Come un polittico che si apre

da | Gen 23, 2018

Come un polittico che si apre, di Franco Buffoni e Marco Corsi, è un libro-intevista che uscirà a breve per Marcos y Marcos (2018). Riportiamo di seguito in anteprima alcuni estratti.

Mettiamo a fuoco un nucleo di riflessioni e di ricordi forse più privato, ma inevitabilmente connesso alla scrittura. Quale diversità di sguardo si realizza nel poeta degli anni Novanta, nel tuo caso nel Buffoni del Profilo del Rosa, rispetto a quello di vent’anni prima? Come si poteva davvero raccontare quella temperie?

Sarei prudente nel risponderti, perché il mio rapporto con la poesia italiana negli anni Settanta fu alquanto particolare. È vero che ebbi una precoce commistione con gli ambienti poetici, però in quegli anni altre erano le priorità, tant’è che il mio esordio avvenne solo nel ’78. E fino all’84, quando uscirono I tre desideri, praticamente non mi mossi nel panorama poetico italiano, avendo sempre e solo l’Inghilterra come paese di riferimento. Il mio impegno attivo nel mondo della poesia – mia e dei più giovani di me – ebbe inizio solo nell’86, quando divenni professore associato, uscendo dal tunnel delle traduzioni alimentari. Una prima svolta era avvenuta nel 1980 con l’acquisizione del ricercatorato, ma era talmente sottopagato da costringermi a fare anche altri lavori. Nella nuova condizione potei organizzare nell’88 all’Università di Bergamo il convegno sulla Traduzione del testo poetico, e attraverso lo studio della teoria della traduzione potei coniugare l’impegno nella ricerca alla scrittura poetica. Ma nell’88 avevo quarant’anni: quindi posso dire che nei vent’anni precedenti, dai venti ai quaranta – mentre Conte, Viviani, Lamarque, Cucchi, De Angelis, Bellezza, e in parte anche Magrelli, coglievano al volo l’ultimo periodo di centralità della poesia nella cultura italiana – la mia testa e il mio impegno erano assorbiti altrove. Questo spiega l’esordio tardivo e il fatto che i miei compagni di strada siano stati Pusterla, Anedda, De Signoribus, Frasca. Io sono oggettivamente un poeta della fine degli anni Ottanta e degli anni Novanta. Difatti – tranne che con Milo, per via dell’antichissima amicizia risalente ai tempi di Mieli – anche sul piano del rapporto interpersonale mi sento maggiormente legato a poeti più giovani, coi quali ho collezionato esperienze comuni.

[…]

Possiamo procedere inoculando nel discorso alcuni concetti più astratti, che certamente ricondurrai alla concretezza dei fatti. Partiamo dal concetto di ‘responsabilità’ perché discende da quello che mi stavi dicendo. Responsabilità per quanto riguarda la scrittura, la tradizione, l’impegno. Ci sono figure in campo letterario, filosofico o del diritto civile che per te rappresentano dei modelli di responsabilità – in accordo col significato che attribuisci a questo termine?

Non sono uomo da un solo maestro, ne ho avuti diversi nelle varie branche in cui ho operato. I primi furono Carlo Bo e Claudio Gorlier in Bocconi. Quindi Emilio Mattioli e Allen Mandelbaum. Mattioli a sua volta era il primo allievo di Anceschi e contribuì a rinvigorire la mia discendenza anceschiana in campo estetico. ‘Rinvigorire’ perché Anceschi
lo avevo frequentato a Milano negli anni Settanta con Antonio Porta, quando «il verri» riprese le pubblicazioni. Ma fusolo attraverso Mattioli che potei recuperare in toto il pensiero anceschiano. Poi Agostino Lombardo, il traduttore di (quasi) tutto Shakespeare, che mi fu molto vicino quando vinsi l’ordinariato a Cassino e vi impiantai ex novo un Dipartimento di linguistica e letterature comparate.

E in ambito poetico?

