Non “una storia come le altre”. Su Alessandro Ricci

da | Lug 30, 2020

di Emanuele Franceschetti

 

Bisogna anzitutto liberare il campo da facili equivoci: quella di essere semisconosciuta non è mai condizione sufficiente affinché sia necessario (non si faccia caso al bisticcio di parole) avvicinarsi con rinnovata attenzione all’opera di un autore. (Ri)accendere la spia dell’interesse su pagine poco o nulla conosciute può senz’altro contribuire a riattivare prospettive di lettori e studiosi, ma in ogni caso sempre evitando atteggiamenti agiografici, dove l’entusiasmo per la novità – o per la riscoperta – rischiano di sostituire la lucidità necessaria per una giusta collocazione critica dell’autore.

Alessandro Ricci: chi era costui? Romano con origini piemontesi, classe 1943. Insegnante, poeta, sceneggiatore. Grande lettore e appassionato di cinema, vivace ascoltatore di musica. Uno uomo schivo, quasi appartato. Severo e insofferente (come dargli torto?) verso i ben noti meccanismi tipici dell’ambiente poetico. Muore prematuramente nel 2004. Nel 2019, per i tipi di Europa Edizioni esce un volume comprensivo di tutte le poesie di Ricci[1]: a curarlo è Francesco Dalessandro, poeta e critico romano oltre che amico fraterno di Ricci. L’ottima introduzione, centrata e rigorosa, è firmata da Michele Ortore. Il volume è esaustivo e dettagliato. Vi si ripercorre l’intero itinerario poetico di Ricci – dalle due raccolte pubblicate in vita alle altre postume, scrupolosamente approntate da Dalessandro -, con in aggiunta una ricca notizia biografica (che è in realtà una testimonianza diretta del curatore), e la bibliografia critica, non proprio abbondante, di cui Ricci è stato destinatario (si segnalano per lo più interventi di Dalessandro, Pontiggia, Pazzi, Ruffilli, Agosti, Deidier: voci, come si vede, tutt’altro che trascurabili).
I dettagli biografici ci forniscono il ritratto di un poeta (di un uomo) distante dai riflettori. Ma non isolato né tantomeno inerte. Indubbiamente la sua vivacità intellettuale è più tesa ad una progettualità culturale condivisa che non  alla ‘costruzione’ di una propria carriera poetica, e questo sarebbe già sufficiente per marcarne l’enorme distanza con le comuni tendenze odierne. E infatti le attività della rivista romana «Arsenale», che ‘nasce’ a stampa sul finire del 1984, devono molto all’iniziativa dello stesso Ricci, oltre che, naturalmente, a quella di Gianfranco Palmery, principale animatore del laboratorio letterario e umano del periodico. Mi piace segnalare, se non altro come bella testimonianza di quegli anni e di quella vivacità culturale di cui Alessandro Ricci era parte integrante, una lettera di Giorgio Caproni indirizzata allo stesso Ricci, e avente come oggetto l’aggiustamento di un testo che Caproni avrebbe pubblicato su Arsenale»: la lettera, che rivela una buona confidenza tra i due, oltre che un’evidente stima di Caproni per Ricci, è riportata in un articolo di Carlo Pulsoni e Luca Zuliani, peraltro disponibile in rete.[2] Ma è al Ricci poeta – ai testi, alla lingua, allo stile – che vorrei dedicare queste note.

