2 (V + I + Te) → 2 VITe

da | Feb 6, 2024 | Melotecnica, Non Fiction

(vanadio, iodio, tellurio)

La configurazione elettronica della memoria

«Perché le età della vita non si succedono, si accavallano»

Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza, 2020

«Siamo un libro sul pavimento, in una casa vuota che sembra la nostra»

Marco Mengoni, Due vite, Sony Music, 2023

 

Ogni anno, qualsiasi cosa stia accadendo nella mia vita, qualsiasi sia il mio stato emotivo o fisico, la stanchezza che mi porto dietro o i pensieri che mi opprimono, io guardo il Festival di Sanremo: seguo tutte le serate, per intero, ascolto le canzoni, non cambio canale se c’è qualcosa che mi imbarazza, guardo le conferenze stampa, mi informo sullo share, leggo gli articoli, scelgo qualcuno per cui tifare, scommetto alla Snai, voto. Ogni anno, qualsiasi siano i cantanti in gara, il conduttore scelto, gli ospiti, le polemiche, gli sponsor, gli scivoloni, io non trasgredisco: osservo, discuto, mi accendo, ci sono. Eppure non ho una particolare passione per i fenomeni di costume o per la musica popolare, non credo che quelle cinque serate di febbraio davanti alla tv mi aiutino a entrare in connessione con qualcosa del paese che non conosco, non sento la necessità di partecipare a un grande rito collettivo e comprenderne le dinamiche. E allora perché lo faccio?

Devo ammettere che non ho mai saputo veramente rispondere a questa domanda, fino a quest’anno. Quando Marco Mengoni è salito sul palco e ha vinto la 73° edizione del Festival con Due vite, canzone omonima del romanzo di Emanuele Trevi che nel 2021 ha vinto la 75° edizione del Premio Strega, nella mia testa si è generata una sovrapposizione che è diventata prima un indizio, poi un ragionamento e, alla fine, una teoria.

Il motivo per cui, ogni anno, qualsiasi siano le mie condizioni al contorno, io guardo il festival di Sanremo è l’occorrenza psichica del principio di esclusione di Pauli che, in meccanica quantistica, afferma che in ogni stato quantico di un atomo non ci può essere più di un singolo elettrone.

La memoria, come gli orbitali atomici, è composta da alcuni spazi che quando sono occupati da un ricordo, un’evenienza di pensiero, una particella subatomica, non permettono a nient’altro di sistemarsi in quel posto. Da qualche parte, nel mio passato, Sanremo si è aggiudicato uno di questi stati quantici, incistandosi in una nube elettronica che gli ha donato una dimora stabile e da lì non si è più mosso.

Funziona così con certi frammenti di materia – che siano un sentimento, un fermione, una giornata di sole, una persona che non c’è più, un pensiero che non riesce a diventare reale – finiscono per appartenerci endemicamente, obbligandoci a fare i conti con la natura ondulatoria della loro esistenza, per sempre.

Sembri una foto mossa: il vanadio

[Simbolo dell’elemento: V / Numero atomico: 23 / Serie: metalli di transizione]

Lo ammetto: come spesso mi accade, il primo indizio riguardo alla permanenza di Sanremo attorno al nucleo di me stessa è stato numerico. La combinazione di avere due volte Due vite mi ha portato a pensare al numero 2, non solo per il fatto che sono due le opere, due gli artisti, due gli anni passati tra le loro vittorie (2021 Trevi e 2023 Mengoni) e neanche perché l’edizione vinta da Trevi (la 75° dello Strega) meno l’edizione vinta da Mengoni (la 73° di Sanremo) dà come risultato proprio due; ma perché 2 numericamente e filosoficamente è un numero pieno di contrasti – pari come un punteggio identico, dispari come ogni coppia di simili. Incontrandosi, ci si sdoppia, si diventa multipli o numeri inferiori, specchi di noi stessi, avversari o complici, diffrazioni create dalle radiazioni elettromagnetiche dell’altro: per Mengoni, «i soli svegli in tutto l’universo a gridare un po’ di rabbia sopra un tetto»; per Trevi, gli amici, Rocco Carbone e Pia Pera, «rappresentazioni delle epoche della vita che attraversiamo come navigando».

