XVI Quaderno italiano di poesia contemporanea

da | Lug 11, 2023

Pubblichiamo in anteprima dal “XVI Quaderno italiano di poesia contemporanea”, a cura di Franco Buffoni, per Marcos y Marcos, una selezione di due testi per ciascuna delle raccolte dei sette giovani poeti presenti nel volume: Michele Bordoni, Marilina Ciaco, Alessandra Corbetta, Dimitri Milleri, Stefano Modeo, Noemi Nagy, Antonio Francesco Perozzi. Non è stato sempre possibile riportare la grafia degli originali, per cui si rimanda all’edizione cartacea.  

 

MICHELE BORDONI – da “Il duca di Sullun”, prefazione di Cristiano Poletti

“Questo avviene quando la tela si abbandona, nell’incarnato, al fantasma della pelle. Da quel momento, nella sua stessa struttura, nella sua semiosis, essa si differenzia nettamente da una pura superficie: fa l’intreccio e l’interstizio tra la propria esistenza di supporto (di sotto: sub), la propria esistenza colorata (ciò che è gettato, ejectus, sul supporto) e la propria esistenza significante (ciò per cui non la si può distinguere da un soggetto, da un subjectus)”

(Georges Didi-Huberman, “L’immagine vivente”)

 

L(‘)O(E)UVRE AU NOIR

L’esangue matrioska faraonica
del piano meno uno
del museo del Louvre,
aperte incubatrici dell’eterno
bloccate dentro al vetro che allontana
le bare dai coperchi irraggiungibili.
Un pezzo di discorso dentro l’altro,
la morte scritta tutta nei caratteri
disegnati nel recto del cassone
che per leggerla bene devi entrare
tu stesso nella parte della mummia.
La storia è un privilegio degli assenti.

Dal giallo e dal cobalto del legno millenario
un occhio senza globulo, uno sguardo
che è solo il suo protendersi nel fuori
del proprio simulacro ti perlustra,
incarcerato tu nella porzione
rettangolare del cristallo
specchio
tutt’altro che annebbiato
e rovescia la maschera chiara
ed azzurrognola che piega verso il
mento la punta dritta dei baffi, le righe

perlacee e parallele delle unghie, anche
la psoriasi che irrita le dita e che le screpola.
Una figura pura, irraggiungibile
l’immagine di te che ti somiglia
nel vuoto ormai più esiguo dei sarcofagi,
un’esplosione impressa su pellicola
e geroglifico, ragnatela d’atomi
staccata dalla fonte mantenendo
figura e dimensioni più minute
rispetto al velo originario che ti copre.
Una pelle di vipera il riflesso
di te che perdi strati d’epidermide
impigliati nei rovi delle immagini,
di te che ti fai regno, dinastia di stelle
ad ogni nuova sala, evaporando
rimpicciolendo
nudo ormai
fino alla polpa
che smette di abitare il corpo, si dilacera
e si sfibra, lasciando impronte fossili
mentre ancora vai cercando
la filigrana di mummia
conservata in altre sale.
Si dice abbiano trovato della polvere
nei vasi canopi, un altro sarcofago
dentro al sarcofago.
Hanno ipotizzato il dentro come un fuori
all’infinito, la pelle come un’esteriorità di
pelle che ricopre ancora pelle.
Un croissant d’epidermide che cresce
su se stessa intorno a un vuoto,
una sfoglia che si scaglia
su sfoglia
su sfoglia
su sfoglia
su sfoglia…

*

BASILIEK VAN HET HEILIG BLOED (BRUGES)