Come precisa bene Ortore nella sua introduzione, Ricci è un poeta “complesso e ragionativo, razionale ma capace di muoversi per lampi intuitivi che richiedono attenzione e rigore”; buona parte dei suoi testi scoraggia una lettura di immediato trasporto, una lettura per così dire sentimentale. Ricci è un poeta colto, capace, versatile (nonostante l’intransigenza con cui giudicherà successivamente il proprio lavoro); è, inoltre, un poeta dotato di molteplici registri espressivi, che esercita con estrema libertà, senza mai aderire o alludere, anche solo implicitamente, ad una poetica di riferimento. Questo si realizza non soltanto nella misura in cui, ragionevolmente, ogni poeta diversifica le proprie forme e i propri ‘materiali’ nel corso della propria stagione creativa, spesso preparando già il terreno al critico che individuerà ‘fasi’ e ‘periodi’: Ricci sembra lavorare costantemente senza porsi il problema dell’unità di stile, della ‘riconoscibilità’ della voce e dell’omogeneità delle proprie raccolte. Ricci non immagina né prevede il momento della ricezione, non si interroga sulla collocabilità del proprio lavoro. Si reputa un dilettante, dice che della sua esperienza poetica salverebbe ben poco. Ma – su questo punto Dalessandro può essere considerato garante attendibile – non c’è in Ricci la ‘posa’ dello scapigliato o dell’intellettuale incompreso. C’è invece una bella (e franca, e per alcuni versi addolorata) ingenuità, quasi pavesiana, che lo portano a dire di sé esattamente quello che non poteva suonare gradevole (e forse ancor meno piacerebbe ora) alla maggior parte dei poeti. In un’autopresentazione chiesta a Ricci da Carlo Bordini, il nostro dice di “aver scritto, in passato, per salvare la pelle o sublimare qualche dolore che lo meritasse, per certe interruzioni del niente in squarci di bellezza che sì e no ho saputo riprodurre”. Poesia come gesto esorcizzante, autobiografico, sublimatorio. Come testimonianza personale o ‘abbozzo’ di dichiarazione di poetica, è pressoché un suicidio: ad esclusione forse di certe voci affini nell’ambiente romano o di qualche poeta innamorato[3], le parole di Ricci non avrebbero (qualora fossero state lette) convinto nessun intellettuale ‘avvertito’, e ancor meno – presumo – lo farebbero oggi. Nessun riferimento alla morte della poesia, all’annullamento del soggetto locutore, nessun accenno alla scrittura come differimento, automatismo, messa a ferro e fuoco del linguaggio. Ma neppure mai, all’opposto, una traccia di tensione metafisico-spirituale,  non un’illusione circa le possibilità veritative e salvifiche della poesia. Ricci è un ateo severo, dotato di straordinaria lucidità e di poca indulgenza, per sé e per il proprio ‘ruolo’. Ed è, come conseguenza di questo, quasi del tutto privo di speranza o fiducia. Che poesia è, dunque, quella di Ricci? Complessa, ragionativa, intellettuale? Oppure Ingenua, diaristica, sentimentale?

Consideriamo il primo dei quattro testi che ho scelto di riportare in appendice, tratto dalla prima raccolta pubblicata (Le segnalazioni mediante i fuochi, 1985). A mio avviso è piuttosto efficace per dar conto di alcuni elementi che marcano la scrittura di Ricci. Anzitutto, come già detto: un personalissimo balance di registri e ‘toni’. Se l’incipit è di tono tragico (“Il cardo cresce nel ventre aperto / che spazzola quest’altezza”) e certi costruzioni segnalano persino un’intonazione aulica (si pensi alla posposizione del soggetto: “Dal paese fora montagne di luce / uno schiocco di finestra premuta dal sole”), più avanti prevale invece un’intenzione più rapsodica, nervosa, con un punto di deliberata trivialità, che viene controbilanciata da un inciso in latino (“Uva americana, mettere a fuoco / il Monte Grosso nel tralcio – sed / aestus est -, i porci / ruttano dalla corte, raspa il merci / sul ponte di ferro […]”). La presenza del soggetto è limitata ad una rapida ed improvvisa emersione: soltanto una segnalazione (“sono qui”), nient’altro. Il resto è lavoro di osservazione e trascrizione, accumulo di immagini in movimento: in questo, mi sembra, è evidente la traccia del suo legame col cinema. La lingua è nitida ma non prosastica: ragionativa, appunto, inquieta e interrogativa (“Quod petis hic est?”, citando Orazio).