«La memoria si sfarina in una serie di immagini simili a un mucchio di fotografie rovesciate sul tavolo da un cassetto», scrive Trevi nel suo libro e noi, che leggiamo, viviamo, incontriamo e ci moltiplichiamo, siamo consapevoli, di fronte a quel mucchio, di non poter fare altro che cercare. Cercare la misura umana di ciò che ci sembra incomprensibile e meraviglioso da contenere, gli indizi che ci permettono di capirci qualcosa, senza dimenticare che alcuni elementi, come il vanadio, oltre che nelle rocce, nei minerali, nei combustibili fossili, in ciò che è terreno, possono essere osservati anche nello spettro della luce delle stelle. E allora andare a cercare anche lì.

Dove a volte ti perdo, ma se voglio ti prendo: lo iodio

[Simbolo dell’elemento: I / Numero atomico: 53 / Serie: alogeni]

La mia relazione con il Festival di Sanremo dura da più di trent’anni e si comporta, al netto della l in più, come una vera e propria reazione chimica che, nel corso del tempo, è stata endotermica, di sintesi, eterogenea, veloce, irreversibile, corrosiva, spontanea: mi ha formata e deformata, esattamente come succede con tutto ciò che ci attraversa. Ogni processo di re(l)azione, infatti, esiste se e solo se accompagnato da costruzione e rottura di legami, da sforzo energetico, da sguardi che cercano attenzione, da mani che trovano mescolanza, da tumulti che generano ciò che prima non c’era. Per questo, conviene sempre essere aperti, come lo iodio e gli altri alogeni: reattivi, non metallici, diamagnetici, pronti a cedere elettroni o a doversene prendere carico.

Mengoni, in Due vite, prova a spiegarlo: tutta la canzone è il racconto di come si entra in rapporto con se stessi o con gli altri.

«Siamo fermi in un tempo così, che solleva le strade

Con il cielo ad un passo da qui, siamo i mostri e le fate

Dovrei telefonarti, dirti le cose che sento

Ma ho finito le scuse, e non ho più difese».

Trevi, in Due vite, fa di tutto questo una triangolazione: mentre racconta due amici con cui ha avuto un profondo legame e che ora non ci sono più, dispiega davanti ai nostri occhi il bilanciamento stechiometrico di quell’ingranaggio cigolante che sono i sentimenti per gli altri e degli altri, con la fatica e l’intensità che tocca a chi resta.

«Saranno davvero esistite due persone come Rocco e Pia? E di chi possiamo dire con certezza che ha avuto una vita felice, o infelice? Non è forse, di ogni emozione che accade davvero in noi, di ogni parola davvero importante, vero anche il contrario? Dal più minuscolo composto di molecole alle mostruose grandezze dell’universo, è sempre l’impossibile che genera il possibile, questo è il marchio indelebile, il difetto di fabbrica della nostra esistenza, e nessuno può evitare di farci i conti, di scontare nel suo limitato orizzonte la pena decretata dalla legge universale».

Due vite guarda che disordine: il tellurio

[Simbolo dell’elemento: Te / Numero atomico: 52 / Serie: metalloidi]

Nel 1782, in Transilvania, venne scoperto il tellurio all’interno di un minerale d’oro, ma gli scienziati non furono in grado di identificarlo per anni, scambiandolo prima per solfuro di bismuto, poi per qualcosa di molto vicino all’antimonio, fino a capire che era tutto un altro elemento. A quel punto, per il tempo che ci è voluto per riuscire a dargli un nome, lo chiamarono aurum paradoxum (oro paradosso) o metallum problematicum (metallo problematico).

