Tu devi prendere il potere

da | Mar 7, 2023

“Tu devi prendere il potere” è il primo libro di Pietro Cardelli, in uscita nella collana “Lyra giovani” di Interlinea con una nota di Stefano Dal Bianco. Pubblichiamo cinque testi in anteprima.

 

CONSOLAZIONE

1.
Può capitare di non pensare a niente per giorni e il tuo soffermarsi sul cibo, la politica, la poesia: la senti la sua inutilità. Questa normalità disarmante ti piace: non opponi resistenza. Ti ascolti, ti lasci ascoltare, e capire o non capire sono solo parvenze, attimi, abitudini.

2.
Gli oggetti si toccano e vibrano, non ci sono spazi tra corpo e corpo, non danno reazioni. La tv resta accesa per inerzia e un’opinione dopo l’altra riesco a sentirmi più vivo. Riconoscersi non è mai stato così facile, basta un volto e una voce.

3.
Ho perso del tempo ascoltandoti, credendo che fosse l’unica azione possibile. Non ci sono riuscito. «Il pessimismo della ragione, l’ottimismo della volontà», ma per loro era facile. A noi tutto è precluso. Accampiamo scuse e mai una lotta.

4.
I corpi che si sfregano non danno che segni istintivi, difficili da valutare. Così da qua dentro ci parliamo uno sull’altro come bestie feroci, in attesa di una felicità che sia non-sentire. La grande tragedia che freme e non giunge resta l’ultima ferita.

5.
Hanno sommerso le nostre impronte con molta neve, scesa densa, a fiotti. La colpa era nostra: ne abbiamo fatto una scusa. Ora nevica sempre più forte: c’è una rabbia definitiva in questo cadere, un accanimento più che quotidiano. Noi la guardiamo da dentro, ci sentiamo distanti: abbiamo fame.

 

 

RINUNCIANDO A QUALSIASI DIRITTO

È difficile capire che non c’è ragione né torto nelle cose,
solo sviluppo, azione, avvenimento.

Eppure
quando come unico fine resta l’accettazione
si finisce per perdere anche tutto il sacro
che c’è
nelle cose.

Io, da parte mia, non ci trovo niente di sbagliato
ad essere noi stessi cose.
Così ho imparato a eliminare l’eccesso
e a sostituirlo con una nevrosi di autocontrollo.
Ho iniziato a pensare ai sentimenti
come a file del computer,
da aprire, chiudere, gettare nel cestino
senza che niente, intorno, ne risenta.
Ho capito che l’attesa è importante
e che deve essere coltivata in solitudine
tra silenzio e silenzio,
azione per azione.

*

È preoccupante però
il risultato. Lo spazio tra me e te,
ciò che ci separa,
non è più incomprensione,
ma diversa forma –
cosa e persona.

«Non perdere tempo a cercare una scusa».

 

 

DIFENDERSI A PAROLE

«Niente di male, assolutamente niente di male». Era successo che il mio solipsismo aveva avuto la meglio sul gesto, che era stata sufficiente l’osservazione, la letteratura. Mosse e posizioni: la miglior vista. Poi il contatto, come un approdo anelato o una medicina dell’anima: un tradimento, la solita tiritera.

Negare l’alterità da ogni campo d’azione. Escludere l’azione prima di ogni istinto. Rifugiarsi nel guscio, rifugiarsi nel centro.

Così ho studiato un meccanismo più sottile e sono tornato al solipsismo di sempre, quando mi accontentavo delle coperte per non avere paura. L’ho fatto di colpo – ed era giusto – ma con più cura nei dettagli, più consapevolezza nelle cose.

Alcune volte penso di accendere la luce solo per visualizzare una risposta.

La disperazione è un male incompiuto.

 

 

DOPO IL PRIMO GESTO

Si muoveva senza alcun tipo di controllo,
i suoi movimenti, anche i più futili o insensati,
si adeguavano a un ordine prestabilito,
il suo esistere si verificava nell’accettazione.

Era facile trovare la giusta posizione allora,
il tono con cui pronunciare discorsi importanti,
la postura ben eretta, le spalle larghe, il bacino vivo.
Gli altri si conformavano a lui, lui agli altri
c’era rispetto e ammirazione.

Di colpo, dunque, il vetro si è infranto
ma l’insetto dietro la finestra
non ha reagito né ha fatto parola.

Avevamo bisogno di un consiglio, di un ordine,
di un destino, non di frammentarci qui dentro
come animali metallici. È rimasta la paura quindi,
fangosa come una memoria a venire,
profonda nella pelle scavata. Servirà del Cif
per cancellarla, un coltello.

 

 

LA RADICE

Il cuoco ha ventisette anni, si chiama
Enrico, il padre lo accompagna in banca, lo sostiene
sacrificando se stesso dopo la morte
e così l’altro figlio, l’idraulico appeso a una lamiera
le mani dentro al tubo, spreme la cenere.
Si lamentano. Hanno i calli alle mani
per il troppo lavoro; in auto guidano
senza pericolo. La madre in farmacia
inventa le medicine, recita a memoria i codici a barre
e conosce tutti i nomi dei pazienti. Anche lei
si lamenta.

Ci sono molti nemici,
ci sono molti lamenti.

Sulla piazza cresce una radice tignosa;
loro vedono le foglie, le farebbero cadere
se potessero, hanno gli attrezzi di ultima generazione.
Le foglie sono stipiti di porte molte piccole
che esistono e quasi non si vedono,
che si aprono solo guardandole con amore,
sono l’ultima graffetta, lo spiraglio.

Loro guardano le foglie come se non ci fosse radice.
La radice è invisibile, è sangue e storia,
è me, te e il salto, l’eco che fugge e ritorna.
Ma se un giorno la tocchi, quasi per sbaglio
l’accarezzi con cura, la vedi davvero,
allora le foglie si alzano, ondeggiano insieme
e nel cielo disegnano una vera costellazione,
tu fissala.

Mi sono alzato e ho visto il mondo
con gli occhi di un nemico, di un compagno:
la radice splendeva di una calma vivissima.