In primis Vittorio Sereni, col quale purtroppo ebbi pochi contatti diretti, perché morì giovane, ma alla cui immagine e al cui carisma mi sento tuttora legato. Come scrivo nelle poesie a lui dedicate – Di quando la giornata è un po’ stanca, Vittorio Sereni e Vittorio Sereni ballava benissimo – riconoscevo mio padre in Sereni, e Sereni in mio padre. Entrambi ufficiali dell’esercito italiano, coetanei (Sereni nato nel ’13, mio padre nel ’14, Sereni morto nell’83, mio padre nell’80), entrambi prigionieri dal ’43 al ’45. E molto simili nel modo di fare e nel modo di porsi, autorevoli e anche un po’ autoritari. Contatti diretti per molti decenni li ebbi invece con Luciano Erba e Nelo Risi. Soprattutto Risi è stato per me un maestro di etica: abitavamo vicini a Roma, e lo andavo a trovare a via di Capo le Case, poi negli ultimi anni a via del Babuino,nella casa della ex moglie Edith Bruck. L’asciuttezza morale e l’estremo rigore ateo del medico Nelo Risi mi hanno insegnato molto, più di quanto non mi abbia insegnato il cattolicesimo pessimistico di impianto francese di Luciano Erba, al quale tuttavia mi legava una profonda simpatia umana. Ti faccio un esempio: quando diedi a Erba il testo della Suora carmelitana, glielo diedi espurgato dei due versi relativi al fistfucking, perché ero convinto che lo avrebbero ferito. Ne ebbi conferma pochi mesi dopo, quando a Mario Luzi diedi il testo integrale, ed egli mi rispose (tornando a darmi del lei) che quel poemetto, per via di quei due versi, era écoeurant,
disgustoso, aggiungendo: “Credo che questo fosse proprio l’obiettivo che lei si era prefisso. Quindi: bravo”. La lettera autografa di Luzi sta con tutto il mio epistolario al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia. Mentre quando feci leggere il testo integrale a Giovanni Giudici (col quale ci fu un intensissimo rapporto nell’ultimo decennio della sua vita cosciente), e gli chiesi consiglio sull’opportunità di espungere quei due versi, mi rispose: “Invece li devi lasciare. Se tu li togliessi verrebbe a mancare una colonna portante del senso complessivo del lavoro”.

Ma su tutti spicca il più giovane Raboni, o sbaglio?

Giovanni, in una parola, fu il mio mentore: mi inventò come poeta e mi inventò come traduttore: io esco da una sua costola. Mi pubblica, quando sono assolutamente inedito, nel ’78: «Paragone» e poi il Quaderno collettivo di Guanda. Malgrado quell’esordio, resto un appartato. Ed è proprio ciò che Raboni fa notare nella prefazione a I tre desideri. Nonostante i riconoscimenti, ancora non ero entrato nel meccanismo. Ci entrai solo nell’86, quando finalmente divenni padrone del mio tempo. Ma nell’81 Raboni mi aveva posto la domanda essenziale: “Perché non traduci tutti i poeti romantici inglesi?” Già mi aveva fatto tradurre Keats per Guanda. In precedenza non avevo mai pensato di applicarmi seriamente alla traduzione di poesia. I due esordi – come poeta e come traduttore di poesia – sono cronologicamente vicini e, quel che più conta, furono mossi dalla stessa volontà e per la stessa collana: la Fenice di Guanda. Credo proprio di essere stato trattato bene dal destino. Quindi non è paragonabile quello che ricevetti da Raboni, rispetto a quanto ricevetti da altri maestri. Coi quali – e penso a Giudici, a Fortini – forse poi c’è stato più scambio… Perché Raboni dall’83-84, quando una nuova compagna entrò nella sua esistenza, non fu più lo stesso. Né con me né con gli altri – come Vivian Lamarque – che in precedenza erano stati suoi discepoli. Non potette più avere un rapporto normale con noi; tutto divenne filtrato, quasi clandestino. Quando lo si incontrava in circostanze pubbliche, Giovanni era praticamente inavvicinabile: nulla poteva permettersi se non un cenno di saluto. A meno che non si trattasse di un giovane poeta temporaneamente nelle umorali grazie della nuova compagna. Ricordo però un giorno nei primi anni Novanta, quando insieme a Raboni venni invitato da Silvio Ramat a leggere a Padova al Petrocchi. Ci incontrammo sul treno coi posti prenotati vicini. In quelle tre ore di viaggio ritrovai dopo anni il Raboni di sempre. E fu simpaticissimo, chiacchierammo con amicizia, semplicità, scioltezza. Poi leggemmo assieme e fu anche molto generoso nell’elogiare pubblicamente la mia poesia. Credo ci sia la registrazione. In seguito non ebbi più occasione di incontrarlo da solo. Ci furono solo occorrenze epistolari, evidentemente sfuggite al controllo. L’ultima sua lettera è del 12 marzo 2004. Raboni aveva allora settantadue anni e parla di Guerra – che sarebbe poi uscita nello Specchio alla fine del 2005 – come di un libro già pronto (anche questa lettera è custodita a Pavia). Allora dirigeva la collana di Marsilio, e tra le altre cose mi chiede: dove intendi pubblicare questo libro così compatto e forte? Non ebbi la possibilità di rispondere perché mi giunse la notizia dell’ictus che nel volgere di pochi mesi lo portò alla morte.