La nostra memoria è piena di storie di questo genere: emozioni che non sappiamo riconoscere, esperienze inclassificabili, rapporti senza nome, incroci complicati, caratteri imprendibili, calaveriti che non sembrano oro anche se lo sono. Forse non è così grave che io, per molto tempo, non mi sia preoccupata di ispezionare lo spazio quantico della mia memoria in cui soggiorna Sanremo, limitandomi a una definizione intermedia, generica, di questa mania (apparentemente) senza scopo. Forse va bene anche sapere senza sapere, aspettare il tempo giusto per capire.

«Persi tra le persone, quante parole senza mai una risposta», canta Mengoni nella sua canzone che ammette l’inconoscibile come base del conoscersi e fa il contrario del libro di Trevi che ammette il conoscersi come base dell’inconoscibile.

«Non dico solo nei libri, ma nell’universo non c’è nulla che davvero ci assomigli, noi stessi non ci assomigliamo, e ogni forma di identificazione non è, in fin dei conti, che il casuale sovrapporsi di ombre fuggitive».

Se torno indietro a quando tutto è iniziato, il primo Sanremo dei miei ricordi è quello del 1992, condotto da Pippo Baudo e vinto da Luca Barbarossa. Avevo otto anni e a quei tempi seguire il festival era normale; qualche anno dopo, in adolescenza, inizio 2000, io e mia sorella eravamo quasi le sole della nostra età a guardarlo, sembrando delle sfigate. Più tardi, all’università, anni ’10, guardare Sanremo cominciò a sembrare un gesto anticonformista e quindi interessante (mia sorella diceva a tutti che grazie a Sanremo riusciva a fare delle previsioni politiche sull’anno a venire), fino ad arrivare, negli ultimi anni, ad essere talmente anticonformista da tornare di moda.

Il tempo – il nostro, quello degli altri, quello che passa per conto suo e non è di nessuno – è una variabile chiave nella configurazione elettronica della memoria perché, risolvendo l’equazione di Schrödinger che è alla base della teoria degli orbitali atomici, racconta l’evoluzione dello stato di un ricordo, di un’evenienza di pensiero, di una particella subatomica.

Quando Marco Mengoni è salito sul palco della 73° edizione del Festival di Sanremo con quel titolo, Due vite, il mio cervello ha fatto un salto quantico fino a Emanuele Trevi e ho pensato a quando, in quel libro chirurgico come un dolore, ho letto che «le età della vita non si succedono, si accavallano». Improvvisamente, mi è sembrato che davanti al microfono, oltre a Mengoni, i fiori e l’orchestra, ci fossero anche Trevi, Rocco e Pia, lo spettro della luce delle stelle, «un mucchio di fotografie rovesciate sul tavolo da un cassetto», Pippo Baudo, Luca Barbarossa, le previsioni politiche di mia sorella, le canzoni, tutte, quelle che mi sono piaciute e quelle che ho detestato, i momenti che mi hanno imbarazzato e quelli che in cui mi sono commossa, gli ospiti, gli sponsor, le reazioni chimiche, le «ombre fuggitive», un minerale d’oro, le parole che ho sofferto e quelle che ho usato a sproposito. «Siamo un libro sul pavimento, in una casa vuota che sembra la nostra», ha cantato Mengoni e, senza che Sanremo si muovesse di un soffio dalla nube elettronica che gli ha donato una dimora stabile nella mia memoria, ho visto quei frammenti di materia moltiplicarsi nelle loro due vite, quella reale e quella immaginata da noi che leggiamo, ascoltiamo, cantiamo, ci moltiplichiamo e ci apparteniamo, obbligati a fare i conti con la natura ondulatoria della nostra esistenza, per sempre.

Elisa Casseri è nata a Latina nel 1984 ed è laureata in Ingegneria Meccanica. Autrice del blog "Memorie di una bevitrice di Estathè", ha pubblicato il suo romanzo d’esordio "Teoria idraulica delle famiglie" per Elliot nel 2014. Nel 2015, ha vinto la 53° edizione del Premio Riccione per il Teatro con il testo "L’orizzonte degli eventi". Il suo ultimo libro è "La botanica delle bugie" (Fandango, 2019).