È una scrittura densa di materiali, di reminiscenze, di innesti. E di vere e proprie comparse: figure prelevate, quasi sempre, dalla storia. Lucrezio, Lentulo, Messalla, Ammiano Marcellino, Furio Seniore diventano i protagonisti di gran parte delle poesie di Ricci, specialmente nella prima silloge. La storia greco-romana, infatti, offre a Ricci una collezione di figure che, come rilevava bene Stefano Agosti, evitano all’autore il rischio dell’iper-soggettivismo, dell’atteggiamento confessionale. In questi testi ‘storici’ Ricci raggiunge il massimo grado di levigatezza formale, quasi che il racconto (“io sono un dilettante che racconta storie realmente accadute”), storico o presunto tale, lo portasse a ricercare un maggior nitore, una maggiore distanza dall’oggetto narrato.

Sono queste, probabilmente, le pagine che hanno portato lettori e critici all’idea di ‘alessandrinismo’ di Ricci: stile ricercato, maniere dotte, esibizione di riferimenti colti. Ma in Ricci questo si realizza senza compiacimenti, senza decorativismo: un alessandrinismo ‘tragico’, piuttosto, in cui anche le figure della classicità appaiono in tutta la loro integrale umanità e attualità. Bisogna, però, tener conto anche di quei testi in cui a prevalere è il ‘lampo intuitivo’ di cui parla Ortore. Leggendo Mi degrado nell’odio, le intenzioni di Ricci sembrano piuttosto diverse, e piuttosto diversi gli esiti: il fraseggio è spezzato, minore la distanza, maggiore la temperatura emotiva. In Mi degrado nell’odio il discorso è totalmente centrato sul sé, senza alcuna reticenza né compostezza (“Mi degrado nell’odio, covo / il tumore nelle tonsille, sogno / esplosioni gialle nella nebbia […]”), quasi agìto in tempo reale, senza mediazione ragionativa. Qui Ricci cede all’elencazione ossessiva, come per una nevrotica necessità di definirsi a partire da certi suoi stati o atteggiamenti ricorrenti (“sapevo di Rimbaud / in Africa prima di leggerlo, amo / tantissimo il cane, ammiro / gli antiruggine, le guarnizioni, / i feltri, guardo solo / per terra, gli alberi mi / feriscono”). Fino alla conclusione, fulminea e letale: “È una fine potente, / spettacolare, da / vergognarsi “.

È difficile, di fronte ad una scrittura del genere, accontentarsi di un’ipotetica prossimità con Kavafis, che pure è stata proposta a più riprese. Certo: anche Kavafis popola i suoi testi di personaggi storici, anche Kavafis è un poeta alessandrino (“un vero alessandrino nello spirito e nella carne”, lo definiva Montale nel 1955[4]); ma la poesia di Ricci è meno levigata, meno piana. Nei testi di Ricci la lingua, il pensiero e la struttura versale sono in costante sussulto (Eliot parlava, a tal proposito, di “contrasto tra fissità e fluire”): difficile individuare una ricorsività metrica, un paradigma strutturante. Permane, invece, una tensione che talvolta trova il suo apice in un fermo immagine quasi kafkiano, come accade nelle chiuse di Autostrada del sole e Natale a piazza Navona, entrambi da Indagini sul crollo (1989). In entrambi testi stupisce la forza oggettivante dello sguardo, che però non si accontenta dell’accumulo, dell’elencazione e della fotografia: in ciò che guarda Ricci cerca una verticalità, un movimento dal particolare all’universale, dall’io al noi/voi (“Questa notte sono stanco anche / per voi, ho nella mia le vostre / facce dissepolte dal buio, mi sento / di Reggio Emilia o Calabria, con o senza / basette e famiglia, rappresentante / o emigrato, uomo o uomo”; oppure “Severissimo amore, / in questa piazza si compiono sacrifici / da innumerevoli anni. Sento il cuore / vivente male. Aver conosciuto / si dice nosse. Avere nient’altro / è questo”).