E con Fortini?

C’è stata molta vicinanza nella seconda metà degli anni Ottanta e nei primi Novanta. Ricordo che lo andavo a trovare a piedi, nella sua casa vicino all’Arena, perché per quattro anni ebbi anche un contratto all’Università di lingue e comunicazione Iulm di Milano, ancora nella vecchia sede all’Arco della Pace. Qualche volta faceva lui la passeggiata,
ascoltava la mia lezione di letteratura inglese, poi la commentava al bar ritrovando a tratti anche la sua antica energia polemica. Infine lo riaccompagnavo a casa. Tutto questo avveniva dopo il convegno di Bergamo sulla Traduzione del testo poetico. Fu un rapporto stupendo, molto generoso da parte sua, che credo di dovere un po’ all’ingiustizia da lui messa in atto nei confronti di Pasolini. Mi son fatto questa convinzione. Che l’affetto e l’amicizia per me, così immediati e così gratuiti, fossero una sorta di compensazione. Essendo egli stato ingiusto ai tempi con un omosessuale in quanto omosessuale, ed essendo questi scomparso tanto precocemente, non potendo quindi più egli ‘rimediare’ (Fortini era fatto così), fu con me generosissimo, quasi a compensare le parole cattive di tre decenni prima. Anche le sue lettere sono custodite a Pavia.

[…]

Ti chiedevo anche dell’ambito filosofico e del diritto civile…

Norberto Bobbio è il primo nome che mi sento di fare. Ricordo che a Torino andavo sempre ad ascoltare le sue prolusioni a scienze politiche, disertando Vattimo – che pure era il preside a lettere – col quale non mi sono mai inteso, malgrado la comune militanza gay: troppe capricciosità marxistiche in un pensiero fondamentalmente ancora nostalgico delle proprie radici cattoliche. Di Raymond Aron ho già detto, e lo ribadisco: è stato fondamentale. Come Ayer in Inghilterra. Sto parlando di persone che ho conosciuto, non di filosofi del passato. Quindi non sono molti. Anche perché coi filosofi, in Italia, se togli i cattolici e togli i marxisti il panorama non è vasto… Sono ancora amico di Giorello: recentemente abbiamo tenuto a due voci una conferenza shakespeariana e il pubblico si è anche molto divertito.

Coi poeti le interferenze ideologiche contano meno?

Più preponderante è il dato estetico, ma contano… Giudici per esempio aveva certe striature cattoliche da paura… poi era sibillino, luciferino in alcune manifestazioni. Una volta mi disse: “sai, in realtà credo di essere ebreo, i miei bisnonni facevano Giudice di cognome, poi per vivere tranquilli cambiarono la vocale finale, si mimetizzarono”. L’unico che aveva davvero superato il moloch abramitico, a parte Nelo Risi, era Zanzotto. In alcune lettere lo chiamo ‘Zanzy’. Per me è stato un modello altissimo. Lo conobbi quando volle assegnare il premio San Vito al Tagliamento per l’inedito a Nella casa riaperta. Era il ’94: poi, piano piano, quel libro divenne Il profilo del Rosa. Non ho potuto frequentarlo molto, ci si scriveva: una sua lettera l’ho anche pubblicata nel volume Con il testo a fronte (Interlinea 2007, 2ed. 2016): parla in modo zanzottianamente finto-ingenuo delle questioni attinenti la pubblicazione di un testo poetico senza il testo originale a fronte. Ho delle belle foto con lui scattate in circostanze estive, ma non volle entrare nel comitato scientifico di «Testo a fronte»: era ritroso in queste cose. Però mi interpellava con domande e istanze di ordine traduttologico. Lo corteggiai affinché – come Nelo Risi e Luciano Erba – accettasse di pubblicare nella collana I Testi di Testo a fronte il suo quaderno di traduzioni. Niente da fare. Non riuscii a convincerlo. Non lo diede a me né a nessun altro. Eppure le traduzioni le aveva, eccome se le aveva! In senso etico-filosofico è lui il poeta italiano che ho maggiormente ammirato. Zanzotto, secondo me, è stato il più intelligente intellettuale italiano del Novecento. Se mi chiedi: ma l’hai amato? Be’, ho amato di più Caproni. Sto parlando di poeti che però non ho frequentato a lungo. Con Caproni, pure, ci fu uno scambio epistolare, e gli incontri, lo confesso, furono deludenti. Quando lo contattai per il convegno di Bergamo dell’88, trovò il modo di dirmi che sì aveva tradotto Genet, ma per opposizione, non era certo omosessuale, lui! Poi però una sua insuperabile versione da Apollinaire la misi in copertina su «Testo a fronte».

