Dal poemetto inedito L’ardesia mal cancellata di Luís Mizon. Traduzione di Mia Lecomte.
I
Ardesia mal cancellata
è ciò che a noi resta
della città
tracce
vestigia
uno scenario e quinte scorrevoli
falsi trompe-l’oeil
e sentieri disegnati col gesso
qualche tratto maldestro
puntini di sospensione
i cammini che lei ci ha lasciato
per farsi incontrare
è vero ?
sì, vero
eppure niente è più incerto
perché se n’è andata?
dove si nasconde ?
dietro al grande Qui
forse all’immenso Altrove ?
voleva cambiare vita
o soltanto travestirsi ?
contemplava la sua vita il gioco?
e d’un tratto ha deciso di gettare
cambiare
abbandonare tutto
come l’equipaggio di un vascello fantasma
che svanisce al largo
lascia lo scafo navigare alla deriva
carcassa vuota dalle vele spiegate
con il forno ancora caldo
i piatti serviti
voleva davvero essere
una città più bella ancora
o più folle
per l’avvenire o nel passato ?
da tempo graffiti annunciavano
la partenza della città
menzogne!
menzogne tra altre menzogne!
mai lei ha voluto lasciarci
allontanarsi dalle sue colline
a noi semplicemente è mancato il coraggio
di seguirla nel suo sogno
di pensarla fino in fondo
osservarne le tracce
ascoltarne i racconti
comprenderne la storia
e recuperare il suo corpo
sepolto nella banalità del non detto
non siamo stati generosi con lei
la voce quasi inudibile
aveva bisogno di tempo e di silenzio
e non le abbiamo dato niente
neppure il pizzicato necessario al vibrare
della corda tesa
dell’arco o della lira
il tocco dello sguardo sullo sguardo
la carezza delle labbra sulle labbra
l’audacia della pelle
non l’abbiamo saputa amare
per come semplicemente
era
una bambina che ride
II
Dovremo pensare la città
con il corpo
ascoltarla che racconta la sua vita
con parole che appartengono alla nostra
imparare a vedere l’animo degli altri
con i loro occhi
e comprendere l’invisibile
al tocco
si dovrà scoprire l’inatteso
nei volti degli stranieri
quando la città risveglierà un’antica liturgia di luce
lavare il tempo
il passato e l’avvenire
e scoprire la radice della città
in fondo a noi stessi
a volte nutro il desiderio di lasciare la mia casa
camminare liberamente per un’intera notte
senza mappa o itinerario
camminare
incapace di leggere il mio destino nelle stelle
perdermi
nel letto asciutto di un fiume
inseguendo le tracce della città
nel suo sogno di polvere
e di entrare nel suo grande sogno
distrutto
come nello spazio assolato
di un’altra città sconosciuta
cosmica
città sognata
amata e vissuta
da altri uomini e donne
e bambini
di attraversare lo scenario del suo teatro vuoto
incontro
a un corpo senza età
il suo corpo di ragazza
o ragazzo fiero
delle proprie prodezze
incontro al suo corpo maturo
un corpo molto vecchio
corpo felice
tra le braccia di un fantasma
o città già privata del corpo
toccarle la mano nel vento
toccarle la pelle nella pelle del vento
baciarle le labbra sulle labbra del vento
e più lontano
alla cieca
raggiungere echi
e voci di coloro che se ne sono andati
senza lasciarla mai
andati dietro all’orizzonte
per restare
con lei
come sole e musica
restano
nell’oblio
III
La città si scostava da noi
come una di quelle ragazze scaltre
che tutte le sere scendono
verso i quartieri del porto
per trarre miglior profitto
dalla propria bellezza effimera
tenera ingenua avida
la città si proteggeva sfidando
con lo sguardo insolente
per giocare
godere e approfittare
ogni volta si prendeva gioco di noi
bisognerebbe sorprenderla senza essere visti
abbordarla senza disegni
segni
parole
scorgerla sola nel camerino davanti al mare
concentrata sul movimento
della luce e dell’acqua
sull’argento vivo dello specchio
osserva la nudità del proprio segreto
sola nell’attesa
all’estremità di un riflesso senza scampo
si taglia i capelli
davanti al mare
forse esiste
l’esempio di un incontro inatteso
dove il passato ancora attende d’essere vissuto
come una poesia in costruzione
attende e trova le parole
un tempo disponibile
a rivivere
ciò che fummo
ciò che ancora
siamo
un tempo doppio
indolente
vigile
in sospeso
ad attendere il clandestino
il figliol prodigo
l’ospite di passaggio che sono io
tempo astronomico e musicale
come un’architettura di pietra e mormorii
[…]
XIV
Qui siamo tutti esuli
lo siamo stati
lo siamo ancora
è il nostro modo di vivere la città
il porto stesso è un esule
che viaggia con noi
il sogno dell’esilio abita la città
le sale dei vecchi cinema
i ristoranti le chiese
le sagome dell’esilio
si ammassano sulle colline
come battelli incagliati
sotto il peso di cascate d’edera
di finocchio selvatico e di cicuta
i sogni della città
si piegano sulle proprie ferite
i propri ingenui peccati
quando l’ultimo piroscafo
attraversa la notte
come una torta di compleanno
con le candele accese
le nuvole si avvolgono al faro
un gatto scompare tra le cifre di un poema quantico
intorno all’eucalipto polveroso
il balcone lancia sfere di silenzio
e io mi copro gli occhi
per guardare la notte della città splendida
[…]
XVII
Sotto al catrame di un parking
hanno trovato i resti di un hotel
un piano bar
vasi di terracotta
dove la menta scriveva poesie
camere invisibili
i muri coperti di antiche iscrizioni erotiche
di insulti rivolti
« a chi leggerà »
il porto non chiude mai le porte
ai visitatori della notte
parte della città è invisibile
parte incompiuta
parte sotterranea
parte dimenticata
come se cercassimo
in un grande bicchiere incrinato
il corpo perduto di una fidanzata messa a nudo
attraversiamo più strade
ad un tempo
guidati dalla musica
il mistero della musica è di essere labirinto a se stessa
le nuvole nascono tra i rami degli alberi
gli alberi crescono tra rotaie
che si incontreranno soltanto all’infinito
le erbacce hanno invaso il campo da calcio
non partiremo mai da qui
la nostra casa si trova tra le lettere ornate
di un manoscritto illuminato
XVIII
Il porto è una bolla di sapone che s’invola
agita al vento foglie di felci giganti
simili a ventagli
ali che saranno visibili nel cielo delle isole
nei deserti e in tutti i paesaggi dell’esilio
dalla città uno sguardo rapido di sopra la spalla
mentre attraversa la strada
non ci lascerà mai
fiore notturno
ai nostri occhi la luna apre i petali
tengo in mano una candela
sagomata dal mare e dal vento
con la quale accendo
la candela
di chi passa.
Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).