Non ha tetto la mia casa

da | Gen 10, 2017

DISFARSI di tutto
anche del sacco tiepido
ancora di abbracci
e solo come l’erba stare,
protendersi verso il sole
il dolce castigo d’acque.

In un mattino d’agosto
ci svegliarono aghi
negli occhi i raggi,
avevamo dormito sugli scogli
come il muschio lì abbarbicato
come tanti secoli in alcova.
A bracciate punta Ristola
a piedi la cima raggiunsi,
al colmo della gioia
per una conquista che non si saprà.
Nei tuoi occhi brillavo sirena
ma quel che contava era altro:
disfarsi anche di questa sembianza,
entrare nel palpito d’attorno.

*

TRANSITANO migrano i pipistrelli
mi chiami rapendomi da un pensiero
togliti le scarpe avvicinati guarda il cielo
è una tavola blu con scure lanterne d’ali
centri di periferiche tracce ancora il tarlo
l’erba è fresca toccala e sì mi rapisci
ma dura il tempo tra fiato e fiato
infissa punta di compasso
centro periferica colpa d’altrove,
più dei freni dei treni assorda
lo strazio di questi pipistrelli,
si riversa inchiostro lì in alto
e più oscuro è discernere volo
da vento, più chiaro dissolvere.

*

AVREI voluto sbucciarmi le ginocchia più volte
rotolare nel fango senza lo strascico di voci
così ti sporcherai i pantaloni, fai la brava
sostare ad ascoltare i versi dell’uccello sul ramo
non dover prestare invece ascolto alla campanella
avrei voluto correre assieme ai cavalli
sotto la pioggia fine come i loro crini
impomatati di fiabe e boschi di giacinti
avrei voluto mostrarmi ribelle e chiassosa
andarmene via dal recinto leggera
rispondere con qualche improperio
alla ruffiana del paese che tutto vuole sapere
estorcendolo a due occhi piccini e una bocca
con una finestra rosso porpora spalancata
avrei voluto dormire su qualche amaca
e ricambiare i vellutati sguardi della luna
costruire una sedia uno scaffale un tavolo
da dipingere di blu con un gran pennello
avrei voluto non essere educata da bambina adulta
pronta a sbrodolarti tabelline capitali e formule
avrei voluto essere scoglio assieme allo scoglio
nuotare per interminabili ore nello smeraldo
seguendo la danza del banco di pesci
ma
l’infanzia comincia quando meno l’aspetti
e sono qui come dopo un’immersione
stanca ma coi polmoni pieni di mare
daccapo bambina daccapo sogno.

*

LE MADRI bussano alla porta di notte
sempre quando non sappiamo
che darle, come accoglierle.
Perché siamo così impreparati?
Quello che ci hanno insegnato
sul ricevere ospiti inaspettati
adesso non serve affatto,
offrirle un bicchiere d’acqua
un pasto caldo un letto
non è mica questo ciò che attendono
quelle camminatrici indefesse.

Le madri quando bussano
vogliono che le stringa le mani
sapere se tornerai alla terra
se potranno gioire il ritorno
imbandire la tavola più bella
tendere al sole i panni della danza
l’allegria del ricongiungimento.
Le madri bussano alla porta di notte
e se anche vanno via affrante
perché il ritorno è stato rinviato
loro non vanno mai via davvero,
restano proprio come quelle liane
ormai fuse ai tronchi d’albero
per attraversare i fiumi in piena.

*

CAMMINO lungo strade acciottolate
avvolta in divagazioni ordinarie,
mi appari lì sul cornicione del cielo
arrampicato come stella sul punto di cadere,
il volto evanescente trema e urla
oscilli come gli alberi alti
al primo vento d’inverno.

Per molti sei solo un povero pazzo
una parentesi d’urlo tra gli acquisti
l’aperitivo lo sguardo allo smartphone,
qualche curioso attende sapere
se scriverai un punto sul selciato.

A me invece appari emergere
da un tempo mitico rimosso
a te stesso del tutto ignoto:
come quei voladores messicani
svettano a venti metri dal suolo
su un palo di legno chiedendo pioggia,
questa sera predisponi il tuo rituale
elevando la tua petizione di dignità.

*

LA SUA CASA è calda accogliente
piena di modesti tappeti
il portone dipinto di mare
la scala a chiocciola ocra
dal balcone s’intravede
la deserta libreria di quartiere
e in cucina c’è del makdous.
Tutto è sobrio e sa di pace.

Sulla lavagna qualche parola araba
della lezione appena conclusa
spiegazioni con caotici segni
parti appena cancellate
il foglio stropicciato e rotto,
così è la Siria, mi dice
incrociando grave il mio sguardo,
un cumulo rosso nero e grigio
qualche insegna in arabo
ad indicare strade che non esistono più
tende stropicciate tra mobili a pezzi
e tazze di tè con zolle di calcinacci
mani mozzate a non sostenerle.

*

LA MADRE con cui raccolgo asparagi
il caffè con zenzero dal balcone del mondo
della raccoglitrice di storie di bottoni
la guardiana dell’atelier di poesia
e il vestito guatemalteco dimenticato
la nonna con cui spacco le fave
la matrice della gatta assonnata
che si gonfia come zampogna
l’antropologa giunta in Etiopia
per recuperare una varietà locale
la bisnonna della prima focaccia
ammassata con fini mani
la madre dell’amico chitarrista
ad offrirmi un pezzo di strudel
l’amica che si racconta in lis
e ha della rugiada negli occhi
la crocchia della nonna elvetica
scomparsa nell’ora in cui ero a Dresda
nel cimitero ritratto da Friedrich
l’indigena dai capelli di corvo
e un figlio appeso al suo seno.

Quante vite ho ricevuto in dono,
siete tutte nel grembo degli occhi
e vi inanello come chaquiras*
tra le abili mani della donna
che dopo il rituale del yagé
inizia a tessere la sua visione.

(*) Perle di vetro o altri materiali con cui si confeziona artigianato indigeno. Nelle culture native sono connesse a momenti rituali come l’assunzione del yagé. Sono una preziosa fonte testuale carica di un significato mitico-cosmologico profondo.

Immagine: Camera delle meraviglie, Palermo.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).