L’arte del tradurre

da | Feb 1, 2022

(Quello che segue è un saggio sulla traduzione di Giorgio Caproni, che apre il volume “La traduzione del testo poetico tra XX e XXI secolo”, a cura di Franco Buffoni, da poco uscito per Interlinea, che, suddiviso in tre sezioni – “I maestri”, “Gli interpreti di fine Novecento” e “Le nuove generazioni” -, ripercorre la ricca storia di un’arte e di una scienza in movimento e in rinnovamento.  Oltre al saggio di Caproni, il volume presenta testi di Damiano Albeni, Antonella Anedda, Massimo Bacigalupo, Fabrizio Bajec, Giovanna Bemporad, Rossella Bernascone, Elisa Biagini, Vanni Bianconi, Piero Bigongiari, Gian Piero Bona, Rossana Bonadei, Yves Bonnefoy, Franco Brevini, Franco Buffoni, Maria Grazia Calandrone, Maurizio Cucchi, Gianni D’Elia, Riccardo Duranti, Luciano Erba, Franco Fortini, Gabriele Frasca, Nadia Fusini, Nicola Gardini, Giovanni Giudici, Milli Graffi, Maria Antonietta Grignani, Margherita Guidacci, Michael Hamburger, Andrea Inglese, Federico Italiano, Tomaso Kemeny, Ludovica Koch, Pierre Lepori, Mario Luzi, Oreste Macrì, Valerio Magrelli, Allen Mandelbaum, Luca Manini, Roberto Mussapi, Octavio Paz, Antonio Porta, Antonio Prete, Fabio Pusterla, Hans Raimund, Mario Ramous, Andrea Raos, Roberto Sanesi, Edoardo Sanguineti, Franco Scataglini, Evghenij Solonovič, Maria Luisa Spaziani, Italo Testa, Nicola Verderame, Maria Luisa Vezzali, Gian Mario Villalta, Andrea Zanzotto, Edoardo Zuccato.)

 

Pur se è vero che nel corso della mia vita ho molto e perfin troppo tradotto, in nessun modo mi considero un tecnico o un traduttore di professione. Non ho nessun laboratorio mentale attrezzato allo scopo, e mi trovo quindi nella mortificante condizione di dover deludere con la mia impossibilità non solo di esporre e tantomeno proporre teorie, ma di sciorinare una qualsiasi cultura professionale sulla cosiddetta “arte del tradurre”.
Che il tradurre sia un’arte, certo, non dubito. Anzi, è la sola certezza, o semplice cognizione, che ho, anche se tale possesso non mi ha mai aiutato troppo nel mio lavoro. Un’arte, direbbe il Baratono, proprio nel significato primordiale e generalissimo di téchne, così come lo è – o lo era un tempo – il costruire un mobile, o il dipingere un quadro, o lo scolpire una statua, o il comporre un sonetto o una novella.
Invero, non ho mai fatto differenza, o posto gerarchie di nobiltà, tra il mio scrivere in proprio e quell’atto che, comunemente, vien chiamato il tradurre. In entrambi i casi, per quanto mi concerne, si è sempre trattato soltanto di cercar di esprimer me stesso nel miglior modo: nel cercar di “far bene” qualcosa di idoneo a esprimere bene il mio animo. L’impegno è sempre rimasto in me il medesimo e di egual natura, senza scorgere di diverso null’altro che il movente, l’impulso.
Come, e per quali vie, appoggiandomi a quali discipline, mi sia accaduto a volte di raggiungere l’intento, permane ai miei stessi occhi un mistero. Ed è l’unica cosa di cui, davvero, dovrei arrossire, giacché non vi è nulla di più anacronistico, in quest’era in cui tutto si è transmutato in scienza o in tecnologia, d’uno che pare rimasto, come me, all’epoca della caverna, o che ancora “ragiona” come avrebbe ragionato un artigiano dell’età comunale.
Evidentemente, sopravvive in me una mentalità arcaica, borghiana. Ma l’importante è che io riesca talora, a dispetto di tale ignoranza, a esprimermi in modo non del tutto indecente, il che non vuol per niente dire, nel caso d’una traduzione, ch’io – sempre – non renda affatto, cercando in primis di rendere me stesso, anche qualcosa dell’autore da me tradotto. Anzi, continuo a credere fermamente che sia proprio e soltanto questo – almeno per me – l’unico modo onesto di avvicinarlo, pur se tra il mio prodotto e il suo rimarrà sempre, e per forza, una diversità, lontano come sono dal sognare una traduzione quale perfettodouble (o perfetta fotocopia) dell’originale.
Sull’impossibilità d’un tal tipo di traduzione, resto ben fermo a quanto Dante ha scritto nel suo “Convivio”: «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può dalla sua loquela in altra transmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia». Il che vuol semplicemente dire, come ha annotato Jacqueline Risset nel suo recente “Enfer”, che rompendo quel legame indissolubile tra senso e suono da cui trae tutta la propria forza espressiva un determinato testo poetico, vien dissolta la poesia stessa.
Ma ecco che mi pare d’aver così toccato, e quasi senza avvedermene, uno dei tasti più delicati a proposito del tradurre: il rapporto – sul piano spirituale ed espressivo – fra traduttore e autore, che automaticamente sostituisce o antepone alla domanda: “come tradurre”, l’altra: “perché tradurre”; domanda che in anticipo respinge, non occorre dirlo, ogni facile risposta di tipo utilitario, filantropia culturale compresa. È la precisa domanda che mi posi più di venticinque anni fa, quando nella mia premessa a “Poèmes et prose choisis” di Char scrissi (e perdonatemi se mi cito):