Dicevi di Zanzotto…

Credo che la sua intelligenza estetico-filosofica si staglierà con vigore sempre maggiore nel nostro Novecento. Gli altri poeti che ho amato per certi aspetti mi deludono: Raboni stesso, con quel suo insistito ritorno finale al cattolicesimo… per non dire della sua posizione riduttiva su Leopardi. Ma al rapporto con Manzoni e Leopardi da parte di Raboni e Fortini ho dedicato un intero capitolo di Più luce, padre. Invece Zanzotto rimane lucidamente ateo sino alla fine. Non è il poeta che amo, ma lo ammiro follemente. Doveva essere lui il nostro candidato al Nobel, non Luzi, del quale comunque amo la musicalità, soprattutto nel primo Luzi: credo che il suo enjambement sia superiore persino a quello di Montale.

[…]

Mi ha incuriosito quanto prima dicevi della tua esperienza politica alla Comunità europea.

Politica culturale, beninteso. L’atmosfera negli anni Novanta era quella di un elegante club; la sera ci si ritrovava all’hotel Métropole nel centro di Bruxelles, dove – come per altro negli uffici e nelle commissioni al mattino – la lingua veicolare era il francese. Poi, col programma Cultura 2000, vidi la situazione mutare radicalmente: il passaggio all’Europa a ventotto provocò la disgregazione di quella vecchia piccola comunità che parlava (bene) francese. Come entrarono i paesi dell’est, tutti dovettero parlare (male) inglese, un inglese rarefatto e standardizzato. Il mondo che avevo conosciuto negli anni della formazione non era valicabile da Danzica a Trieste. Ciò che stava al di là della cortina di ferro era prigione, becera ideologia soggiogante. Poi magari ti racconterò del mio viaggio nella DDR nel ’73 e di quello in Ungheria nell’86. La Germania divisa non era arrogante ed era bello vedere la Repubblica federale tedesca diventare un vero stato costituzionale di diritto. Poi c’erano gli Stati Uniti d’America e il Canada. Non c’era altro. La Cina era un’entità astratta.

E oggi?

Oggi è cambiata la conformazione geo-politica. Non dico che siano andati in crisi i miei convincimenti, però parlare di stato di diritto e pensare alla Cina a l’è düra, per dirla in milanese. E gli stati africani? L’India è uno stato di diritto? E la Russia? La Turchia? E poi il mondo islamico in generale, col quale pure ho avuto contatti assidui per un decennio. Ho avuto persino casa in Maghreb e sono stato visiting professor in Arabia Saudita, Marocco, Palestina, oltre che in Israele. È un mondo che mi ha molto interessato, che mi ha attratto. Oggi però, dopo aver scritto Zamel, non desidero più frequentarlo… Sarà che non potrei più fare quello che facevo vent’anni fa… Se penso ai veri motivi che mi spingevano in quei paesi: non rinnego nulla, per carità! Sono contento di essere stato Lawrence d’Arabia a
modo mio… Oggi mi rilassa molto pensare che non ci devo più tornare. Iraq, Iran, Siria, Arabia Saudita, il Maghreb, l’Egitto… mi fanno venire i brividi, mi sento persino a disagio a parlarne. Se penso a quanti giovani vorrebbero davvero costruire moderne democrazie in quei paesi e non ci riescono e sono perseguitati. Quindi mi sento debole, impotente di fronte all’universo globo. Il mondo in cui mi mossi per qualche decennio (Europa occidentale, Stati Uniti, Maghreb) era più risolto, più chiaro. Era il solo mondo allora percorribile. A quei tempi conoscere le vecchie lingue coloniali significava conoscere le lingue tout court. Ero disinvolto. Oggi percepisco tale vantaggio come miserrimo: oggi per un giovane europeo conoscere inglese, francese, tedesco e spagnolo è la normalità. Si comincia a prendere sul serio chi conosce anche l’arabo, il cinese, il giapponese o almeno il russo. Siamo entrati in un’altra dimensione: come potrei dare consigli?