Il prete dietro al plexiglass sta immobile.
A vederlo da qui, da questa sedia,
neanche socchiude le palpebre mentre la turba
di spagnoli fedelissimi si abbona all’aldilà
con due monete,
il costo dello sguardo alla reliquia.
Il sangue di Cristo nella teca d’argento arrossisce
per lui, che è ormai un pinnacolo di luce immateriale,
puro spirito,
figurina di marmo
dentro al muro.
Sembra essere un’immagine dipinta,
meccanica caduta da un ordigno celeste.
A me piace e non piace questa luce fiamminga
e polverosa che entra dai vetroni,
e questi colori di terra che raccontano
una storia che non ha né tempo né corpo.
Non mi fido della tonaca del prete.
Il legno dietro all’oro è geometria,
simmetrico riflesso strutturale
di un altrove
che dicono sia qui, ma più sfocato,
opalescente, tanto che per vederlo
lo si mette in alto, stirato come un tendine
o un rampicante astratto, un filo
a piombo o un Giacometti di muscoli.
Una materia araldica, sfibrata,
che non si riconosce nell’attesa
di un tutto che la renda più che membro
corpo intatto, figura a tutto tondo,
non più solo rigagnolo di pioggia sopra il vetro.
Siamo ancora all’auriga di Platone,
al cavallo riottoso e rompipalle.
Ma come non amarlo quel somaro
mi dico solo sulla sedia di vinile della chiesa,
consegnato allo sguardo di plastica
del prete che pare invece di tutt’altro avviso.
Spogliati delle tue quattro spoglie, mi dice,
strato a strato di pelle, fino alle ossa.
Assumiti una forma vegetale, automa o
foglia d’acero,
imponiti
di far di te un Michele irraggiungibile,
inciso su un arazzo o su un pennone.
E io che immaginavo solo belli
gli angeli capisco quanto possano impaurire
nell’atto della trasfigurazione,
mi tengo stretto l’asino o il cavallo zoppo,
già mezzo fuori dal recinto di pelle,
qualche dito già solo come un ramo.

 

***

MARILINA CIACO – da “Gli anni del disincanto”, prefazione di Stefano Colangelo

da OUROBOROS (Storia delle grammatiche)

Ha quasi trent’anni e sta per lasciare la decima casa della sua vita. Così ha deciso di prestare attenzione a quei dettagli che presto scompariranno dal suo campo visivo, dettagli che ha sistematicamente ignorato per quasi trenta mesi per una censura inconscia della percezione, per una coercizione a limitare gli stimoli, e di cui adesso, assecondando una delle costruzioni emotive tipiche della forma di vita umana che chiameremo nostalgia, potrebbe avvertire la mancanza. Costruirsi un bagaglio di ricordi posticci ai quali accedere soltanto per poter dire di ricordare qualcosa, costruirsi un’emozione gestibile, entrare nel topos. Oggi, ad esempio, è il primo pomeriggio di un sabato di luglio, l’apparizione è avvenuta mentre fumava al balcone, osservando la terrazza rosso ciliegia della palazzina di fronte, le si è palesato un totem appollaiato sulla ringhiera, testa di cornacchia e corpo di gatto, eretto sul parapetto in una posa scultorea, è come imbalsamato, non respira. Dicono che Francis Bacon dipingesse teste e non volti, dicono pure che le persone hanno testa, ma non cervello. Lei dice che non le interessa più, spegne la sigaretta, ha bisogno di uscire uscire uscire, raggiunge la prima fermata metro nei dintorni e quando sarà salita nell’ultimo vagone a destra si chiederà se la voce che scandisce le fermate delle metro ha un luogo proprio, se insomma risiede da qualche parte, se questa voce di donna che accompagna il corso delle sue giornate irrilevanti ha una fonte individuata, un centro di emissione, un apparato fonatorio, oltre che un timbro, una cadenza e tutto il resto. Per l’intera durata del viaggio dirà a tre sconosciuti che al verbo aderire corrispondono almeno due sostantivi di significato assai diverso, aderenza e adesione. Si può mostrare aderenza in relazione a una certa forma di vita, i propri contorni sembrano combaciare – in una maniera a dir poco sorprendente – con quelli della sagoma preformata prefabbricata prestabilita da altri, la sagoma genetica e sociale, la sagoma che dovrebbe consentire lo scambio equo ed equilibrato con chi ci è simile, con chi la condivide, con l’umano medio occidentale del secolo ventuno. I contorni, però, strabordano se l’adesione viene meno, se insomma nella sagoma suprema non hai fede, non ci credi. Se ne progetti l’esplosione telecomandata, la scissione atomica, l’incendio. Se la tua testa è un colabrodo di atti mancati, se hai perso il conto delle maschere che indossi, tutte diverse per colore, forma, potenzialità di mimesi. Se tutto aderisce e niente si tiene.