Difficile non individuare, negli ultimi due esempi riportati, l’assimilazione del pieno Novecento montaliano e luziano (il frammento di Autostrada del sole non può non richiamare Presso il Bisenzio). E, pensando ai suoi coetanei (Cucchi, Bellezza, Conte, solo per citarne tre difficilmente accostabili), impossibile supporre consanguineità generazionali, se non per l’ovvia estraneità ai climi d’avanguardia. Nei suoi libri degli anni Ottanta (gli unici due pubblicati in vita) non c’è quel senso di “quiete dopo la tempesta” che Andrea Afribo individua nel primo Magrelli, né il petrarchismo/pascolismo caro a certe voci romane di quegli anni. C’è invece piena contezza del limite, della fine; una chiara e robusta percezione della morte, ma per nulla prossima al taglio estetizzante e maudit di un Bellezza: più vicina, a mio avviso, a quella di un altro poeta appartato (anche geograficamente) e fondamentalmente ‘tragico’, come il marchigiano Remo Pagnanelli.
C’è, in Ricci, una dialettica costante tra la dimensione storica e quella autobiografica, tra il presente ‘privato’ e il ‘già accaduto’ della storia. Entrambe le polarità, tuttavia, trovano un raccordo possibile nell’idea di una parola poetica che sia, per citare lo stesso Ricci, “interruzione del niente”. Ma con un’accezione, a mio avviso, meno dimessa e blanda di quanto potrebbe suggerire una lettura superficiale di tale espressione: non compensazione della noia, non evasione. Quanto, piuttosto, individuazione di una rottura, di una faglia. Di uno spazio ‘altro’ in cui riconsiderare la storia, gli uomini, la lingua, la fine delle epoche e la prossimità della morte; ma da una distanza  che somiglia ad uno “scarto”, ad un “anacronismo”, nell’accezione data da Agamben. Un anacronismo che permette a colui che – sempre con Agamben – mal si adatta alle aspettative del proprio tempo, di essere davvero contemporaneo, di abitare davvero la propria storia.

 

Da Segnalazioni mediante i fuochi (1985)

Il cardo cresce nel ventre aperto
che spazzola quest’altezza.
…………………………Sono qui
nuovamente, dove la nuvola.
L’erba va riscaldando, e secca è la terra
che la nutre. Un cumulo accecante martella
l’azzurro, esplode in volumi. Acque scivolano.
Quod petis hic est? I carri dell’infanzia
sono fermi sulla salita, le conterìe
del lume primo ‘800 sulla partita
a tarocchi danno suoni sinistri.
Dal paese fora montagne di luce
uno schiocco di finestra premuta dal sole,
e mi giunge.
Il segno è questo?

………….Erano un tempo muri per vaganti
nuvole di paese, di rado passeggere
nel mese di Ippolito che bianche
le definì, i barricanti
muri alla luce, lo scivolo
del vento – intera valle – sulle cime,
e sulle cime degli alberi.
Uva americana, mettere a fuoco
il Monte Grosso nel tralcio – sed
aestus est -, i porci
ruttano dalla corte, raspa il merci
sul ponte di ferro,
digrada feluca in concavo, ah il rullo
della pianòla che si svolge,
si svolge e il rancore del sordo
spossato dalla Marcia turca
nella camera del pulviscolo
trainata dal mondo.

 

*

Mi degrado nell’odio, covo
il tumore nelle tonsille, sogno
esplosioni gialle nella nebbia
a Parma, scherani in retata
a Reggio, disperati saloni,
travolti silenzi, maschere
che chiavano nelle vasche
tra murene stecchite
dal gelo, servo tutti, nessuno
chiama, sapevo di Rimbaud
in Africa prima di leggerlo, amo
tantissimo il cane, ammiro
gli antiruggine, le guarnizioni,
i feltri, guardo solo
per terra, gli alberi mi
feriscono, le rondini
non esistono, mi assordo
e m’acceco, muoio
ogni minuto, ma poi
rivivo, rinasco dal sangue
di mamma, sturo, schizzo,
mi spargo sulle
lenzuola che s’arrossano, fetente,
pravo.
Poi ricomincia.
È una fine potente,
spettacolare, da
vergognarsi.

