Un doppio limpido zero

da | Gen 24, 2023

Sei poesie da “Un doppio limpido zero” di Raffaele Carrieri, che racchiude alcune sue poesie scelte dal 1945 al 1980, da poco uscito a cura di Stefano Modeo per Interno poesia.

 

NON HO NIENTE

Non ho niente
proprio niente
che sia mio.
Dalla camicia
al berretto
non ho più
niente di mio.
Degli occhi
ho fatto tranello
all’inverno.
Ho asservito
all’astuzia
l’orecchio.
Dall’udito
al mantello
non ho più
niente di mio.
Anche le mani
hanno cessato
di essere mie.
Le mie mani
sono di questo
sparuto fucile
che all’oscuro
mi somiglia.

 

TAVOLIERE

Il cielo più vecchio
è di questa capra
che bruca il tufo
e la luce coglie
sulle corna
come fa l’ulivo
con le foglie.
Non si attende
che il diluvio.

 

CHI È PASSATO PRIMA DI ME

Chi è passato prima di me
di me ha lasciato orma.
Rintraccio l’esile forma
del piede che fu mio
tra il terzo e il quarto
secolo e corse questi lidi
e si portò dall’altra parte
oltre le isole e gli uliveti
sulla rotta dei califfi.

Chi è passato prima di me
di me ha lasciato ombra
fuggevole di lunga ciglia.
Mia è questa pupilla
pigra e un poco torva
graffita sulla ciotola
di creta rossa. Nel sepolcro
guardo il mio occhio
dal profilo di conchiglia.

Chi è passato prima di me
di me ha lasciato esigua
impronta di corta mano.
Riconosco l’effimera curva
delle costole e il disegno
scorretto del ginocchio
dove la rotula s’ingobba.
Mia è questa caviglia
che dall’argilla traspare.

Chi è passato prima di me
di me ha lasciato fresca
memoria di giuochi.
Riodo il nitrito di centauro
mattiniero e il suono colgo
della voce che fu mia
quando Venere rincorrevo
affamato e veloce
nelle grotte d’amore.

Chi è passato prima di me
di me ha lasciato specchio
di morte e tazze colme.
Lo spazio ritrovo del mio
corpo e il lino bianco
odora di limone: nata
non era la colomba di Archita
quando tra questi ulivi
mi colse prima morte.

 

TERRA DELLA CICOGNA

Attraversai il mare
e me ne andai
al paese dell’aquila
grigia e della pecora.
Compagni fidati
trovai a Tepeleni
e a Scutari ricotta
anziana: anice bevvi
con erbe dolci
e brina di sposa
giovane sotto il segno
della cicogna.

 

A MEZZANOTTE HO SENTITO

A mezzanotte ho sentito il martello
e il legno risuonare come la botte.
Stavano tra le assi i soldati.
Non fingevano il sonno
né mostravano i buchi,
fuochi arrugginiti all’oscuro.
Dentro le casse come il vino
che ha finito di fermentare
se ne stavano i soldati.
Sentivo battere il martello
e il chiodo penetrare nel legno
tenero come il cielo della sera.

 

CAMPO DEGLI ARMENI
(a Hrand Nazariantz)

Amico, vecchio mio, era aprile
era la prima domenica d’aprile
e ulivi c’erano come a Betlemme.
Il gallo cantava nella vigna
e il cielo era un muro.
Come un muro era il cielo
sopra la mia vita: altro porto
non avevo che le tue braccia.
Rimani mi dicesti e io restai:
entrai nel tuo occhio
come foglia patita nel ruscello.

Datteri e latte mi porsero le vedove
le vergini lasciarono i telai
e intorno si misero a cantare.
Più fresche delle arpe eran le voci
e delicate più del rossignolo
che la solitudine consola.
La cenere mi tolsero dal cuore
e le radici dei veleni antichi
sciolsero il nodo dell’oblio.
Parole non udivo ma sospiri
di suoni: passavano carovane
nelle voci come fili nella cruna.

Il Campo degli Armeni era verde
e bianco: non c’erano cavalli
né grano ma cespugli di spine
con bambine vestite di lino.
Prati verdi con vedove nere
come madonne dei sette dolori.
I morti non si vedevano appesi
come grappoli al pergolato.
Ogni donna aveva il suo uomo
seduto sopra il cuore
come la rosa nel bicchiere.

La donna della giara faccia
bianca vide dentro l’acqua
e dal fondo si sentì chiamare.
Al Campo degli Armeni un pozzo
c’era un secchio e una corda.
Un pozzo c’era e un’acqua sola
ma ogni donna dentro vi scorgeva
volto diverso e diverso pallore
e lamento sentiva d’altra voce.

Silenzio dicesti buona gente:
questa è la storia del bianco
fantasma. Appeso alla corda
ritorna. Ogni giorno ogni sera
ritorna. Anche la notte ritorna.
Appeso alla corda col silenzio
ritorna. Come il vento alla luna
ritorna. Vena aperta sul collo
e foglia rossa sulla fronte.
Non svegliatelo buona gente:
lasciatelo dormire sull’acqua.

Tornarono le donne ai telai
a intrecciare lana con lana.
Come in sogno vedevo mani,
vedevo crisalidi di mani
e mani incompiute vagare.
Vedevo salire e scendere mani
e mani battere contro la lana.
Ad ogni trama, nodo dopo nodo
pettirosso diventava il cammello
e pesce di fiume la pecora.

Venne la sera e fuochi accesero
nel Campo: non c’erano più vedove
sul prato e deserti erano i telai
come battelli in alto mare
come battelli senza marinai.
Immobile era la corda il secchio
e l’acqua e voce non si udiva
in fondo al pozzo: alta luna,
quieta luna su l’acqua riposava.
Rimani mi dicesti e io restai.

Raffaele Carrieri (Taranto, 1905 – Lombrici di Camaiore, 1984) a quattordici anni s’imbarca e fugge clandestinamente in Albania, raggiungendola nell’ultimo tratto a nuoto e dove rimane alcuni mesi; da qui prosegue a piedi per il Montenegro. Nel 1920 è a Fiume con D’Annunzio dove viene gravemente ferito ad una mano. Dopo un breve soggiorno a Taranto si imbarca nuovamente, visita i porti del Mediterraneo e alcune città della costa africana. In seguito si trasferisce a Palermo, per due anni, svolgendo il mestiere di gabelliere. In questo periodo scrive le sue prime poesie che, più tardi, faranno parte della raccolta "Il lamento del gabelliere" (1945). Nel 1923 si stabilisce a Parigi dove conosce i maggiori poeti e artisti dell’avanguardia internazionale. Nel 1930 è a Milano dove comincia a partecipare alla vita culturale come poeta, scrittore, giornalista e critico d’arte. Nel 1953 vince il Premio Viareggio con "Il Trovatore". In seguito si aggiudica il Premio Chianciano con "Canzoniere amoroso" (1959); il Premio Tarquinia-Cardarelli con "Io che sono cicala" (1967); il Premio Internazionale Taormina con "Stellacuore" (1970).