Vetro, Ironia e Dio

da | Giu 18, 2023

In anteprima da “Vetro, Ironia e Dio” di Anne Carson, uscito a cura di Patrizio Ceccagnoli per Crocetti, pubblichiamo un estratto, intitolato “L’eroe”.

 

L’EROE

Dal modo in cui mastica il suo pane tostato capisco se mia madre ha dormito bene
e se sta per dire qualcosa di allegro
oppure no.

No.
Poggia il pane accanto al piatto.
Lo sai che in quella stanza puoi chiuderle le tende, fa lei.

Questo è un riferimento in codice a uno dei nostri più vecchi litigi,
dalla serie che io chiamo “Le regole della vita”.
Mia madre chiude sempre le tende in camera prima di andare a letto la sera.

Io apro le mie il più possibile.
Mi piace vedere tutto, dico io.
Cosa c’è da vedere?

La luna. L’aria. L’alba.
Tutta quella luce sul viso al mattino. Ti sveglia.
Mi piace svegliarmi.

A questo punto il confronto sulle tende ha raggiunto un delta
e può procedere lungo tre possibili canali.
C’è il canale “Ciò di cui hai bisogno è una bella dormita”,

il canale “Testarda come tuo padre”
e il canale del tutto a caso.
Un altro toast? Viro il discorso con forza, spingendo indietro la sedia.

Queste donne! dice mia madre con uno stridore esasperato.
Ha scelto il canale a caso.
Che donne?

Quelle che si lamentano sempre di uno stupro –
La vedo picchiettare con un dito furioso il giornale di ieri
posato accanto alla marmellata d’uva.

Sulla prima pagina c’è un breve articolo
su una manifestazione per la Giornata Internazionale della Donna –
Hai dato un’occhiata al catalogo estivo di Sears?

No.
Perché è una vergogna! Quei costumi da bagno…
Sgambati fino a qui! (e indica) Non c’è da stupirsi poi!

Stai dicendo che le donne meritano di essere stuprate
perché la pubblicità dei costumi da bagno di Sears
mette le gambe in mostra? Ma’, dici sul serio?

Be’, un responsabile deve pur esserci.
Perché le donne dovrebbero essere responsabili del desiderio maschile? Mi scaldo.
Ah, vedo che sei una di Loro.

Una di Chi? Mi infervoro. Mia madre mi scavalca.
E cosa ne hai fatto di quel costume intero che avevi l’anno scorso, quello verde?
Ti stava così bene.

Mi cade addosso da una grande altezza un fragile fatto:
mia madre ha paura.
Quest’estate compirà ottant’anni.

Le sue piccole spalle appuntite incurvate sotto l’accappatoio blu
mi fanno pensare al piccolo falco merlino di Emily Brontë, Hero,
a cui dava dei pezzi di bacon sul tavolo della cucina quando Charlotte non c’era.

Allora Ma’, andiamo – vado verso il tostapane
e getto sul suo piatto con delicatezza una fetta di pane di segale –
a trovare papà oggi? Lei guarda con ostilità l’orologio della cucina.

Partenza alle undici, ritorno per le quattro? Continuo io.
Sta imburrando il pane tostato con colpi impetuosi.
Il silenzio è assenso nel nostro codice. Vado nella stanza accanto a chiamare il taxi.

Mio padre vive in un ospedale per pazienti che necessitano di cure costanti
a circa 50 miglia da qui.
Soffre di una specie di demenza

caratterizzata da due tipi di cambiamenti patologici
documentati per la prima volta nel 1907 da Alois Alzheimer.
In primo luogo, la presenza nel tessuto cerebrale

di una formazione sferica nota come placche senili,
costituite principalmente di cellule cerebrali in degenerazione.
In secondo luogo, degli ammassi neurofibrillari

nella corteccia cerebrale e nell’ippocampo.
Non se ne conoscono né le cause né la cura.
Mia madre gli ha fatto visita in taxi una volta a settimana

negli ultimi cinque anni.
Il matrimonio è nella buona e nella cattiva sorte, dice lei,
questa è la cattiva.

Quindi dopo circa un’ora siamo in un taxi
che va sparato verso la città lungo deserte strade di campagna.
La luce d’aprile è chiara come un allarme.

Nel lasciarcele alle spalle, le cose ci danno l’improvvisa sensazione
di esistere nello spazio della loro ombra.
Vorrei poter portare con me questa chiarezza

nell’ospedale dove le distinzioni tendono ad appiattirsi e a fondersi.
Vorrei esser stata più gentile con lui prima che impazzisse.
Questi sono i miei due desideri.

È difficile trovare l’inizio della demenza.
Ricordo una notte di circa dieci anni fa
in cui gli parlavo al telefono.

