Poesie (1987-2022)

da | Nov 5, 2022

In anteprima dal volume, appena uscito per Garzanti, che raccoglie la produzione poetica di Antonio Riccardi dal 1987 al 2022, con una sezione finale  (“Poesie sparse”) in cui sono riuniti testi apparsi in plaquette o in rivista dagli anni Novanta al 2022, presentiamo un estratto della prefazione di Roberto Galaverni e tre poesie dalla sezione finale.

 

Se il requisito più pressantemente richiesto alla poesia degli ultimi decenni, diciamo dagli ultimi trent’anni del Novecento a oggi, è di essere intrinsecamente motivata, e insieme di garantire una certa qualità, un certo spessore semantico alle parole, credo si debba riconoscere che l’opera in versi di Antonio Riccardi possiede tutte le credenziali per giustificare la propria esistenza, e di conseguenza per essere considerata – come del resto è accaduto – necessaria e credibile, affidabile. Certo, è un autore a cavallo dei sessant’anni, e di conseguenza c’è da credere che altre poesie si aggiungeranno nel tempo a quelle già scritte, ma è vero che i quattro libri che si raccolgono qui, e che pur nella loro autonomia fanno molto strettamente corpo, dicono di un poeta che è riuscito a piantare il bastone per terra, o se si preferisce a stringere viti e giunture delle sue parole, così da chiudere il cerchio della propria poesia senza lasciare nulla d’intentato (le due immagini non sono casuali, essendo il mondo naturale e quello tecnico-industriale i due principali ambiti di riferimento, assieme al motivo amoroso, dei suoi versi). È riuscito insomma nell’unica cosa che conti davvero, quella di dare corpo a una lingua poetica fondata e concreta; detto con una parola, a una lingua poetica reale. Non era affatto scontato. Ed è per questo che ho preso l’abbrivo da una constatazione che, propriamente, avrebbe dovuto arrivare al termine di queste mie considerazioni. Ma, a ben vedere, è proprio vero il contrario. Come ha scritto Eugenio Montale, la poesia «sta come una pietra / o un granello di sabbia». Ed è senz’altro giusto. Anche al di là di richiami di natura storica o sociologica che rischiano sempre di lasciare il tempo che trovano, questa poesia merita attenzione e credito perché è in grado di stare, e non per altro. Ma il fatto è che Riccardi appartiene a una generazione, quella dei nati tra lo scadere degli anni Cinquanta e la prima metà o poco più dei Sessanta, che questa stabilità, questa consistenza espressiva, questa legittimità d’esistenza ha faticato forse più di altre a raggiungerle. O, chissà, forse è stata semplicemente la prima a sperimentare come un dato di fatto ormai acquisito quella che sarebbe diventata la condizione comune a tutti, a chi sarebbe arrivato dopo, ma anche a chi era arrivato prima. Si tratta di quei processi che hanno conosciuto una straordinaria accelerazione nel corso degli anni Settanta: lo sfaldamento progressivo della società letteraria, della tradizione e della cultura poetica; l’assenza di un campo poetico condiviso, d’intesa o di scontro che sia; il ridimensionamento e il decentramento della poesia e del ruolo del poeta, il prevalere della dimensione privata rispetto a quella pubblica, il trionfo di una specie d’orizzonte piatto, sempre più privo di gerarchie di valore e di riferimenti garantiti, nel quale se da un lato ogni cosa – nel nostro caso, ogni scelta espressiva – appare di fatto legittima, dall’altro, e per gli stessi motivi, rischia poi di risultare aleatoria e ingiustificata al pari di ogni altra.

Roberto Galaverni

 

***

da “Poesie sparse”

VULCANO CONCORDIA UNIONE VITTORIA

Coperta di cenere la città
di Vulcano e di Concordia
la mia caccia è stata in casa
nel bosco delle reliquie
secondo l’ombra che si figura
a Cattabiano.

*

Sale dal buio al mattino questa città
in credito d’aria, sfiduciata
nella polvere del ferro.
Dovrò tornare dal bosco reliquiario
e scavare nel bosco in rovina
tra gli impianti dismessi
di Unione e Vittoria
per vedere salire la nuova città
e avere per noi un’altra natura.

(1990)

 

ENIGMA SOGNATO IN FORMA DI ALFABETO

Ancora in sogno, mio padre plana
dal grande ciliegio del Madone
come se niente fosse e planando
mi parla sottovoce, senza affanno
del nostro podere oggi mal tenuto
a pensarlo nel suo splendore
cinque generazioni prima di noi
quando a tenerlo era Pietro Giovanni
appena chiuso il secolo dei Lumi
e con quello se dio vuole la deriva
la smania di cambiare le cose buone
tanto bene e a lungo pensate.

Non erano mai stati da un’altra parte
in nessun posto, via da Cattabiano
dice piegando le ali
come per dire: bisogna capire
aver pazienza con i morti
a volte più che con i vivi…
E per sigillo
prende uno stecco di sambuco
segna in terra vicino a me
due parole con due segni a croce
e un fiore dentro un anello aperto
per dirmi qualcosa che devo capire
un codice che io però non vedo,
non so vedere.

Poi cancella con la mano a taglio,
un gesto largo dal basso in su
e segna in terra una lettera alla volta
per farmi vedere l’enigma del futuro
in forma di alfabeto.

(2018)

 

TURMAC E LA TARTARUGA

Immagina la loro sorpresa
a vedere la piccola tartaruga
nella scatola di cartoncino
delle Turmac di Rodolfo,
lo zio medico condotto.

Chiamati in cerchio i bambini,
Rodolfo aveva sollevato piano
il sigillo della fragile tana,
come se elastico fosse stupore.

Anni dopo, a guerra finita,
tutti loro increduli ancora
e frastornati dagli accadimenti,
la tartaruga era sbucata dal niente
dalla siepe in fondo al giardino.

La disciplina del distacco,
ho pensato sentendo raccontare
il figlio di Rodolfo ormai vecchio,
la coltivi sempre dall’inizio.

(2005-22)