Morte della parola scritta?

da | Feb 11, 2023

Pubblichiamo, in anteprima da “La letteratura verso Hiroshima e altri scritti (1959-1975)” di Giovanni Giudici, pubblicato per la prima volta nel 1976 e da poco riedito a cura di Massimiliano Cappello (Ledizioni, 2022), alcuni estratti dall’articolo di apertura della prima parte del volume (“Intellettuali e potere nella civiltà dell’informazione”). 

 

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Se mi è consentito un paragone che non è formalmente del tutto corretto, direi che tra i mezzi tradizionali e i nuovi mezzi di informazione-comunicazione passa in certo qual modo la stessa differenza che si poteva in altri tempi istituire tra letteratura e giornalismo, ossia tra due diversi modi di essere della parola scritta, diversi appunto perché governati da diversi criteri di valore. Ma vorrei ricordare subito, a questo proposito, che l’avvento del giornalismo moderno (e di altri modi d’uso della parola scritta) non ha certamente soppresso le ragioni d’essere della letteratura, sia come fatto d’arte, sia come fatto di pensiero, sia come fatto di consumo; è accaduto piuttosto il contrario, ossia che nei secoli a noi più vicini la letteratura (creativa, filosofica, saggistica) è diventata sempre più letteratura, liberandosi da una quantità di funzioni delegate che propriamente non le sarebbero pertenute ed alle quali aveva dovuto, in mancanza d’altro, assolvere. Le opere letterarie dei secoli che precedettero l’avvento del giornalismo o della pubblicistica divulgativa moderna assolvevano in effetti anche a funzioni informative che non erano propriamente letterarie: pensiamo a certe summe didascaliche in verso o in prosa, ad esempio; pensiamo a opere come la “Divina Commedia” che per i contemporanei di Dante dovette essere, oltre tutto, e forse prevalentemente, una sorta di enciclopedia teologico-cosmogonica e insieme un trattato di scienza politica e addirittura un libello di fazione. Il tempo l’ha liberata da tutte queste funzioni sostanzialmente accessorie; e l’avvento di altri canali di informazione ha liberato analogamente la letteratura da compiti ad essa non propri. Non a caso si è cominciato a parlare di «poesia pura» soltanto nel nostro secolo.
Quando si mette in questione (forse a titolo puramente provocativo o accademico) la sopravvivenza della parola, anzi della «parola scritta», non ci si riferisce più evidentemente alla sola parola letteraria, ma alla parola scritta nella pluralità delle sue applicazioni, private e pubbliche. Decadenza della lettera privata?
Certo: perché scrivere, quando si può parlare a voce o per telefono? Decadenza dei giornali? Indubbiamente: perché leggere il giornale, quando si può disporre attraverso la radio e la televisione di notizie rese ancora più vive dalla presenza simultanea del comunicante sul luogo dell’avvenimento comunicato o dall’apparente (e molto raramente sostanziale) «obiettività» dell’immagine? Decadenza dei libri di testo o delle dispense in tutte le varie forme della cosiddetta «educazione degli adulti»? Niente da dire: perché costringere onesti padri di famiglia, stanchi di una giornata di lavoro, a chinarsi sui libri alla luce di un casalingo abat-jour, senza nemmeno esser sicuri che capiscano quel che leggono, quando sul posto stesso delle loro retribuite occupazioni quotidiane è possibile istruirli semplicemente inserendo dei videotape in un sistema di televisione a circuito chiuso? Nei casi esemplificati non è affatto improbabile che i nuovi mezzi di informazione e comunicazione siano destinati in breve volgere di anni a soppiantare completamente i mezzi tradizionali. Il videotelefono, tanto per citare un caso, darà alla pratica dell’epistolografia privata un colpo veramente mortale: a quella muta e fredda raccolta di segni scuri sul bianco della pagina che è la lettera, subentreranno la voce e la faccia stessa di chi scrive e di chi risponde, il «tempo morto» del rapporto epistolare sarà soppiantato dal «tempo vivo» di un rapporto tecnicamente affrancato (almeno per ciò che concerne la vista e l’udito) da ogni limite di tempo e di spazio. In altri termini ci troviamo davanti a una duplice prospettiva:

• lo sviluppo dei cosiddetti «linguaggi non verbali» ossia di forme di espressione che prescindono dal mezzo della parola ovvero lo utilizzano in modo abbastanza marginale (immagini fotografiche e cinematografiche, televisive; grafismi puri e, ad altri livelli, tutti i linguaggi dell’elaborazione dei dati);
• sviluppo di nuovi rapporti di conservazione-trasmissione della parola.