Perché ho tradotto, o cercato di tradurre nonostante i rischi, René Char? Quale simpatia irresistibile mi ha spinto al tentativo – il più delle volte disperato, almeno per i miei mezzi – d’un’imitazione italiana? […] Sapessi rispondere, saprei definire la poesia di Char: che fra tutte le “poesie” da me lette ed amate in questi ultimi anni, è la più lontana dall’“idea di poesia” che ciascun di noi (per tradizione, per educazione, per abitudine) possiede, e la più stretta al cuore della poesia stessa, dove la letteratura e la poesia-che-si-sapeva-già non porgono più alcun soccorso al lettore, e questi, coinvolto da capo a piedi in quei “bouts d’existence incorructible” che sono i poèmes, rimane perfettamente solo a sentirsi investito d’un potere – d’un’interiore libertà: d’uno slancio vitale e d’un coraggio morale – che per un istante egli crede di ricevere femminilmente dall’esterno, mentre poi s’accorge che tale ricchezza era già in lui, sonnecchiante ma presente, come se il poeta altro non avesse fatto che risvegliarla, non inventando ma scoprendo […].

Se queste mie righe di allora sembrano in tutto pertinenti al solo Char, in realtà non è così, e toccano in generale, secondo me, il fondo della questione. Ogni poeta vero, e non soltanto Char, più che “inventare” “scopre”: desta e mette in luce in noi dei “bouts d’existence”. E così anche nell’atto del tradurre – non sembri un paradosso – lo scopritore non è chi traduce, ma il poeta che vien tradotto, il quale come già dissi nella citata premessa, investendo il traduttore del suo potere, suscita in lui, e in lui rende diurno, ciò che era già in lui ma dormiente, notturno, e quindi ignorato. (La favola della “Bella addormentata nel bosco”, appunto, in attesa del suo Principe.) Giacché ogni poeta è un uomo, e il suo mondo è quello dell’uomo: di ogni uomo. E tutto il piacere del traduttore (se piacere può dirsi); tutta l’impellente attrazione che lo spinge consiste nel sentire, grazie a quel certo testo, un allargamento della propria esperienza o coscienza (del proprio essere o esistere, più che del conoscere), giustappunto perché tale testo lo costringe a esplorare zone del proprio io che altrimenti – forse – non avrebbe mai conosciuto.
È proprio per tale motivo che, come traduttore, in ogni mio scontro (poiché di scontro – e non d’incontro – si è sempre trattato), ho di norma rifiutato il criterio della cosiddetta “congenialità”, dando magari l’impressione (che forse non è soltanto un’impressione) d’essermi di proposito accanito a cercare proprio gli autori a me, e fra loro, più dissimili (da Proust a Céline, da Maupassant o Cendrars a Genet), quasi animato dal perverso gusto di sudare su strutture e laterizi il più possibile distanti dai miei normali strumenti. In questo però sempre in linea con me stesso, e cioè con la mia convinzione che l’arricchimento o accrescimento di coscienza cui ho accennato sia tanto più probabile, quanto più difficile, o addirittura ostica, sia una determinata lettura e quindi la sua traslazione. Difficoltà che ci obbliga a calarci, da buoni minatori, sempre più a fondo non soltanto nel testo ma, in primo luogo, in noi stessi, appunto per scorgere e catturare in noi stessi, e nel modo più chiaro, la genuina forza del testo reclamante la nostra voce. E questo valga anche per la scelta fatta di André Frénaud, sul quale ho lavorato con non minor passione di quella sofferta per gli altri.
