di anni: la materia non ce lo permetterebbe. Vale per noi come per qualsiasi altra forma di vita distante milioni di anni luce, magra consolazione. Qualsiasi grandezza raggiunta dal nostro pensiero, da Galileo a Einstein, da Shakespeare a Proust, qualsiasi grandezza raggiunta da qualsiasi civiltà nell’universo, prima o poi finirà nel nulla. Ci sarà un giorno, che non sarà un giorno per nessuno, in nessun luogo dello spazio, in cui niente sarà mai stato. Tutto ciò è incredibilmente meraviglioso, infinitamente commovente, e anche profondamente terrificante.

 

Pubblicato sul numero 537 del mensile “Le scienze”, edizione italiana di “Scientific American”.
Per gentile concessione de “Le scienze”.

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).