L’udito cronico

da | Set 23, 2023

Cinque poesie da “L’udito cronico” di Cristina Annino, da poco pubblicato per Graphe edizioni.

 

CAOS

Premettendo
ch’è sempre doloroso impalare
l’anima in un discorso, scrivere
un diario, lettere, versare
iride nella tinozza di un colloquio.
A quest’età e con i tempi che corrono,
io siedo al bordo dell’orecchio
universale; dico
«biondo, marziale cieco cielo
dove il tempo è rotondo: la verità
è orrendo cannocchiale».
Poi mi rivolto, ascolto chi parla,
annuso odore di vero nel parziale
gesto di chi mi appaia. Credo
a tutto; a quest’età si è un cimitero
abbastanza paziente.

 

L’ESSERE E LA MORTE

Poiché VU è una donna strana,
perfettamente cattiva,
io voto
per l’inferno di lei, nell’intento
di qualche valore.
Credo nello squallore quotidiano
di VU. E ci esco insieme;
dobbiamo scontarlo il tarlo dell’esistenza;
e sia. Del resto
mi piace il cattivo, lo sporco,
mi tuffo a corpo morto nell’inganno
di VU. Le parlo e la detesto.

Le case sono scimmie d’acqua pomeridiana;
VU è magra sotto l’ombrello,
ha dita d’artrosi e fama di generosa.
Piove, e mi scarica addosso la lingua
di pescecane; i suoi dolori non sono
spirituali. C’è gente
che si sdraia negli altri
uccidendoli di parole: VU ed io
siamo una sagoma riconoscibile
da dietro. Siamo l’essere e la morte.

Ho momenti di forte panico,
quando mette lo sguardo nel mio
e gioca con l’anima fosforescente
dicendo che attende una risposta.
Giacché mi sento esistere
sempre
e quel che voglio non è mai lontano,

è una piazza tutt’al più
d’acqua da superare,
dico a VU sciocche cose che beve.
Le mie pretese d’essere che sono?
In fondo,
fumo sigarette che mi sfondano il cuore.
Non sarò mai buono.
Azzurra giraffa, la strada, passando
ha un curioso galoppo; ascolto
VU con smorto viso di plastica.

 

FERRO

È miracoloso che piova; dico:
è miracolo questo ferro nell’aria.
VU, vecchia nota nella testa, viene; mette
ferro dove si posa.

Il vaso del nostro colloquio
s’empie, muta in altra cosa;
acqua, diciamo. Cosi;
da un capo all’altro discutiamo, e anche
un po’ si siede.

Lo so, non si vede, ma io
me ne accorgo: lei, creatura
di cane altissimo, mette
la groppa in su, catrame
— a saperlo, non varia mai — e senza
amore neppure per la natura, beve
il ferro dell’aria; si muta
tutta in quello.

 

IL SOSIA

Ho capacità a stare zitto
interminabili, come stazioni. Lì,
dritto, aspetto
il mio sosia; mi inchino, e con lui
resto distratto. Conto
persino i vagoni. Allora,
per caso può essere che ridiamo
pallidi fino al tetto nel viaggio
anche dentro una chiesa. Che vogliamo?
mi chiedo. Perbacco; io e il sosia.

 

ALBUM DI FAMIGLIA

Poiché dobbiamo metterle al muro
e fucilarle, un giorno o l’altro, le nostre
braccia anteriori; prima ascoltarle
come i rumori di un bar. Io sposto
mobili nella stanza; mi appoggio
alla parete battendole la palma
in fronte: ci conosciamo da troppo
tempo per non essere diffidenti.
Ecco, ieri, l’inferno, batteria
di cucina; il gas mostrava i bianchi
denti bollendo l’anima. Ho visto
l’infanzia con vesti fosforescenti
voltarsi. Allora,
mi son dato la caccia fino ai piani
ultimi della testa, ho sputato cervello,
fatto segni per terra. Ed ho atteso.
Più tardi, quando il mio
braccio destro ha avuto il tic
dell’anno tredicesimo (lo ricordo
come adesso), ho sparato senza pensarci.
Poi ho chiesto: basterà?