*

da MILANO 2

A Milano 2 i colori preponderanti sono il verde smeraldo e l’arancio mattone o arancio bruciato. I
condomìni che si chiamano residence e che dovrebbero ricordare nello stile e nelle finiture delle
ville plurifamiliari sono rimasti gli stessi degli anni Settanta, soggetti, con ogni probabilità, a
puntuali e meticolosi lavori di manutenzione. Le sagome degli alberi all’orizzonte e le sagome degli alberi che si riflettono nel laghetto dei cigni avrebbero dovuto conservare nel tempo l’idea dei bambini che giocano nel verde, l’idea degli alberi che convive con l’idea dei prati, dei fiori, dei
bambini, ma gran parte del campo visivo è occupato dai residence. Nella piazza centrale, il monumento commemorativo alla costruzione di Milano 2, l’NH Hotel, il ristorante cinese, il bar-ristorante d’antan con le tovaglie bianche e le sedute rivestite in velluto, da commedia all’italiana. Nello spazio riservato alle recensioni di Google Maps A. scrive: la prima pietra di Milano 2 posata dal Silvio in persona. C. risponde: stupendo posto rilassante. Una bicicletta appoggiata al parapetto di fronte al lago, tra due lampioni rossi, è lì per essere fotografata, come i cigni e come tutti noi. Quando qualcuno sognava ancora la rivoluzione, l’Italia sognava Milano 2. Adesso Milano 2 è il nostro spettro, l’utopia abortita e riemersa in uno spazio di visibilità invisibile, nella disparizione di un’apparizione. (Perché ci sia fantasma, è necessario un ritorno al corpo, ma a un corpo più che mai astratto). Molti uomini e donne di mezza età passeggiano col cane, un gruppo sparuto di adolescenti muniti di monopattino o skate si aggira tra i portici da cui si intravvedono le gioiellerie, un’agenzia di viaggi, un centro benessere e una boutique. Nei riflessi delle vetrate della hall ci sono soltanto i due addetti alla reception e un grande lampadario formato da tre dischi di resina grigia pendenti dal soffitto, all’unico tavolo occupato del ristorante cinese una ragazza è rimasta seduta da sola per due ore, ha ordinato un’acqua naturale. Anche a Milano 2 la piazza è vuota.

 

***

ALESSANDRA CORBETTA – da “Sempreverde”, prefazione di Umberto Fiori

Nel bosco sempreverde nascono le bambine,
ripetono il giro da tempo immemorabile.
Tra gli alberi conservano i fermagli di ogni vita
ma sanno che presto saranno cianfrusaglie.

Dove sia il bosco sempreverde le bambine
non possono dirlo, né indicarlo sulla mappa.
Nessuna gelosia o avarizia, ma solo
un trucco per custodirne il segreto.

Così sulla strada lasciano un’assenza
o un vuoto più chiaro
perché nessuno possa trovarle.
Ma non credere che smettano d’aspettare…

*

Venute al mondo, le bambine vivono tre volte
recuperano la morte e il tempo perso,
per questo guardano spesso l’orologio
evitano con cura lentezza e dispersione.

Ogni bambina ha la sua storia e un segno
distintivo in qualche angolo del corpo.
C., per esempio, lotta con sé stessa,
una macchia scura sul fondo della schiena.

 

***

DIMITRI MILLERI – da “Nel pieno di nor”, prefazione di Massimo Gezzi


ECOGNOSI

Volevamo sentirci esposti, lo eravamo – però ciò che provavamo non faceva mai centro: né verso il buio né verso l’appartenenza. Rivoltato all’esterno, il derma si ustionava – gli organi interni restavano congelati.

Volevamo sentirci esposti, non è vero. Le poche volte che la conversazione usciva di strada, restavano il rumore e l’arroganza, caldi tra le lamiere –

quando la vostra presenza
scontata, che infastidiva vedo
come non è, mi accorgo
di avervi odiati per l’onnipotenza
presunta. Ma del resto

volevamo una storia da raccontare. Le dipendenze nessuno ci è rimasto – alcuni sono gonfiati per i farmaci soltanto e non saranno più felici né gli stessi. Qualcosa da dimostrare: la colpa di essere nati qui, adesso, con tutta la storia dentro – e la curva dei campi e non distante un santuario, che scorrono su uno schermo e non potremmo deviarli. È bello il paesaggio senza alcuna presenza, mi spaventa come sentire che non ci dovremmo essere.

Questo volevo dirgli, non l’ho fatto. Ho aspettato un silenzio che modellasse il ricordo, li ho guardati negli occhi – mi piace pensare che per voi sia lo stesso.

*

VENOM

Una bestia che ricama con i fili delle sue lacrime, una stanza blindata dove si entra in coma, un melograno squarciato per scoprirne i colori.

Quando ti ho conosciuta eri tutte queste e altre cose – ma ora vorrei che il corpo fuoriuscisse, vedere tanti toccarti e te felice, pronta a guardare in camera perché la fiducia è grande.