 

 

Da Indagini sul crollo (1989)

Autostrada del sole

So a memoria parecchie poesie
di Lowry, qualche passo latino, due
o tre lettere di Dylan Thomas
ed altro ancora. Mi piace e
mi riesce far scivolare la macchina
in controsterzo nelle curve veloci.
Insomma sono un guidatore bravo
e colto, nei bar Alemagna delle
stazioni di servizio entrano prima o poi
i tanti che ho sorpassato, che
sorpasserò, ma io resto certamente,
come disse la maestra alla mamma,
ben altrimenti sensibile. Sarà pure vero
che sia così, uomini sciamannati
in ressa alla cassa.
Questa notte sono stanco anche
per voi, ho nella mia le vostre
facce dissepolte dal buio, mi sento
di Reggio Emilia o Calabria, con o senza
basette e famiglia, rappresentante
o emigrato, uomo o uomo.
……………………………………..Ho finito
la pagnottella, ho finito il caffè, ho finito
pure la sigaretta e questo venerdì, ho sonno.
Amerei la vita pur
nella luce dei neon, tra i soffi
della Faema Express, le monete
da cinquanta nel piatto,
il trillare idiota dei flipper
laggiù nel fondo.
L’amerei, ma non posso. Ora so, chiara-
mente?, che l’incubo (non) durerà.
……………………………………….Sto così in piedi,
in mezzo alla gente che non lo sa, che non deve
saperlo.
………………………..E perché poi?
Il cassiere ha una giacca esausta
e occhi giallo banana. No, è il contrario,
le parole sbagliano sempre; dio, ti prego
che non capisca, che non mi legga il pensiero
con quest’errore, che non s’offenda.
Lo guardo con amore. Lui aspetta che paghi.

 

*

Natale a Piazza Navona

Per quattro, cinque lampade appese
a un filo, è il baraccone che oscilla
allo scirocco, è la piazza che rulla
al largo di Tripoli. Corrono delirando
le nuvole del deserto, fanno fuoco,
fanno scintille sulle torri barocche,
sui minareti delle sante cristiane,
avvampano in un ebbro serraglio questo
Natale dell’occidente, senza più
pace.
………………………Severissimo amore,
stanotte hai portato qui
un automa a rivedere le statuine
sorridenti dei Magi, la frutta vera
coperta di cioccolata,
lo zucchero filato e l’idea
della neve.
……………………….Invece traversano
loschi ceffi l’oasi scatenata,
stride ogni giuntura in attesa
di crollo, vola e sarà
una smania.
……………………….Tornano a mente
efferati la rissa al postribolo
di Alessandria e l’impegno
di non parlarne prima
che fosse tardi.
………………………..Severissimo amore,
in questa piazza si compiono sacrifici
di innumerevoli anni. Sento il cuore
vivente male. Aver conosciuto
si dice nosse. Avere nient’altro
è questo.
La ragazza truccata dei flobert
vuole che spari. È l’ultima
a chiedere. Gli altri hanno
già riposto involucri e
l’anima nelle baracche, prima
dell’uragano.

 

[1] Alessandro Ricci, Tutte le poesie, a cura di Francesco Dalessandro, Europa Edizioni, Roma, 2019.

[2] Carlo Pulsoni – Luca Zuliani, Negli scrigni di «Arsenale»: varianti inedite di Caproni (e un’interpretazione della poesia Il nome), in «Critica del testo», XVIII / 2, 2015, reperibile online al link: http://www.insulaeuropea.eu/wp-content/uploads/2019/01/Pulsoni-Zuliani_CdT_2_2015.pdf

[3] Il riferimento è ovviamente all’antologia La parola innamorata, uscita nel 1978 a cura di Giancarlo Pontiggia ed Enzo De Mauro.

[4] Eugenio Montale, Sulla poesia, Mondadori, Milano, 1976, p. 541.