Un poemetto in anteprima da “Ave Maria piena di rabbia” di Gloria Riggio, appena uscito per le edizioni BeccoGiallo con illustrazioni di Giulia Zanotto.
Anch’io
ho scritto qualcosa sulla resistenza, ma l’ho chiamata
PERIODI IPOTETICI.
Perché diciamocelo, io cosa ne so di resistenza?
Niente.
Potrei parlare di resistenza
se vivessi in un posto in cui ci fosse qualcosa a cui resistere.
Ecco, per ipotesi, potrei parlare di resistenza
se vivessi in un posto in cui esistesse il fascismo
o sue forme sorelle, dentro e fuori le celle
se esistessero in qualche misura razzismo o machismo
se in Italia, per ipotesi, Casa Pound scendesse in piazza
se esistesse ancora il mito della razza
se fossero necessarie campagne che recitino “se ti ama non ti ammazza”.
Potrei parlare di resistenza
se vivessi in un posto in cui se sei nero sei il pericolo
o in un posto in cui se sei nero sei in pericolo.
Potrei parlare di resistenza
se mia sorella avesse paura a camminare sola in un vicolo,
se amare chi amo costituisse un vincolo,
se Peppino Impastato fosse stato per vent’anni chiuso dentro un fascicolo.
Saprei cos’è la resistenza
se venissi da un posto che perde ventimila giovani
all’anno, se – sempre ipoteticamente
in cuore sapessi, pur dicendo
il contrario, che non torneranno,
saprei cos’è la resistenza se l’estrema destra
si insediasse in parlamento citando Borsellino
o se qualcuno usasse ancora l’appellativo padrino
Pensa, la resistenza…
Potrei parlare di resistenza se esistessero uomini morti per aver combattuto la mafia
o, che poi è la stessa cosa, se per le strade del paesino i miei
compagni dell’asilo spacciassero la coca.
Potrei parlare di resistenza se vivessi in un paese che fa i processi alle vittime,
se avessi sentito chiedere ad una donna stuprata le ragioni legittime
dello stupratore,
se uscissi ogni giorno di casa con una mutria
arrabbiata cucita sul viso: non sia mai il mio sorriso
faccia da invito all’abuso.
Potrei parlare di resistenza se la politica in Italia parlasse dal pulpito,
se riuscisse a far propaganda schierando il penultimo contro l’ultimo.
Potrei parlare di resistenza se vivessi in un paese che rigetta in acqua
chi arriva dal mare come pesce imbevuto di piombo
salvo battersi il petto quando gli muore nel grembo.
Parlerei di resistenza se la battigia fosse diventata una battaglia,
se il Mediterraneo fosse divenuto una stretta di tenaglia,
se mia nipote avesse confuso in spiaggia l’occhio di un morto
con il bianco di una biglia,
se dentro il vuoto di conchiglia
non sentissi più le onde ma le urla.
Potrei parlare di resistenza se ipoteticamente ma, io dico, ipoteticamente,
esistesse qualcosa di aberrante come gruppi telegram
dal nome Instacagne o Canile minorile,
ci sarebbe davvero da tremare, da temere, ci sarebbe davvero da lottare.
Potrei parlare di resistenza se mi fossi davvero tolta la vita
in quell’altra vita
dopo essere scivolata di schermo in scherno
oltre la balaustra della mia libertà violata,
se avessero poi scritto sulla lapide, per coerenza,
morta di bravata.
Se intorno alla bara di mogano, sulle sponde di un fiume o
dentro un fuoco di cofano,
livida, mi fossi risvegliata circondata da un’Italia,
ironia vuole, inginocchiata,
che mentre prega sussurra se l’è cercata.
Potrei parlare di resistenza
se mio fratello avesse timore d’essere fermato una qualsiasi notte e perquisito,
se mio fratello dovesse aver timore nel prestare aiuto ad un amico indifeso,
se di colpo tutto ciò in cui hai sempre creduto diventa tutto
ciò che hai sempre frainteso.
Saprei cos’è la resistenza
se lo stato laico brandisse il rosario,
se gli operai morissero in fabbrica per una miseria di salario,
se guardassimo a queste parole come a scalpi dentro un ossario– con deferenza e inquietudine,
sino a quando non ci voltiamo
se fare memoria fosse un appuntamento ad orario,
e dopo gli onori del caso «sipario!»,
se tutto questo
non fosse immaginario.
E invece lo è:
è tutto immaginario, ed è un tale sollievo
come quella bella parola cui rende ogni anno grazie
la nostra nazione:
è tutto immaginario, ed è davvero
una liberazione.