A.A.A.

da | Ott 12, 2017

Tre poesie inedite.

Come se questa angoscia, questa impazienza di fondo
trascinato da un ramo all’altro del giardino,
sempre in convulsa attesa, e quindi moto, o in bilico:
da un lato le unghie dei piedi, dall’altro, di là,
una calma più sincera, fosse l’esito di una contraddizione
permanente, e attenda, si fermi, posi
solo se scende quella che – obbligatoriamente,
dobbiamo chiamare notte, e io
parlandoti di incastri e rispondenze
in una postura non mia, ma che vorrei,
in quanto rende così sicuri adulti arrivati,
mi sento obbligato, capisco che è una colpa,
la pena giusta da scontare oggi, se ancora
si è in grado di rischiarsi in una maniera più vera
più integra di quella a cui rispondiamo.
Di là le foglie così dense (e vorrei dire gialle)
che prima vorticavano come mosse da una nuova luce
e che adesso sono spente, una luce al neon
a accensioni intermittenti, di quelle a fine vita,
pronte allo spegnimento; e in questo vortice
che non ha aggettivi né specificazioni,
in una nudità solo oggi possibile,
trovare una stasi, un riposo
e poi chiamarla quiete, come tutti,
può significare soltanto fermarsi, arrendersi,
in questo punto impercettibile che rimane,
su questo cornicione – angolo stondato, imperfetto
a cui tocca aggrapparsi.

*

I piloni altissimi, incombenti, strati
di cemento e blocchi, uno sopra l’altro,
a costruire strutture ruvide, inattaccabili
e le faglie che si aprono sono memorie
sono solchi nella pelle, quando
non c’era più niente da fare e dall’alto
li vedevi che precipitavano “Fermatevi
un momento, aspettatemi, vi prego” e loro
non aspettavano, non potevano.

Eccoli per terra che ti guardano,
così gli anni passano lenti
sono scorati come i volti, nodosi:
la moglie che ti caccia di casa, esausta
i vicini stizziti, l’arancio, l’arancio
in ogni spostamento e la vertigine
purissima.

Sopra c’è tutta una velocità diversa,
c’è un trangugiare i chilometri. Si sentono
esplosioni, camion pesantissimi,
e anche quando si capisce i perché
(eccola la ragione, eccolo il suo sgranocchiare)
non per questo non c’è napalm e baratri
profondi: c’è quiete, ma è indifferenza,
e anche il fiume, l’oltrefiume, la lora
sono sommersi, si abbandonano al flusso.

Guardaci qua sotto, guarda noi
che non ti vediamo tanto sei alto,
consegnaci qualche parola, abbi pietà
se ridiamo; non vogliamo recarti dolore,
un segno, un gesto è abbastanza, poi
ce ne andiamo, lo prometto, perdonaci.

*

A.A.A.

L’uomo di città non è
è facile per lui la vita, esiste
nel mutismo, nella frenesia, nel numero
ma esiste: se la grande macchina
lo ricorda e lo inserisce negli indici
nelle statistiche, un segno
gli è concesso, un grafema: c’è
una pietà, anche crudele, inumana, c’è

ma pensa

alla distanza, alla neve, ai pini
bassi oltre le capannelle, la radura
che si alza: là, davvero
l’esistenza ha una forma che non muta,
è tenue e sottile: non si sa,
si sopravvive, e guarda – li puoi vedere –
come sanno aspettare,
e non si lamentano se non per abitudine
eppure non vivono, non vivranno
negli ordini, nelle anagrafi, nei libelli
di chi costruisce case, non M.A.P., case
in mattoni e cemento, embrici, case
sotto le gru, le otto gru
che disegnano la città, storici
ripescamenti, grida dal passato,
novantanove cannelle.

Eccoli i più vecchi, rinchiusi
in strutture che sono scheletri, colonne, bastimenti
o lo sono diventate
quando la terra ne ha reso
tutta la consapevolezza, tutta insieme,
quasi un’offesa ai padri, alle famiglie
e la neve era il cancello insormontabile, la gabbia
pesante, come solo la neve sa essere:

Eppure i pini hanno una colpa
per il loro resistere e il loro insistere
tutte le mattine, anche le più dure
e la speranza è subdola
se ritorna ogni volta, invernoestate
come niente fosse, incurante:
le pigne in terra, il latte alle mammelle, le stagioni
a decidere gli anni, le stagioni…
sono immobili, intatte, esistono
perché ci sono: il tempo
divenuto oggettivo, le schermaglie
l’unica ragione di esistere, la vita
un prisma regolare, precisissimo, inalterato:
anche gli scoiattoli
hanno dimenticato come fare,
non sgranocchiano per non rompersi i denti.

Ma questi gesti hanno una forza
e memorie, non hanno scritta
né numero, eppure la terra, questa terra
con tutto il suo ammontare di frane e faglie
e muretti, piani scomparsi, fratture, deserti
è fatta di loro e loro non sono che lei
e se ci è concesso un indizio, una traccia
ecco, perenne, nelle ossa,
gli antenati, la neve: i vecchi parlano.

E se i pini ci ingannano,
se l’esercito non è che una toppa,
un affronto, come le case di legno
a qualcosa dobbiamo pur aggrapparci
se non vogliamo disperderci:

……………………..è questo il suo ruolo
là, sfrontato sicuro sull’ultima altura, ci guarda
ma forse si cura, persiste, riposa
il campanile appena fraterno
quanto basta
rivolto alla neve, forse
ci salva.

Immagine: Elliott Erwitt, Sequentially Yours, 1975.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).