Dei giorni dal cavalcavia mi sporgevo, pensavo. È troppo dire mi hai salvato: ho provato un calore, questo sì – e da quando sei comparsa non ho più ragionato, solo sentito gli organismi cambiare.

Ora una luna rossa è sulle industrie portuali, le luci di segnalazione in vetta alle ciminiere – mentre la voglia di restare, che si espande, supera in estensione le paure disponibili. Tutto il male che può, che deve fare.

 

***

STEFANO MODEO – da “Partire da qui”, prefazione di Paolo Febbraro

ITACA

Odisseo piange vestito di carbone,
«tornate indietro, senza dolore».
Ciò che non sa è che il governo sta
franando, non terrà una legislatura.

Ma con il fianco ferito, il dolce del vino
non dimentica i nastri, le rive petrose
o le nuvole grezze ferite di notte. Così,
dopo numerosi giorni non si è seduto

a mangiare con loro il frutto del loto.
E mentre muove veloce verso il basso
Itaca è divenuta Santa per decreto,
imprigionata nell’inferno dell’usura.

*

DAL VAGONE

Salgono uomini dagli occhi sfiniti
e leggono e dormono abbracciati
al sedile. Non abbiamo malinconia
ma c’è il tramestio delle rotaie
e lo spazio della pianura nel vetro,
una luce azzurra dalla costa al viso,
un pane senza sapore all’improvviso.
È questa smorfia che fai, una disputa
che mina, che tutto frana nel silenzio
ad avvelenare l’aria nel vagone. Pensi:
non basterà un viaggio per raggiungerli,
spiarli dai vetri infranti pizzicarsi il mento,
un gesto d’affetto – mentre guardi il vento
ingrossare, saperli camminare rasente il mare.
Va bene, adesso il mondo è fermo. Il treno
in corsa liquida le forme in un luogo alieno.
Ma a qualcuno è sfuggito sulle labbra come
le punte smunte degli scogli segnino un confine.

 

***

NOEMI NAGY – da “L’osso del collo”, prefazione di Fabio Pusterla

Prendere in pieno quel cervo in tangenziale
era inevitabile mentre distinguevi dai sassi
sedimenti altre scorie:
quel buco al centro viene scavato dall’acqua
l’hai sentito in tv, su quella svizzera

pure qui vedi in questa regione di confine
(contro i piloni della luce)
li chiamano specchi guasti. Ma questo dopo,

prima, lungo il tragitto hai smesso di parlare
al pronto soccorso ripetevi solo szépen
lassan

*

«Credi dovrei appendermi?» alla Dosenbach
provando le scarpe in ungherese, ovvio
al terzo antibiotico della settimana
fatichi sulle scale mobili, il tuo sguardo
come di cani in tangenziale legati
al guardrail: «non so cosa dirti, mi dispiace».

Capisco, i trasalimenti di una vita al chiuso
sono minimi o qualcosa del genere
ma così esageri non esci più di casa se non

curvandoti per esporre la schiena
nuda sfili i nervi dalla colonna vertebrale
uno ad uno come scorrendo il rosario
con cura intanto mi rimproveri: ricorda
«malattia non è solo il disordine»

 

***

ANTONIO FRANCESCO PEROZZI – da “bottom text”, prefazione di Gilda Policastro

SPIRITO ANDROID

Da anni ripeto che Dio arriverà
nella vecchiaia, come un placebo
per la fine che si approssima
o per una sincera adesione al progetto
cristiano – può darsi.
Ma con la grande rivoluzione Android
qualcosa è cambiato nelle mie convinzioni:
il completo controllo del sistema,
l’interfaccia liquido e intuitivo,
questa facilità di ottenere una guida.
Oggi io come tanti
seleziono un tragitto sulla mappa
e una voce di donna suona nella mia coscienza
la cosa più simile all’Apocalisse.

*

DUE APPARTAMENTI

È meglio che le case si sfascino,
che si assista, lasciandole, al loro declino,
a un boato che le rade al suolo.
In questo modo spartirsi dal luogo
è come uccidere: si esegue
secondo una legge sottile, si chiude.
Io che di base non ho coraggio
di niente, spacco l’Italia
con due appartamenti redivivi:
li so in un certo posto, ammobiliati,
e mischio sull’altro i giorni dell’uno,
non so più distinguere lì cosa ho fatto,
quando. Lago delle Alpi che allaga
la piana del Piave, solitudine chiara
su solitudine dei lampioni accesi.
Per ogni casa che si scampa cresce questo veleno.