Era una domenica sera d’inverno. Ho sentito le sue frasi riempirsi di paura.
Iniziava una frase – sul tempo, si perdeva, ne iniziava un’altra.
Mi ha fatto infuriare sentirlo annaspare –

mio padre, alto e orgoglioso, ex ufficiale di rotta della Seconda guerra mondiale!
Mi ha reso spietata.
Sono rimasta ai margini della conversazione,

guardandolo agitarsi sugli indizi,
offrendone nessuno,
e mi piombò addosso come una lenta valanga

che ignorasse con chi stesse parlando.
È molto più freddo oggi, penso io…
la sua voce premette contro il silenzio e si interruppe,

sopra ci cadeva la neve.
Ci fu una lunga pausa mentre la neve ci copriva entrambi.
Be’, non voglio trattenerti,

disse con improvvisa e disperata allegria come se
avvistasse la terraferma.
Ti darò la buonanotte ora, non ti farò salire la bolletta. Arrivederci.

Arrivederci.
Arrivederci. Chi sei tu?
dissi al segnale telefonico.

All’ospedale passiamo per lunghi corridoi rosa
attraverso una porta dalla grande vetrata
e un lucchetto a combinazione (5-25-3)

verso l’ala ovest, per la cura dei pazienti cronici.
Ogni ala ha un nome.
L’ala dei cronici è il Nostro Miglio d’Oro

anche se mia madre preferisce chiamarla L’Ultimo Giro.
Mio padre è seduto allacciato a una sedia legata al muro
in una stanza con altre persone come lui legate che pendono con varie angolazioni.

Mio padre pende meno, sono orgogliosa di lui.
Ciao papà come va?
Gli si incrina la faccia, potrebbe essere un sorriso oppure rabbia

e guardando alle mie spalle emette nell’aria un fiotto di veemenza.
Mia madre posa la mano sulla sua.
Ciao tesoro, dice. Lui allontana la mano di scatto. Ci sediamo.

La luce del sole si diffonde per la stanza.
Mia madre comincia a togliere dalla borsetta le cose
che ha portato per lui, uva, biscotti di maranta, caramelle alla menta.

Mio padre sta rivolgendo strenue osservazioni a qualcuno nell’aria tra di noi.
Usa una lingua nota soltanto a lui,
fatta di ringhi e sillabe e improvvisi appelli feroci.

Di tanto in tanto qualche vecchia formula viene a galla tra i panni sporchi –
Ma non mi dire! oppure Buon compleanno a te! –
ma nessuna vera frase

da più di tre anni oramai.
Mi rendo conto che i suoi denti davanti stanno diventando neri.
Mi chiedo come si fa a pulire i denti ai matti.

Si è sempre preso cura dei suoi denti. Mia madre alza lo sguardo.
Lei e io spesso pensiamo le due metà del medesimo pensiero.
Ricordi quello stuzzicadenti placcato oro

gliel’hai mandato da Harrod’s l’estate che eri a Londra? lei chiede.
Sì, mi domando dove sia finito.
Dev’essere in bagno da qualche parte.

Gli sta dando dell’uva un chicco alla volta.
Continuano a rotolare fuori dalle sue enormi rigide dita.
Era un uomo grande, alto più di un metro e ottanta, e forte,

ma da quando è in ospedale il suo corpo si è ridotto a una mera casa di ossa –
tranne le mani. Le mani continuano a crescere.
Ognuna grande oramai quanto uno stivale di Van Gogh,

vanno pesantemente dietro all’uva finitagli in grembo.
Ma ora si rivolge a me con un impeto di sillabe urgenti
che si interrompono su una nota alta – lui aspetta,

fissandomi in volto. Quello sguardo interrogativo.
Un sopracciglio ad angolo.
Ho una fotografia attaccata al frigorifero di casa.

Mostra il suo equipaggio in posa davanti all’aereo durante
la Seconda guerra mondiale.
Mani ben salde dietro la schiena, gambe divaricate, mento in avanti.

Vestiti con voluminose uniformi da volo
con un ampio cinturino di pelle stretto sul cavallo.
Strizzano gli occhi rivolti al brillante inverno del 1942.

È l’alba.
Stanno per lasciare Dover per la Francia.
Mio padre all’estrema sinistra è l’aviatore più alto,

con il colletto alzato,
un sopracciglio ad angolo.
La luce senza ombre lo fa sembrare immortale,

come qualcuno che mai più piangerà per tutto l’oro del mondo.
Mi sta ancora fissando in volto. Giù le alette! grido.
Il suo sorriso scuro s’accende un istante e si spegne come un fiammifero.