Le poesie di Antonella Anedda

da | Set 12, 2023

Da poco uscito per Garzanti, il volume che raccoglie tutte le poesie di Antonella Anedda, con introduzione di Rocco Ronchi. Ripercorriamo l’opera poetica di Anedda pubblicando una poesia per ciascuno dei suoi libri, da “Residenze invernali” (1992) a “Historiae” (2018).

 

(da “Residenze invernali”, 1992)

Le nostre anime dovrebbero dormire
come dormono i corpi sottili
stare tra le lenzuola come un foglio
i capelli dietro le orecchie
le orecchie aperte
capaci di ascoltare. Carne
appuntita e fragile, cava
nel buio della stanza. Osso lieve.
Così la membrana stringe
la piuma alla spalla dell’angelo.

Trasparenti sono le orecchie dei malati
dello stesso colore dei vetri
eppure ugualmente sentono
il rullio dei letti
spostati dalle braccia dei vivi.
Alle quattro, nei giorni di festa
hanno fine le visite. Lentamente
le fronti si voltano verso le pareti.
Nei corridoi vuoti scende una pace d’acquario.
Luci azzurre in alto e in basso
sulla cima delle porte
sul bordo degli scalini.

Luci notturne.
I malati dormono gli uni
vicini agli altri posati
su letti uguali.
Solo diverso è il modo
di piegare le ginocchia
se le ginocchia
possono piegare, diversa
l’onda delle loro coperte.
Pochi riescono ad alzarsi sulla schiena
come nelle malattie di casa
e ogni letto ha grandi ruote di metallo dentato
molle che di scatto
serrano il materasso
o di colpo lo innalzano.
Il letto stride, si placa.

Luci di Natale.
La corsia è una pianura con impercettibili tumuli.
Con quali silenziosi inchini s’incontrano i pensieri dei morti.

Luci d’inverno.
Nella sala degli infermieri luccicano carte di stagnola
l’odore del vino sale nell’aria.
Se i vivi accostassero il viso ai vetri appannati
se allungassero appena le lingue
il vapore saprebbe di vino.
C’è un attimo prima della morte
la notte gira come una chiave.
Quali misteriosi cenni fanno i lampioni ai moribondi,
quante ombre lasciano i corpi.

Le dieci. Sulla tovaglia una pentola
con un coniglio rovesciato di lato
patate bollite, asparagi passati in casseruola.
Nella stanza regna una solenne miseria.

I vivi si chiamano come da barche lontane

 

*

(da “Notti di pace occidentale”, 1999)

Correva verso un rifugio, si proteggeva la testa.
Apparteneva a un’immagine stanca
non diversa da una donna qualsiasi
che la pioggia sorprende.

Non volevo dire della guerra
ma della tregua
meditare sullo spazio e dunque sui dettagli
la mano che saggia il muro,
la candela per un attimo accesa
e – fuori – le fulgide foglie.
Ancora un recinto con spine confuse ad altre spine
spine di terra che bruciano i talloni.

Ciò che si stende tra il peso del prima
e il precipitare del poi:
questo io chiamo tregua
misura che rende misura lo spavento
metro che non protegge.

Vicino a tregua è transito
da un luogo andare a un altro luogo
senza una vera meta
senza che nulla di quel moto possa chiamarsi viaggio
distrazione di visi contro i vetri
mentre batte la pioggia.

Alla tregua come al treno occorre la pianura
un sogno di orizzonte
con alberi levati verso il cielo
uniche lance, sentinelle sole.

 

*

(da “Il catalogo della gioia”, 2003)

11 SETTEMBRE 2001

Seguo la scia di luce dentro i mesi, nella cripta autunnale
ascolto la prima pioggia sulle grondaie.
Settembre – dice il calendario a metà consumato con figure
d’insetti sopra i fogli. Quasi ottobre anticipano i gusci di
lumaca uno per ogni giorno a disdire con la lentezza la paura.

Loda queste creature di terra, il volo breve, la mano paziente che
disegna: contro il fuoco, contro il cielo celeste della fede.

In basso, nell’orto, la raggiante architettura dei lombrichi, un
velo di formiche sotto il melo. Mi inchino al fango, ai moscerini
alla lumaca, alla fatica con cui mi sale sulle dita.

 

*

(da “Dal balcone del corpo”, 2008)

NOMI?

Qual è la parola per dire che non si hanno più sentimenti negativi verso chi ci ha ferito?
Perdono, mi hanno risposto. Ma io volevo, al contrario, parlare del rancore.
Questo è stato l’inizio e può valere come esempio.
Ogni giorno c’è una parola nuova di cui non ricordo il
senso
e il cui suono tintinna un motivo percepito a brani
familiare una volta, ora perduto.
La sua luce abituale cade. Di colpo non importa,
provo rancore, perdono chi prova rancore, mi perdono?
C’è un alfabeto incomprensibile, un linguaggio dimenticato.
I nomi ruotano privi della loro materia fin dal mattino.
Come chiamare la stoffa bianca che il vento muove davanti alla vetrata?
Tenda, tende. Il riso mi si annida in gola.
Lei, cioè io, tende a cosa?
Qui so rispondere: tendo alla terza persona
alla grazia sperimentata una volta sola
di un dolore sdoppiato e spinto fuori
poi fissato, ascoltato perfino con lo scroscio delle lacrime
ma da un’altra me stessa
capace di lasciare la sua vecchia pelle sulla terra.

Giudica tu ora chi parla:

«I nomi la confondono eppure la sua attenzione si è moltiplicata, lo sguardo si è fatto prensile, capace di rischia rare il pensiero: vai verso la morte. E mentre nota la macchia di oleandro contro l’edera ecco il secondo pensiero: come guardare meglio, come raccogliere quel dettaglio
dal silenzio. E mentre resta immobile ecco il terzo, ultimo pensiero: può sopportare la perdita, può non catturare.»

 

*

(da “Salva con nome”, 2013)

Cuci una foglia vicino alle parole, cuci le parole tra loro, guarda una foglia come viene soffiata lontano.

Il tempo mentre scriviamo vola, noi moriamo a noi stessi mentre intorno ci cresce la vita e la realtà si addensa, s’intreccia, diventa una radice che sale fino a un tronco e ridiventa foglio.

Da sempre mi mancano le parole e io ne ho nostalgia.
Per questo cucio, cucio, cucio.

 

*

(da “Historiae”, 2018)

SCIAMI, FOTONI

Gas che collidono, tempeste, scontro di comete,
in questo cielo curvo che ci appare in pace
nessuna eco, nessun solco d’aratro,
nessun tragitto di linfa
dalla radice del platano al suo nero,
solo uno stormire di foglie
fino alla stella irraggiungibile
dove il tuo respiro rallentava.
Alla fine dell’inverno, senza neve
– è solo un altro lutto – mi dicevo – inosservato
nel mondo che s’intreccia al gelo.
All’improvviso invece in un angolo del letto
è apparso il sole, scavava silenzioso una sua strada
verso un luogo dove s’irradia luce
e non esistono i pronomi.