[…]

La primavera ancora non cede il passo all’estate, mentre inevitabilmente il nostro dialogo si avvia a percorrere i territori della poesia, sostanza tangibile – lo abbiamo visto – anche della prosa e della riflessione civile di Franco Buffoni. Cosa significa per te ‘fare poesia’?

Potrei banalmente rispondere: è la mia vita. Perché ho sempre fatto poesia, anche quando apparentemente mi occupavo d’altro: uno stage di archeologia o lo studio della filosofia estetica. Cronologicamente, ho distrutto le poesie scritte nell’adolescenza, salvandone una sola, inedita, oggi custodita al Centro Manoscritti dell’Università di Pavia.
Poi c’è una seconda fase, intorno ai ventiventidue anni, risalente al periodo del Gruppo di viale Col di Lana: ci scambiavamo i testi, ce li leggevamo a vicenda, quindi non posso escludere che qualcosa sia rimasto in giro. Di mia volontà ho tenuto un solo testo,una prosa poetica – G – a cui Milo era molto affezionato, e che oggi si trova, inedito, a Pavia. La terza fase ha inizio nel ’75, successivamente alla scrittura in prosa di Reperto 74.
In quel periodo scrissi anche dei racconti racconti che non ho mai pubblicato, ma che ho tenuto e sono a Pavia. Li essero sicuramente Milo (che ancora se ne ricorda) e Mario Mieli, che li chiosava sapidamente. A differenza di G. – che oggi verrebbe definita una poesia in prosa e potrebbe rientrare nelle scritture del gruppo GAMMM (insomma
non si inventa mai niente) – gli altri sono racconti tradizionali nella forma. Ma il contenuto per allora era all’avanguardia. Così scattò la stessa autocensura che mi indusse a non pubblicare Reperto 74.

Reperto 74 però nel 2007 lo pubblicasti e questi racconti no.

È vero. E forse sbagliai nuovamente. In futuro si potrebbe pensare a un unico libro giovanile con Reperto 74, quei dieci racconti inediti, G e la poesia superstite dell’adolescenza.

Quindi è dal 1975, come fedelmente registra l’intitolazione del tuo Oscar (Poesie 1975-2012), che inizia la tua produzione poetica ‘adulta’…

