L’enigma innamorato

da | Mar 15, 2021

Pubblichiamo in anteprima un estratto dall’Introduzione di Milo De Angelis e una scelta di cinque poesie dall’antologia L’enigma innamorato che attraversa l’opera poetica di Piero Bigongiari dal 1933 al 1997. A cura di Fabrizio Iacuzzi, il volume è appena uscito per Vallecchi.

 

Ho conosciuto Piero Bigongiari nell’autunno del 1971 ed è stato un incontro entusiasmante. Entusiasmante e atteso lungamente, pensato, voluto, immaginato come un incontro che sarebbe durato per tutta la vita. E così è stato. Negli anni precedenti a questo incontro, leggevo in continuazione i suoi versi – a partire dal primo libro del 1942, La figlia di Babilonia, fino al più recente Torre di Arnolfo del 1964 – e li conoscevo a memoria. I versi di Piero Bigongiari avevano infatti il potere di imprimersi subito nella mia mente. Erano – e rimangono – sapienti, fulminei, perentori, capaci di entrare nelle zone più profonde, di rovesciare ogni luogo comune e trasformarlo in sentenza. Hanno dentro di sé la luce del paradosso e la lama della verità. Riuniscono in un solo movimento attuale diversi movimenti che lo precedono, compiono il prodigio di essere centrifughi e centripeti nello stesso tempo, di scorrere potenti come un fiume e di tornare alla sorgente, di spalancarsi impetuosi in nuovi territori e di mantenere intatto il brivido iniziale. «Nella memoria è un che d’eterno, cedilo / cedilo alla memoria se rivedi / l’orto tornato al sole, se le labbra / ancora tormentarle riodi amore, / abbandónati a questo inconsistente / pulviscolo di cose e di pensieri, / abìtuati all’inferno dell’effimero». «Abbandona quest’eco di giustizia, / cedi alla sproporzione. Dunque, vòltati. / La sete è nel bicchiere. Nel deserto / la sua fecondità. La notte bianca / sperdila come frughi tra i carboni / a ridare la fiamma ai volti attoniti, / spòstati con gli aculei che configgono / la notte sempre più verso la notte». «La morte è questa / occhiata fissa ai tuoi cortili». In questi versi – e in tutta l’opera di Piero Bigongiari – c’è il tono di un Maestro. C’è la sapienza che non vuole chiudersi in se stessa, ma vuole farsi ascoltare e spalancarsi nel mondo. E Piero incarnava nella sua vita questo genere di sapienza. Ogni incontro con lui era un dono insperato, fin dalla prima volta, a Firenze, quando andai a trovarlo nella sua bella casa di piazza Cavalleggeri, sulle rive dell’Arno. Gli avevo mandato i miei versi – quelli del futuro libro Somiglianze – e lui li lesse parola per parola, con precisione estrema, prodigandosi in consigli e suggerimenti, indicando le poesie preferite e quelle che lo lasciavano perplesso, mostrando un’adesione che mai avevo conosciuto prima. Negli incontri con Piero il tempo non esisteva. Passavano i minuti e le ore e lui era sempre lì, pronto e disponibile, ignorando i richiami della moglie Elena, che saggiamente lo avvertiva della cena ormai pronta. Piero era inesauribile, volteggiava tra le lingue e le culture, conduceva il discorso nella storia, nell’arte, nella psicanalisi, senza mai essere “erudito”, con una disinvoltura che era al tempo stesso saggia e divertita, cólta e infantile, ravvivata da un sorriso di bambino. Ma soprattutto Piero sapeva fare la cosa più importante che può esistere in un dialogo: sapeva proseguire il discorso dell’altro. Sapeva riprenderlo in mano là dove s’interrompe e restituirlo più ricco di prima, sospingerlo alla sua meta, accompagnarlo durante il viaggio, farlo sentire ancora più nostro e più vero. Ecco, se dovessi rinchiudere un concetto immenso come quello dell’amore negli stretti confini di una definizione, direi che l’amore è proprio questo: continuare il discorso dell’altro. E direi che Piero rappresentava umanamente questo dono inestimabile. Ma tutto ciò non avveniva solo nel filo diretto di un colloquio a tu per tu. Avveniva anche durante le letture, i convegni e gli incontri pubblici che abbiamo vissuto insieme, compreso quello avvenuto nel 1995 in Ungheria – a cura del grande amico di entrambi, Luigi Tassoni – che fu l’ultima occasione in cui incontrai Piero di persona. Ma qui vorrei parlare di una giornata indimenticabile nel mio rapporto con lui, quando ci vedemmo a San Salvatore Monferrato, negli anni Ottanta, per un seminario di studi su Igino Tarchetti. Non stavo bene in quel periodo, ma volli andare egualmente per rivedere alcuni luoghi della mia infanzia e soprattutto per rivedere Piero dopo un lungo periodo di assenza. Non stavo bene, dicevo, ma cominciai a stare ancora peggio quando mi resi conto del tono accademico che il convegno stava assumendo, con noiosissime digressioni psicanalitiche su Fosca o sulle fanciulle scheletriche dell’autore piemontese. Piero capì al volo la situazione e mi prese sottobraccio con afflato paterno. «Milo, mi porti nei tuoi paesi prediletti, mi fai sentire il dialetto