Velocità di fuga

da | Mar 22, 2022

In anteprima un estratto dalla Prefazione di Biancamaria Frabotta alla riedizione di “Velocità di fuga”, suo primo e solo romanzo, da poco uscito per FVE Editori.

 

“Velocità di fuga” fu il mio primo romanzo, fu anche l’ultimo. Forse una qualche ragione esiste, ma non quella che i maligni potrebbero sospettare. Sgombriamo il campo dagli equivoci. Un suo successo quel libro lo ebbe se in un mese arrivò alla seconda edizione. E, dopo una serie di accattivanti recensioni in cui si lodava, o si criticava, l’intento di una testimonianza personale e generazionale, accreditati editori mi raccomandarono di battere il ferro finché era caldo. Ovvero di scriverne subito un secondo. Ma scrivere un romanzo è faticoso, anche da un punto di vista muscolare. Senza una motivazione vera non ne vale la pena. “Velocità di fuga” è un romanzo di formazione, genere in cui c’è poco da inventare. La protagonista che non ha un nome e nessuno mai si sognerebbe di chiamarla per nome parla molto e molto ascolta. Non si limita a uno scavo dell’interiorità. Preferisce l’esteriorità. Ma non tutto ciò che si agita nel mondo la cattura. Ciò che le interessa e da cui non le è possibile distrarsi è protetto da un fitto reticolato metaforico. Ma forse dovrei dire, allegorico. Anche con l’allegoria si fa poesia e in questo romanzo ce n’è una buona dose, intrecciata con la sua controparte ragionante: il gioco degli scacchi che prende quota sin dal primo capitolo, dedicato a “La mossa del cavallo”. L’adolescenza protratta della protagonista pretende il supporto di una doppia gabbia. Da una parte gli “Inseparabili” affiliati al Gamelino, cantina dove primeggiano studenti, giovani professori e incauti cocainomani e che ospitano con affettuosa sufficienza una sola donna, quella che dice Io e che, per farsi notare, fa domande che sfumano per lo più in una nuvola di sistematici depistaggi. E dall’altra le “Inimitabili”, alle quali la scrivente invia lettere notturne, da cui non attende risposta, essendo per lo più defunte, modelli con i quali mai si confronterebbe, pur chiamandole per nome. Kathy, Simone, Virginia, Djuna. Riconoscerle non è difficile se chi legge questo libro, altri ne ha letti, ben superiori. Ma su tutte primeggia Elvira, un’indimenticabile madre rimasta vedova da cui la figlia vorrebbe allontanarsi, in “velocità di fuga” senza però mai abbandonarla. E la misteriosa Dirce, che mette in scacco il tentativo di tutti gli altri personaggi di sottoporla a un’unica verità. E di cui non voglio qui svelare il segreto. Basterà sapere che forse nasce da un’ennesima reincarnazione dell’indicibile Rashomon. Mi pare di poter dire che il padre latita in questi paraggi, soprattutto nel ruolo che più dovrebbe competergli: protezione, autorità, sani convincimenti. Ma dove metterlo in questo universo dove presto ogni evento, ogni parola, ogni ideale, ogni ideologia, si ribalta nel suo contrario? Velocità di fuga è un romanzo, se così vogliamo continuare a chiamarlo, scritto in controcanto. E, a proposito del titolo, vorrei aggiungere che a suggerirmelo è stato indirettamente mio marito, Brunello Tirozzi, fisico e poeta che mi parlava della velocità minima che un corpo deve avere per uscire dall’attrazione della Terra. E un’altra spiegazione è quella che si legge nella splendida Nota di Manuela Fraire che individua il tema centrale del libro, anzi il suo “punto di osservazione” nel rapporto non pacificato che ogni donna ha con l’immagine femminile e con la sua nascosta e ancora intoccabile identità sessuale. Si comprende che nutra il desiderio di allontanarsene staccandosi dalla terra che tutti abitiamo. Voglio concludere questa breve ciarla con un’immagine per me indimenticabile. Ho scritto la redazione definitiva di “Velocità di fuga” a Ginostra, borgo arrampicato sul fianco più impervio dell’isola di Stromboli, spesso aiutata soltanto dalla luce intensa della Luna, quasi abbagliante nel buio assoluto del cielo. E ricordo con commozione il mio sbarco a Ginostra sulla barca che dal traghetto, partito da Napoli, ci portava a riva. E l’orgoglio e la preoccupazione con cui, boccheggiando sotto il sole e fra gli schizzi, stringevo al petto la mia vecchia Olivetti, da cui mai mi separavo.

Immagine: Foto di Dino Ignani.