Sì, solo a partire da quell’anno riprendo a scrivere poesia in modo continuativo e consapevole. Anche se nella mia esistenza la poesia costituì sempre quello che in filologia chiamiamo il sostrato: agli studi, alla ricerca, alla scrittura saggistica, alla traduzione. Permettendomi di acquisire consapevolezze che andavano ben oltre il narcisistico desiderio di veder pubblicate le prime poesie. Contemporaneamente studiavo anche francese e tedesco, frequentavo il corso di cinematografia di Morando Morandini e Sergio Raffaelli all’Aloisianum, con tesi su Buñuel il primo anno e su Bergman il secondo; i corsi di storia dell’arte a Brera; gli stage di archeologia… L’archeologia è stata decisiva per la mia maturazione poetica: lo scavo, i millenni, il concetto di tempo profondo, le incisioni
rupestri… Uno di quei natali degli anni Settanta, Milo mi regalò una copia del Kamasutra (oggi pure a Pavia) con una dedica che recita: “a Franco poeta estroso, prelibato amatore, pugnace tennista, guardingo archeologo…” La mia vita era quella di un ventenne effervescente, curioso di tutto, come ripeteva sempre Jucci. Ero portato per le materie scientifiche, dalla microbiologia all’astrofisica, volevo imparare tutto, capire tutto… Ma se penso al modo in cui approcciavo l’archeologia (e di scavi ne feci diversi, in particolare nella zona di Castelseprio) e soprattutto a come conducevo la ricerca sulle incisioni rupestri, trovo una radice sicura di quella che poi diventerà la mia poetica.
Avevo notevole forza fisica e capacità di resistenza… Poi crollavo e dormivo anche ventiquattr’ore di seguito… Non sentivo la stanchezza… Quello che avevo dentro era poesia. Adesso capisco bene perché, malgrado tutto, Jucci non riuscì mai a lasciarmi. Il mio rapporto col mondo era in sé poetico, e questo mi aiutò a superare le pastoie dell’educazione cattolica e la mentalità piccoloborghese della famiglia d’origine. Intanto andava formandosi anche una coscienza filosofica profonda, grazie agli studi ‘inglesi’. Ecco quindi che il mio poiein, a partire dalla seconda metà degli anni Settanta – apparentemente in ritardo rispetto a quello dei coetanei – in realtà fu una lunga rincorsa
nutritasi selvaggiamente di tutto, e dai benefici effetti. Mi dà ancora una spinta creativa genuina, sento di non avere il fiato corto nella scrittura poetica. Ciò che seminai in quel decennio dei vent’anni ha radici talmente profonde da riuscire a produrre frutti ancora oggi. E Jucci era al centro di tutte queste cose, perché lei era la poesia in tedesco, era i classici latini, era il rigore nell’apprendere le filologie… era il rigore fatto persona: i corsi di cinematografia li frequentammo assieme. Con lei iniziai la ricerca. Lei fu la mia vera università.

[…]

E sul ruolo sociale della poesia…

Tutti conoscono i nomi dei cantautori, mentre va accentuandosi l’abbandono a se stessi dei poeti e della poesia come genere letterario. Resiste uno zoccolo duro di poeti anche giovani, e a volte ti domandi quale sia la ragione: non c’è remunerazione, eppure li vedi accaniti. Come se il poeta avesse ancora un ruolo sociale. Però si vergognano con il portinaio se arriva un plico indirizzato al poeta. Tutto questo è paradossale. In Germania il Dichter è ancora una figura importante; in Francia è come in Italia: il termine per un vivente è quasi disdicevole. Negli Stati Uniti ci sono nicchie e circoli, niente di pubblico. Ormai la questione si risolve su internet: uno può stare a Tokyo a Parigi o a Chicago, le persone si incontrano virtualmente e mandano avanti riviste online e piattaforme.

Dunque la poesia ha perso completamente il suo ruolo sociale?

Ha un ruolo marginale, di nicchia. In questa nicchia però trovi alcune persone attente, per le quali vale la pena di continuare a lavorare. A me capita sovente, quando leggo in giro, che il poetino arrivi con la fidanzata, o la ragazza che scrive poesie e ha letto il tuo libro venga con il ragazzo. E capita che questo ragazzo – che magari fa il geometra – alla fine ti dica: “Ma sa che mi è piaciuto!” E te lo dicono col tono sorpreso: si aspettavano una serata noiosissima, erano lì solamente per compiacere il partner o la partner. Per questo penso di essere danneggiato dal disdoro, dalla cattiva fama, dalla noia mortale che si porta dietro il termine poesia. La mia poesia non è affatto noiosa. Come l’agganci, non può lasciarti indifferente. Qualcuno della mia categoria deve aver ammazzato il
desiderio di ascoltare poesia o di leggerla.

[…]

La linea del cielo?

Uscirà nel 2018 da Garzanti, e avrà al centro una riflessione sulla mia genealogia ‘tematica’, che è più appenninica che lombarda, o meglio, è giuliano-friulana con Saba e il primo Pasolini, poi bolognese, quindi passa per la Perugia di Penna per giungere alla Roma di Bertolucci e Bellezza. Con sintesi efferata potrei forse schematizzare in questo
modo: Saba-Pasolini-Penna-Bertolucci-Bellezza vs Sereni-Erba-Risi-Giudici-Raboni. Tentando però una conciliazione, grazie alla già citata definizione anceschiana di poetica. Perché se le mie moralità e i miei ideali si trovano maggiormente a proprio agio nella linea appenninica, i miei sistemi tecnici e le mie norme operative, la mia officina, insomma, rimane saldamente legata a “quella faccenda di laghi e di discorsi in un gran parco verdissimo” che è la poesia in re, prosciugata e scabra, dei miei maestri lombardi, Sereni in primis. Non a caso, forse, anche logisticamente, oggi io sono un lombardo che vive a Roma. E questo nuovo libro costituirà un organico tentativo di convogliare le poesie ‘lombarde’ e le poesie ‘romane’ su un unico binario, che potrei definire di una personale
linea ‘lombardo-appenninica’, secondo un criterio etico – le mie moralità, i miei ideali – e secondo un criterio di confezione testuale: i miei sistemi tecnici, le mie norme operative.