di queste terre?» «Ma certo, amico mio, con grande piacere!» E così iniziammo un lungo itinerario monferrino: da Mirabello, dove abitava la mia vecchia governante Adele, al paese materno di Rosignano, a Serralunga di Crea, dove Cesare Pavese aveva trascorso due inverni e aveva ideato i Dialoghi con Leucò, e soprattutto all’antica dimora dei Castagnoni, dove avevo trascorso tante estati di giochi e corse in bicicletta. Non c’era nessuno in quella stagione dell’anno e cominciammo una lunga conversazione, che toccò il periodo appena trascorso della rivista «Niebo» (a cui Piero era molto legato, partecipando ai nostri incontri e trovando forse in quelle pagine un’eco della sua passione per il mondo classico), ma toccò anche vicende e amarezze personali, come la sua esclusione da alcune importanti antologie di quel periodo o la distanza sempre più grande dai primi compagni di viaggio. Da parte mia volli mostrare il trasporto per i due libri che segnarono la cosiddetta svolta poematica della sua opera, ossia Antimateria del 1972 e Moses del 1979, dove si affacciano alcune figure (come gli uccelli migranti in un luogo misterioso) e alcuni temi legati al mondo epico occidentale e orientale, come quello del tempo infinito, che diventerà centrale negli ultimi volumi. Lui mi chiese quali erano le poesie dell’ultimo libro che più mi avevano colpito e io risposi subito Gli ambasciatori di Corcira e Bivacco con le Erinni. «Sono d’accordo, Milo, e ti dirò che proprio in questi giorni ho scritto un’altra poesia su quei lontani ambasciatori. Ma non hai citato una poesia che dovrebbe riguardarti, dal momento che conosci il Mahābārata.» «Scusami, Piero, ma davvero non la ricordo.» «Beh, ti capisco, Milo, e non hai tutti i torti. In fondo al libro ho scritto in proposito una nota a questa poesia e forse è meglio la nota della poesia!», aggiunse lui sorridendo. E anch’io gli risposi sorridendo: «E allora devi proprio raccontarmela». Così Piero cominciò una lunga narrazione, citando diversi episodi del poema indiano e concludendo così: «Al di là delle ultime montagne c’è una grande pianura e in questa pianura sappi che c’è un cubo di granito di mille chilometri per lato e ogni mille anni giunge un uccellino che dà un colpo di becco a questo cubo. Ecco, quando tutto il cubo verrà disfatto, allora sarà passato un giorno dell’eternità».
Il lettore di questa antologia non troverà questo racconto di Piero Bigongiari (per ragioni di spazio non abbiamo potuto mettere le note in fondo a ogni singolo volume, che pure sono un piccolo capolavoro) ma troverà la poesia citata, dal titolo Il cubo e la gabbia, dove si profila uno dei motivi ricorrenti del poeta toscano, quello di un tempo immenso, un tempo che non si può misurare, letteralmente, riunisce in se stesso i grandi fiumi del mondo antico, quello greco e quello latino (soprattutto l’Odissea e il De rerum natura), quello biblico e apocalittico e infine quello indiano dei Veda e delle Upanishad, ma anche quello attuale della psicanalisi (Lacan) e dell’informale (Pollock, Hartung), saldando l’arcaico al contemporaneo in un ponte di secoli. In questo tempo si perde la dimensione biografica. Tutto è immerso in un flusso inarrestabile, nella grande corrente della metamorfosi, nella corsa instabile degli istanti e nella furia discorde degli elementi, una sorta di panteismo del pensiero. Non c’è più nessun centro a cui aggrapparsi. Ogni punto di ancoraggio è dissolto, ogni porto fugge in lontananza, il passo è in fuga da se stesso, entriamo nel regno della metamorfosi. E anche la metamorfosi è sfaccettata. Può essere mutamento delle forme, alla maniera di Ovidio. Può essere scoperta di se stessi, alla maniera chiara di Apuleio o alla maniera scura degli orfici. Può essere alterità, alla maniera di Lucrezio o di Maurice Blanchot, divieto di raggiungere l’altro, sbarramento invalicabile, muro senza appigli. La poesia di Piero Bigongiari riunisce tutte le vie della metamorfosi, passa continuamente dal pensiero alla fiaba, dallo stupore immobile all’accumulo forsennato, straripa da se stessa, incendia i confini, manda in frantumi il vetro aperto dello sguardo e quello chiuso dello specchio, dà la caccia all’occulto che si nasconde in ogni evidenza e allo splendore che si annida nelle tenebre, è sinfonia dissonante dei contrari, concomitanza, irradiazione, brulichio di immagini, vento tempestoso, identità multipla e frantumata, atto temporale, caos nascente e catastrofe, infinità eccentrica che avventurandosi nell’oltre si imbatte nell’inizio. Non è dialettica, non concilia gli opposti ma li lascia nella loro solitudine, viaggio perenne di due poli che non si vedono più, sforzo incessante di entrare nell’aperto e di uscire nel chiuso, mobilità estrema non solo della parola scritta ma di tutta la materia biografica, storica e concettuale in cui è immersa.