Che cosa mi ha calamitato in lui dietro la muraglia (l’ostacolo) d’uno stile così lontano dal mio, e oltre le scorie, qua e là, della sua retorica? Certamente hanno avuto buon gioco il suo religioso ateismo e il suo strinato stoicismo: il suo rincorrere in perpetuo moto – come i suoi “Re Magi” la stella – una speranza già troncata sul nascere, o comunque sempre fuggitiva, in un’interminabile maratona resa ancor più spossante dalla consapevolezza che la stella, appunto, è irraggiungibile, e che perciò insensato è per l’uomo (ma proprio perché insensato irresistibile) il richiamo. Così come possono aver avuto buon gioco certe sorprendenti concomitanze, visibili anche a occhio nudo confrontando, per esempio, le mie “Stanze della funicolare” (del 1947-1950) con “Le silence” de Genova (del 1961-1962), la cui chiusa soprattutto – risolvendosi di soprassalto, con una settima diminuita, sulla medesima innocente funicolare del Righi quale veicolo d’uno stesso viaggio – ricorda così da vicino il mio poemetto. Ma l’autentica molla che mi ha dato l’avvio, anche per Frénaud, è stata il pronto riconoscimento, in lui, di quella diversità che ho sempre cercato a mio profitto, così come ho già detto e come volentieri ripeto.
Che altro aggiungere, io che non ho nemmeno piccoli “trucchi del mestiere” da rivelare? Lascio il campo aperto agli “esperti”, e da parte mia, tanto per chiudere in qualche modo la mia divagazione, mi limiterò ad altre considerazioni anch’esse (ma fino a un certo punto) periferiche.
Il traduttore, ho sentito talora dire, è un interprete, come il virtuoso di violino o di pianoforte. È un’idea piuttosto semplicistica, ma in fondo accettabile, non meno dell’altra, che in questo consiste in parte la sua (del traduttore) dignità; così come in parte la sua abilità consiste nel saper cavare nel modo più efficace dal proprio strumento (dalla propria lingua: soprattutto dalla sua particolare lingua di scrittore e di poeta) l’idea musicale fissata sul pentagramma, senza con ciò dover annullare – ma anzi ponendola al massimo in evidenza – la propria personalità. Paragone che forse apparirebbe ancor più calzante se, piuttosto, si considerasse il traduttore alla stregua di chi debba trascrivere, poniamo, per violino, quanto è stato scritto per flauto, e si veda quindi costretto a risolvere, o a cercar di risolvere, determinati passi o effetti tipicamente flautistici con altri tipicamente violinistici; e questo proprio per non tradire l’idea musicale originale attraverso l’ineliminabile differenza di timbro e, soprattutto, di “armoniche”.
Ma anche così, penso, restiamo nel pittoresco, pur se in parte è vero che lo strumento condiziona, in certo senso, il compositore (o, meno brutalmente, lo volge a certi esiti piuttosto che ad altri), così come la lingua (e questo è il punto) può, in certo senso, condizionare il poeta.
Linguaggio di normale comunicazione e linguaggio poetico, questo è ormai risaputo, usano lo stesso codice di fondo. Ma una differenza esiste, e profondissima, fra i due, giacché mentre il primo si ferma (si deve fermare) al pretto senso letterale, il secondo deve sempre andare oltre, aggiungendo alla parola la forza espressiva della sua musica.
Mi limito a tre esempi:

Negli anni acerbi tuoi purpurea rosa […]

Felice te che il regno ampio dei venti / Ippolito ai tuoi verdi anni correvi […]

La fille de Minos et de Pasiphaé […]

Ben poca cosa, sul piano della normale comunicazione. L’ultimo, addirittura un puro e semplice dato anagrafico. Ma che cosa d’altro avrebbero scritto i tre rispettivi autori, se avessero usato un’altra lingua, per raggiungere lo stesso travolgente effetto? E quale problema verrebbero a porgere all’ipotetico traduttore, costretto a tenersi quanto più può fedele al senso letterale codificato, senza distruggere le vibrazioni della poesia?
Per lui, per il traduttore, non c’è altra via di scampo all’infuori di quella di non dimenticare per un solo istante, soprattutto in casi così estremi, se stesso: di battere cioè sull’unico banco di prova di se stesso la doppia moneta della sua e dell’altrui parola, cercando di far scaturire dal doppiaggio una serie di “armonici” diversi, sì, ma nei limiti del possibile equivalenti quanto a valore espressivo.
È forse l’unico “principio” cui mi sia ogni volta attenuto, compreso il caso di Frénaud, del quale mi piace citare come esempio due soli versi tratti dal suo “Épitaphe”, anche per il gusto di confrontare la mia con la lezione italiana che già ne aveva dato – con maggior autorità, non ne dubito, ma con orecchio del tutto diverso – Giuseppe Ungaretti:

Mais quel tremblement dans vos voix sera-t-il demeuré
de ma voix qui avait parlé pour vous?

Si dirà che di rado càpita al traduttore, come qui, la fortuna d’una tal concordanza fra le due lingue da render sufficiente – cioè produttiva anche musicalmente – la pura e semplice traslazione letterale, di per sé capace di restituire pressoché intatte, insieme col movimento, le stesse vibrazioni del testo:

Ma quale tremito nelle vostre voci sarà rimasto
della mia voce che aveva parlato per voi?

Versi che invece Ungaretti (con tutt’altro orecchio, ripeto, e forse con l’intento di riportare il dettato a una tradizione più nostra: petrarchesca) restituisce così, a parer mio appesantendo, e quasi direi marmorizzando un tessuto musicale invece leggerissimo proprio nella sua medesima effervescenza ritmica e timbrica:

Ma nelle vostre voci quale tremito
della mia voce che parlato aveva
per voi, permane?

Un ultimo opposto esempio, questa volta tratto da Apollinaire. Come comportarsi davanti a una “Chanson” come “Les cloches” (Le campane), che trae tutta la sua grazia proprio e soltanto dal suo piglio di “Chanson”?
Al traduttore resta una sola via. Riscrivere interamente il testo, pur salvandone il senso letterale, così come lo avrebbe scritto lo stesso Apollinaire se invece del francese avesse usato l’italiano.
Mi ci provai una trentina d’anni fa, ed eccone il risultato:

Les cloches

Mon beau tzigane mon amant
Ecoute les cloches qui sonnent
Nous nous aimions éperdument
Croyant n’être vus de personne

Mais nous étions bien mal cachés
Toutes les cloches à la ronde
Nous ont vus du haut des clochers
Et le disent à tout le monde

Demain Cyprien et Henri
Marie Ursule et Catherine
La boulangère et son mari
Et puis Gertrude ma cousine

Souriront quand je passerai
Je ne saurai plus où me mettre
Tu seras loin je pleurerai
J’en mourrai peut-être

 

Le campane

Zingaro bello amore mio
Ci siamo amati storditamente
Senti che razza di scampanio
E vuoi non lo sappia la gente

Ci siamo nascosti assai male
Con tante campane a tiro
Dai campanili son state a guardare
E ora lo spargono in giro

Domani Cipriano ed Enrico
Maria Orsola e Caterina
La fornaia e suo marito
E poi Geltrude mia cugina

Sorrideranno quando passerò
Nascondersi chi più potrà
Sarai lontano Io piangerò
Ne morirò Chissà