La Lombardia dei ricordi e la Roma dei pensieri…

Come se dal Buffoni lombardo di una “giovinezza che non trova scampo” in dialogo col Buffoni romano fuoruscisse un poeta che non miscela ma fonde, cercando di evitare il rischio di pensarla in modo diverso sullo stesso argomento, a seconda che ne scriva da Roma o da Milano.

‘Egli’ a Roma, ‘lui’ a Milano: un po’ come la barista cinese della poesia Confucio con Maometto a San Lorenzo (“Folse se dice egli se lui è gay”), che ho già letto da qualche parte.

E forse come la sintesi della lettera di Sereni a Pasolini del 27 gennaio 1954 sul poemetto Canto popolare, poi entrato nelle Ceneri di Gramsci: “… oltre al tuo solito coraggio, c’è anche quello, non so quanto raro in te ma abbastanza raro al di sopra di un certo livello, di correre il rischio di fare dei versi brutti pur di dire una certa cosa che preme e che se non fosse detta toglierebbe buona parte del significato ai versi più belli”.

Perché La linea del cielo?

Sarebbe lo skyline: dalle guglie alle cupole.

[…]

Il lavoro del traduttore è ben altro rispetto a un semplice esercizio sulla lingua; il movimento della traduzione necessita di un respiro che parte dall’ispirazione e arriva a una serie di interrelazioni sociali, culturali, ideali, persino politiche… E tu sei andato oltre lo specchio perché – partendo dalla traduzione dalla lingua straniera verso l’italiano – in questo caso hai sperimentato la necessità di portare l’italiano verso un altro sistema linguistico. Credo che questa operazione richieda uno sforzo ulteriore, supplementare…

Uno sforzo supplementare che ogni volta deve rinnovarsi, non è mai definitivo. Alle tue riflessioni fa da denominatore comune il concetto di ritmo, che include tutte le metriche. Perché la metrica è un fatto storico, cambia di lingua in lingua, di epoca in epoca; vi sono metri che decadono, nuovi metri che sorgono… Io stesso sono un poeta di lingua romanza che principalmente traduce dal latino e dall’inglese, quindi riverso in una lingua abitata da secoli da metriche quantitative, dei testi scritti secondo criteri metrici accentuativi. Già questo comporta sforzi supplementari. Le metriche sono un fatto storico, come già scriveva Beda il Venerabile: “Il ritmo può sussistere di per sé, senza metro; mentre il metro non può sussistere senza ritmo. Il metro è un canto costretto da una certa ragione; il ritmo un canto senza misure razionali”. Una distinzione che ritroviamo modernamente espressa nel Traité du rythme di Meschonnic e Dessons: “Il ritmo non è formalista, nel senso che non è una forma vuota, un insieme schematico che si tratterebbe di mostrare o no, secondo l’umore. Il ritmo di un testo ne è l’elemento fondamentale, perché ritmo è operare la sintesi della sintassi, della prosodia e dei diversi movimenti enunciativi del testo”. Con i ‘poeti’ – ricorrendo al termine in senso anceschiano, molto ampio: meglio sarebbe scrivere ‘con gli artisti’ – ciò che conta del ritmo è il momento in cui esso si fa parola, cioè diventa linguaggio, e dunque si realizza attraverso una particolare intonazione. In quanto il ritmo è soggetto, se un poeta trova il ritmo, trova il soggetto; se non lo trova, i versi che sta scrivendo non sono arte. Il ritmo è dunque questo respiro interno alla scrittura, che ingloba tutte le metriche. Perché le metriche possono mutare, fondamentalmente sono legate alla moda, nel senso leopardiano del termine. Mentre il ritmo è ancestrale: è quel respiro che viene dal battito del cuore materno assorbito durante la gestazione. Così si impara poi a parlare.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).