Milo De Angelis

 

 

da PARTE PRIMA (…-1944)

La casa del bosco

Sono cento giorni che piove,
la strada è tutta fango.
La mia casa isolata sulla strada solitaria,
vicino al bosco, non resiste più.
Per le strade oscure e piene di muffa e di fumo
m’aggiro: la mia anima non resiste più,
anche su essa piove da cento giorni
una pioggia gelida.
Nessuno mi viene a trovare,
nemmeno un ospite ha bisogno di me.
Il fiume limaccioso scroscia poco lontano;
il bosco solenne di pini e d’abeti
è un’isola meravigliosa, in cui è un soffice letto
d’aghi di pino asciutti e l’aria v’è mossa,
non come questa respirata da persone morte
prima che io nascessi: a quest’isola
la mia casa che si strugge tenta inutili approdi.
E io dai vetri polverosi guardo
i tentativi rotti dai marosi.
La notte, quando m’illudo che la mia navicella
avanzi, e ulula il vento nelle vele,
e le ali dei gabbiani mi sbattono sulle finestre,
voglio che una fanciulla celeste entri nella mia arca;
e tutti i poveri uomini, sono buono allora,
vengano verso l’isola con me, l’isola
folta di pini e d’abeti e piena d’infinita quiete.
Io caccerei ridendo la luna
salendo su un altissimo albero.

Novembre 1933

 

da PARTE SECONDA (1944-1963)

A labbra serrate

Un’ombra ancora, un’ombra che non scompare
come un discorso pieno di propositi,
e questo cielo senza vittoria per nessuno,
le mani calde, la bocca amara d’amare.

Inutile parlarvi, miei morti sconosciuti,
inutile cercarvi, voi uomini della terra,
per la troppa terra che nasconde il vostro cielo,
solo vostro è il cielo per cui soffriamo tutta la terra.

Tutta la terra e gli errori penosi perché piccoli,
le stragi come muri d’argilla a ridosso dei quali ci ripariamo,
con un fazzoletto scarlatto asciughiamo il sangue per non vederlo
con uno bianco le lacrime per non piangere.

Con un passo più lungo commettiamo la stanchezza, a che cosa?
la rosa in un vortice repentino scopre la primavera in un deserto
e le stagioni si salvano dai cannoni ma non dagli sguardi degli uomini
che forse esistono sulla terra per uno scompenso di menzogne

come il vento in un dislivello barometrico.
Asciughiamo le lacrime anche con le parole,
con la fucileria più fitta, con gli amici che salgono le scale.
E inventiamo d’andare a letto, per inventare qualcosa,

mentre sentiamo che la vita divaria dalla morte
veramente, non c’è dubbio, ma siamo stanchi lo stesso,
come quando stanchi della musica ascoltiamo solo gli strumenti.