A rigor di termini mi sembra che soltanto nel primo di questi due casi si possa parlare di crisi della parola come mezzo, come veicolo di comunicazioni concettuali; mentre nel secondo caso, che costituisce tutto sommato un fenomeno forse più rilevante dell’altro, si può parlare soltanto di crisi della parola scritta, anzi della parola stampata; una crisi di supporti, determinata dal moltiplicarsi dei supporti stessi e dalla conseguente possibilità di scelta fra essi in ragione della loro efficacia e quindi della loro economicità. Ossia, la stampa, nelle sue varie forme di libro o di giornale, non è più il luogo esclusivo della parola, anche se è destinata a restarne il luogo privilegiato. Personalmente (devo dirlo con un certo senso di autoironia) sono un uomo la cui giustificazione sociale in ogni senso è legata all’esistenza della parola: infatti, per vivere, scrivo testi pubblicitari; e, per sopravvivere, scrivo poesie, ossia produco un genere letterario che trova sul mercato una scarsissima domanda. Quindi vorrei evitare in ogni modo che questo discorso suonasse come una difesa d’ufficio dell’imputata «parola scritta», un’imputata che a onore del vero non è priva di colpe, soprattutto per l’abuso che se ne è fatto e se ne continua a fare, per le troppe parole che almeno dal tempo del Gutenberg sono state scritte e stampate inutilmente. Se mi è consentita la metafora direi infatti che la parola è come il nome di Dio: non deve essere o non dovrebbe essere nominata invano. Eppure essa rimane, nonostante tutto, l’unico o almeno il fondamentale modo di organizzazione del pensiero e dunque dell’azione che dal pensiero consegue.
Ricordate Faust mentre cerca di tradurre l’inizio del Vangelo di S. Giovanni? L’originale greco suona esattamente: ἐν ἀρχῇ ἦν ό λόγος. La traduzione della vulgata latina dice: in principio erat
verbum. E la versione tedesca che Faust ha sott’occhio equivale al nostro: in principio era la parola. Faust non è soddisfatto, perché ritiene giustamente che il λόγος greco non possa essere reso semplicisticamente con «parola», infatti è molto di più: è mente, è pensiero, è (teologicamente parlando) irruzione dell’eterno nel temporale, intervento della divinità nella storia; non esprime un concetto puramente denotativo o statico, ma un concetto dinamico, addirittura fisicamente dinamico. Infatti, dopo aver scartato diverse soluzioni Faust traduce: Im Anfang war der Tatt; ossia «in principio era l’azione».
Uno scrittore brillante e a volte anche geniale come Marshall McLuhan si è conquistato una celebrità sostenendo paradossalmente che «il mezzo è il messaggio»; ma, per quanto il paradosso continui a essere suggestivo, io credo che il messaggio, ossia l’informazione comunicata, non possa esaurirsi nel mezzo, ossia nello strumento comunicante: almeno finché un minimo di informazione, nel senso ormai classico del termine, sussista; perché un messaggio talmente appiattito, talmente privo di informazione da esaurirsi nel mezzo che lo trasmette, mi fa pensare veramente a nulla, a una specie di encefalogramma muto. Mentre in ogni messaggio vivo, l’informazione, cioè il contenuto, conserva sempre una sua trascendenza rispetto al mezzo. Così, anche laddove la pura immagine non verbale, o il puro suono non verbale (per esempio il fischio del treno, il rintoccare dell’orologio, il campanello d’allarme della banca o il dispositivo antifurto dell’auto) viene a surrogare totalmente la parola parlata o scritta, io escludo che si possa parlare di morte della parola, perché le pure immagini e i puri suoni saranno comunque fondati su un programma, su un codice, su un software organizzato in concetti, ossia in parole, anzi in parole-azione, in parole talmente assolute che prescindono anche dal segno. E se vogliamo poi considerare la crisi della parola come crisi della parola scritta o stampata, ossia come crisi di un supporto, vediamo che i nuovi strumenti di cattura, conservazione e trasmissione delle informazioni non codificate sono ben lungi dal poter prescindere dalla parola. Dovremo piuttosto dire, per ricollegarci alla precedente argomentazione, che la disponibilità di una sempre più larga varietà di supporti determina fra i vari media atti a portare parole una situazione di concorrenza obiettiva che consente di volta in volta la scelta del supporto più efficace in funzione degli obiettivi da raggiungere; si può di volta in volta decidere, insomma, se sia più opportuno, una volta affidato il concetto alle parole, ritornare da queste a un significante non verbale, acustico o visivo o probabilmente addirittura tattile; oppure se le parole esprimenti il concetto debbano essere affidate alla scrittura manuale o alla tastiera dattilografica o alla pagine a stampa o al nastro magnetico o al canale telefonico o alle onde della radio. È chiaro che, di volta in volta, saranno le esigenze concrete della sua utilizzazione a indicare, fra tanti, quale sia il supporto migliore per la parola: a seconda che l’informazione in essa convogliata sia destinata a un consumo immediato o differito nel tempo, privato o pubblico, individuale o collettivo. 
È probabile che, in questa prospettiva, la quantità di parole e di carte stampate sia destinata a una notevole diminuzione, della quale peraltro non si avverte per il momento alcun segno; ma è probabile, anzi certissimo, che la varietà dei supporti determini quasi automaticamente una selezione, ossia che la parola stampata, la parola affidata alla carta finisca per circoscriversi di preferenza a quei casi in cui il supporto della scrittura si manifesti realmente come unico e insostituibile; come il luogo privilegiato in cui resteranno a disposizione delle generazioni umane i pensieri, le parole-azione, le parole-oggetto, «i più nobili pensieri» della nostra specie. Per essere letti, ripensati, resuscitati, riagiti da chiunque a essi si vorrà accostare. Non è escluso che ci si approssimi a un’epoca in cui soltanto le parole dei classici antichi o nuovi saranno ritenute degne di essere affidate alla pagina.

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