Nimbus

da | Nov 29, 2022

Cinque poesie in anteprima da “Nimbus” della poetessa tedesca Marion Poschmann, appena uscito a cura di Paola Del Zoppo per Del Vecchio editore.

 

“Tante forme ha il mostruoso,
e niente è più mostruoso dell’uomo.”
Sofocle, Antigone

E TENEVO LA NEVE NELLE MANI CALDE

Appena ieri indugiavo tra montagne coperte
di neve. Ora sono spianate, sciolte, pulite
proprio come si sbrina un frigorifero. Ho visto
l’acqua scorrere, ho visto il ghiaccio
staccarsi dalle pareti, cadere tutto
a valle e farsi liquido, farsi valle
e farsi nulla.

Appena ieri adoravo le montagne.
Ho comprato cartoline, da spedire a me stessa,
a casa, per ricordo della distruzione
che compivo, col mio sguardo scaldavo
la Groenlandia scioglievo
i ghiacciai, proprio mentre li scorrevo
con la mente. Il desiderio non è

qualcosa di impossibile, si dice, e se si vuole
si può – rendere l’aria sottile ancora adatta,
obbligare il mostruoso a farsi ancora
più mostruoso, più leggero, come se
dormissimo nella nostra poltrona
immersi nel sogno di un lungo volo.

 

USANZE KURGAN

Minusinsk, si chiamava, osservazioni sottozero,
in Russia, in fondo la luce di
animali ghiacciati che illumina
da dentro le caverne,

panzer scintillanti intorno a
palle di pelo di cavallo, boli di pelo, materassi
di paglia che emergono dai ricordi,
si scongelano, feticci dei gradi sottozero

nelle tombe, le coppe dei crani
risvegliate a nuova vita
e pelli marcite
in un accappatoio di ghiaccio.

Cosa permane: la luce di animali
Dorati, cervidi, arrotolati, con la testa
schiacciata tra gli zoccoli che
gira all’infinito nell’incanto del sole di Siberia.

 

 

NEVE RESIDUA

Ero l’energia oscura dei molti,
alla cui base c’è tutta la luce. Daimon
Berlino, un produttore di batterie,
di torce tascabili, buonsenso industriale.

Ma parliamo di petrolio. Quando il giorno chiaro
precipitò come al solito dalla sua pedana,
mi crebbe una pelliccia di tubi, ero il sole,
e i miei raggi arrivavano fino in Siberia.
Melanconia dell’informe, idolo,
che scorre nei tubi, gocciola in fondo
e lucida a specchio i pantani. La luccicante
intelligenza delle profondità serpeggia

e a ogni curva si inchina.
Cavalcare la tigre. Le sue strisce scivolano
sulla mia gamba come sangue mestruale.
E io avevo splendore, e rabbia.

 

 

FORMULE DEL PATHOS

Una porzione di bosco, ancora coperta del grigiore
socialista degli anni Settanta. Il flusso del traffico e

tutto il resto a debita distanza. Campi
bui. Pini che bruciano. Fumo fino a Berlino.

Questa collezione di conifere non poteva
togliergliela nessuno. Abeti nell’ombra.

L’araucaria auracana. Il suo oro nero: tutto
perso nelle fiamme. Il bosco perse il suo posto

per aggirarlo. Pioggia di cenere. Il piano era
tornare nelle paludi di equiseto, ah, nel

carbonifero. I tronchi inceneriti, colli distesi
al cielo degli erbivori e fiamme battenti che

affondavano i loro denti in gole giovani. Anche
lui, il T-Rex, un minuscolo accendino tra gli

artigli dei dinosauri, e intorno a lui il bosco in
frantumi, la storia accartocciata, il più remoto tempo

fluisce e si fissa nel fumo. Questo gli sostituì il
sole alto che mancava. Seccare. Smaterializzare.

 

 

PORTALI DI NUBI

Non sul margine dei mari più remoti,
alla fine del mondo non volevo andare,
non lì dove le montagne di ghiaccio
sprofondano e attestano altra grandezza

voglio aspettare qui, sulla spiaggia
dell’esattezza, dove ogni singolo granello
è contato e pagato,
la sabbia su cui alloggiamo quando

proviamo a sentirci a casa
tutelati dall’indignazione del sole cocente,
sotto il cielo che trabocca, affianco
agli ombrelloni che svolazzano, chiusi da tempo.

Il rumore vicino è delle sfere,
impensabile, l’orlo di questo ambiente, da cui
da ogni nuvola precipitano le tempeste
e nell’abisso, nell’abisso scompaiono.

Com’è possibile che io mi tenga qui
a malapena al ciglio, a poco dalla caduta
nel cosmo, cosa mi tiene qui, mentre
so che presto saprò volare.

Ma di giorno mi ripiego come un verme
sull’asciugamano in spiaggia,
avvolta già in sudari in vita,
mescolata col rumore

forse del vento, o dell’acqua
un pianto nella sua forma più astratta,
quando l’umido porta il sale e le cose
si corrodono troppo in fretta.

Nel corridoio di teli ammucchiati,
tra spugne e accappatoi
scivolo con la rotazione terrestre
e mi chiedo

se mi sto muovendo
sull’orlo di questa spiaggia,
non più orientata rispetto ai giorni
della settimana, alla data, al mio nome,

mentre il frastuono del mare mi piomba contro
come se fossi io certezza.
E statica cammino sulla spiaggia
e sento lo scontro, lo scroscio,

il tuono delle onde,
si alzano a torre contro di me
e io ancora aspetto
la tua terribile vicinanza,

che arriva rotolando e si accavalla
e mi trascina con sé
oltre il conosciuto
verso l’interiore.