15 aprile 1944

 

La notte bianca

Ora eccolo in un lampo quel che è stato:
è l’avvenire: là salta la lepre,
ma non spara che il tuono, dentro l’angolo
d’un sogno per le scale il bimbo ruzzola…
E tutto inavvertito: questa scia,
questo zolfo, questa che dici l’anima
e colmi di rimorso, e la memoria…

Vedi, la storia che s’aggrappa ai fatti
non è una storia; tu ne parli: «Ho amato…»
«Hai amato?…» «Sì, ho amato…», e lieve credi
d’essere quello che ha amato, quello
che ha creduto, che ha avuto; ma conserva
solo il silenzio il suo linguaggio, il mare
solo il mare è cosciente della terra,
quella stella è cosciente d’ogni buio.

Sai – hai letto il giornale – che un satellite,
un minuscolo in orbita satellite
americano ha captato col tritio
un po’ di sole, e lo mantiene l’uomo,
l’uomo intorno alla terra. Sai? la lucciola
dentro il bicchiere capovolto e il giorno
dopo – era l’alba appena e senza questa
foschìa – il bambino vi trovava il suo
ventino, già la lucciola sparita.

Attestano le chiarìe – vedi sul mare –
che non v’è specchio per nessuno, neanche
per chi guarda stupito nel suo cuore.
Ma forse hai misurato quanto dista
ogni essere dal suo totale esistere.

Abbandona quest’eco di giustizia,
cedi alla sproporzione. Dunque, vòltati.
La sete è nel bicchiere. Nel deserto
la sua fecondità. La notte bianca
sperdila come frughi tra i carboni
a ridare la fiamma ai volti attoniti,
spòstati con gli aculei che configgono
la notte sempre più verso la notte.

1-15 novembre 1961

 

da PARTE TERZA (1964-1987)

Moses

Affonda nell’arsura,
elitra iridescente di locusta,
chi rischiò d’annegare nella cuna,
ma una donna s’avanza: non son sue
le mani che protese ti salvarono,
occulto oggetto galleggiante a filo
dell’ampia correntia, di quel Nilo
che nel pensiero scorre di ciascuna
e dire mani è dirle aperte a delta,
è dirne il mare, occulto oggetto, ancora
soggetto occulto all’orizzonte o in seno.

E a un tratto disse:
_____________________Se l’acqua del pozzo
non è più tua né mia, l’acqua nel cavo
della mano è per poco mia, s’infradicia
la gocciola che la riporta alla
tua sete calpestata intorno al pozzo,
tremula, dai tuoi inquieti cammelli.

Un uomo quieto, dimorante in tende,
albergò nel tuo seno, dici a Sarah
con la voce che Iddio adoperò
fra il trepestio dei carri: tu lo dici
in questo scalpicciare di assetati,
pastori od animali: la tua tenda
posata sul deserto quale luna
madida di celesti avvertimenti.

Chi ha le mani bucate, forse le ha
dal proprio sangue: stigma rovesciato,
la trafittura viene dalla terra,
dagli alberi dal prato dal deserto
di elitre oleoso in cui si affonda
il piede quasi su cricchiante vetro,
dal fitto umano a cui ti porgi, Zipporah,
mentre allarghi le palme verso il cielo.

Non v’è ombra sottile quanto il tuo
refrigerio, non so se porgi l’acqua
a chi dovrà cavare dalla roccia
l’altra acqua pel suo popolo – e chi
non ha un popolo asprito dalla sete
davanti a un’altissima muraglia
di roccia? –, chi anche questo popolo
non ha nelle sue vene assetate
dall’amore per te? la sconosciuta
che come un pappo vola pel deserto
e cerca pruni a cui fermarsi, a cui
ferire la sua libertà. Non so
se porgi l’acqua o se levi una culla,
mia regina, dall’acqua che m’inoltra
dentro fulvi deserti verso un mare
che dovrà aprirsi al mio passo orientale
non più mio, non più tuo, non più regale.

Afflitto sono qui, fiorisce l’aspide
sul pruno, sono qui, non so se t’amo
o devo amarti, non so quali vene
t’hanno costretto a me, tu fascio lieve
di vene azzurre con in fondo un’anfora.
Non so se sono io l’assetato
o il salvato dalle acque: tu mia roccia
sgorga, tu mio geranio incendiami,
tu trafitta dal tuo stesso porgermi,
tu, la felicità del mio dolore
accarezzato da palme che versano
prima ch’io le raggiunga, mare apertosi
o roccia o fiume o nari di cammelli
protese a questa sete dentro l’oasi.
Non so se ho costruito con la roccia
una sorgente o con l’acqua del mare
ho scavato il deserto che m’inoltra
fino a te che non mi puoi dissetare.

Mi porgi ancora il fuoco il rovo il pruno
la roccia da scalfire la parola
che sgorga dalla gola che impietrita
non sa se comandare od obbedire.
In questo poco spazio, o mia, udire
l’acqua del fuoco lingueggiare è poco,
è ancora poco. Mentre i redarguiti
pastori si allontanano, mia roccia
tu spiccia quanto Iddio ne ha sottratto,
tu protenditi, seno latte miele,
la parola scavata nella roccia
con la brocca protesa tu riempila
verso di me, tu fa’ che non si veda
chi ha comandato, chi obbedito, chi
coi polpastrelli sulle lisce tavole
cieco si acqueta se non trova l’anfora
ricolma né, opposti, gli scavati
segni dal fuoco veloce del fulmine.

Chi ha pareggiato tutto ha detto questo: amore,
questo deserto colmo fin qui d’iridi
che mi guardavano, ed erano le tue.

…-24 marzo 1974

 

Il cubo e la gabbia

Mentre scivolano sul loro mantello le grandi placche dei continenti
la tua speranza che vi fa, aliandovi sopra
con la sottile delizia delle ali imporporate?
Forse non sa posarsi sullo stesso fiore
che la deriva sottrae – come la porpora al murice –
al suo piccolo sfogliettare di fuoco millenario?
Gli strappi forse non sono così evidenti? È possibile.
L’uccello non sa superare le montagne troppo alte?
I detriti non si accumulano abbastanza in altezza?
Anche questo è possibile. Eppure la brezza nasce da spacchi oscuri
profumata da un violaceo fumo di primavera intempestiva.
Le zampe rattrappite del macigno
tengono un sogno ipnotico guizzante
di pensieri petrificati, un vano
circolo di abissi abitati
fino in fondo: il peccato era l’origine,
era il guizzo mancato, era il sistema
tornato sui suoi passi. Ma l’uccello
che cerca il blocco quadrato da beccare
di là, nella pianura,
può ripresentarsi nella tua gabbia,
chiederti il paníco per l’ultimo sforzo,
addormentarsi per millenni sotto l’ala come il pesce nella pietra.
Pietra su pietra, il tempo – stavo per scrivere: il tempio – può essere una gabbia traforata
che intrattiene chi appena è più grosso del proprio canto
e non v’è forma sufficiente per la gioia
di non essere se stessi al momento dell’identificazione
o almeno dell’appello.
La tempesta si rimargina nell’occhio del falco
anche se il mare più non vola nel suo raccapriccio occidentale.
Lascia che chi scende sulle spiagge deserte
tra i mitili che ancora sollecitano la roccia
siano gli anacoreti che non conoscono del mare
altro ricordo che il barbaglio accecante delle sabbie:
lì si trovano le imbarcazioni inutilizzabili, le gomene tese,
di pietra, tra pietra e pietra. E le colonne dell’annuncio
fremono di uccelli pronti a emigrare, tra smerghi di granito
e lividi stagni di un infero rovesciato
per il riposo, su un cuscino di pietra, di chi attende
chi, più piccolo del proprio canto, forse il più immeritevole,
il meno migratore – perché ogni luogo è il suo luogo, è il luogo, ed è la gabbia –,
pure deve apparire all’orizzonte, e apparirà
su poche piume quasi disperate di sostenersi sul passo
dove l’altezza, un cretto delle cime, scroscia di lucide sorgenti invitanti
come tra stecca e stecca della gabbia
spuma l’intrattenibilità del proprio esservi
per un istante ancora del millennio.

2 ottobre 1975