La terra dei ritorni

da | Set 19, 2023

Quattro poesie in anteprima da “La terra dei ritorni” di Alessandro Anil, da poco uscito nella Collana Gialla di Samuele editore in collaborazione con pordenonelegge.

I

Non è necessario che mi ascolti. Non è importante. Le due rette parallele
di un binario si uniranno comunque, nell’infinito, e questo sangue
lasciato dall’ultimo sole, sembra fermarsi nelle arterie, sospensione
di un battito che non avrà una terra su cui mettere radici, declinando
per l’ennesima volta quel legame tra fragilità e bellezza.
Anche quel poco di natura rimasta, così lontana dalle foreste,
dalle tigri e contrabbandieri che popolavano i nostri sogni, si ritrae nella stanza.
L’inermità del riposo richiede la protezione della tana e questo
sia che si tratti del verme in coordinate misteriose o l’uomo che rientra
la sera per il nutrimento e il sonno. Niente è diverso, le stagioni
dei piccoli segreti sono intatte. torneranno vedrai, nella breve forcella d’ombra
lasciata ai margini della strada. Orione, le costellazioni dell’orsa
continuano a svolgere il loro corso fissati in un fotogramma eterno
e non dovrebbe sorprenderti se dopo tutto questo tempo sono ancora
qui, ad amare e soffrire, così inquietamente vinto, a chiederti
di lasciarmi entrare. Anche questo fa parte delle leggi eterne dell’universo.
Vedo l’inclinatura della nuca quando bevi, l’acqua scende
come un’accettazione, come la morte. Presumo sia questa la richiesta:
non la santità, ma la santità prima del peccato. Resteranno solo ombre,
solo ombre, mentre l’umidità sale dalla terra e i colori, le forme
iniziano a dissolversi. La notte è un oceano immobile come un ideogramma
con la sua particella di luce infinitesimale. Come osservare la fine
senza terminare con essa? Giù, nel frutteto, nell’ombra
ghiacciata dell’estate, c’è un luogo dove la migrazione degli uccelli sosta
qualche istante. Noi siamo il sogno di un animale appena addormentato.

 

II

(Traducendo V. Holan)

È strano incontrarsi proprio ora, con l’inizio della sera, metafora
di morte, ma anche di tranquillità, fine della fatica, quando vorresti
slacciare l’armatura e condividere cibo e alcol con i fantasmi del giorno.
È bizzarro che il nostro viaggio inizi quando ogni cosa sta tornando
verso il riposo, una lieve piantagione che si espande sul corpo
come una coperta al termine della stanchezza. Anche questo secolo,
discendente di Cartesio, della superficie limpida della tragedia,
erede delle grandi ideologie e del fallimento, si sta ritraendo
lasciando a noi le ombre che salgono, un punto nel globo dove il fiume
misteriosamente dà forma al tempo. Se la sospensione del dolore
fosse stasi, immobilizzerei i nostri corpi in prossimità al piacere,
nella dilatazione degli inferi e quindi anche nella sorgente.
Niente resterà qui, il freddo e le tenebre, un’ombra che si aggira
o l’illusione di un’ombra fra le rovine? Niente, niente
resterà, solo oscurità, sete e un vuoto primordiale, un torrente
che scorre fra le ossa di un vecchio continente. Lasciami entrare.
Venere, come sempre, la prima stella della sera, è la più luminosa
e il sole, questo grande protagonista del cielo ha la sapienza di scomparire
in qualche istante. Noi non abbiamo la sapienza di scomparire
in qualche istante, il mondo non ha i nostri rimpianti, siamo noi
a turbarlo con questo eccesso di cui non voglio farne a meno.
Lasciami entrare, oppure vieni, Amleto è con un poeta, amico,
a quest’ora avrà iniziato a friggere le alucce recise dai malleoli di Mercurio.
in comune, entrambi abbiamo avuto un padre che ha lasciato troppo
sulle spalle del figlio, ma anche una donna che ha tentato più volte il suicidio.

 

V

La prima cosa che dio ha creato è la sete, il principio del movimento.
Poi ha creato le tue mani e avrebbe già potuto concedersi la domenica,
invece, ha voluto completare l’opera, un vizio di forma a cui neanche
la somma perfezione ha saputo sottrarsi: uomini d’affari molto occupati
e piccoli mangiatori di dolci che si tengono compagnia, eminenti
letterati, politici e maestri dell’industria, tutte cose che se pur vanno
da qualche parte, scendono nella notte, attratte come sono gli insetti dal fuoco,
uno sfrigolio finale e la nervatura si china a consegnare la vita alle tenebre
attraverso la fiamma. Tolstoj nell’introdurre la frenesia di Anna Karenina
scrive, non riusciva a controllare le mani. tutte le storie parlano di mani.
Mani che ammoniscono, che indicano la via al passante, che raccolgono
ciò che in altri tempi hanno seminato, le mani di Antigone sporche di terra,
quelle immortali delle statue che già Lucrezio notava, mani nervose,
impazienti di avvicinarsi al corpo amato, mani frenetiche sulla tastiera, mani
che impastano il nostro cibo quotidiano, che affondano la lama
alle nostre spalle, mani che restano insanguinate, mani tremanti, congiunte,
mani che tessono e disfano la stessa tela, mani abili nel portarci doni
e sottrarre i pochi averi rimasti, mani che si risvegliano nella notte per tastare
se accanto nel buio c’è un altro corpo, mani simboliche che ricordano
un gesto, una resa, indifferenti al dolore altrui, mani attese così a lungo
pronte ad accoglierci anche quando la notte ha oscurato la via del ritorno.
Lasciami entrare. Comprendo la tua indecisione, ma ne riconosco i gesti.
A volte, le mani hanno già afferrato quel che sembra irraggiungibile, hanno già
indicato quel che non si riesce a dire. osservo le tue mani e so cosa devo fare.

 

VI

(“Più cercherò di liberarmi più voi legatemi stretto.” – Odissea)

Anche questa storia inizia con le mani, quando il dito sull’atlante intratteneva
l’immaginazione del ragazzo e una sete antica attraversava la fronte
lasciando minuscole tracce di sudore. Erano mani che scorrevano impazienti,
l’Arabia, Smirne, mani instancabili, nascoste e insonni, l’Atlantico e l’arcipelago
delle Bermuda, mani deliranti in cerca di una terra dove la vita termina
con il sogno e l’uomo sulla riva del fiume continuava a chiedere: “Come posso io
avvicinarmi agli altri restando me stesso?” Mani che cercavano nella notte
sotto la lampada qualcosa di appena confessato. Andare, venire
mentre si immergono le mani nell’acqua, afferrare nel passaggio ciò che sfugge:
comprendere, questa strana parola si applica a ciò che improvvisamente
ci attraversa, anche a ciò che riusciamo a catturare dal finestrino: afferrare
chi ci prende, afferrare chi si volta, prossimità, distanze variabili, desideri.
“Più cercherò di liberarmi più voi legatemi stretto.” Fra gli odori delle spezie
di un mercato orientale, nella notte e nella più grande delle foreste
che è la memoria, fra gli strati di paganesimo e cristianesimo che si alternano
nelle facciate di questa metropoli, fra le tracce di un bestiame disperso
nella neve e oltre le ossa della civiltà e la propria morte, la morte dopo la morte
superando e oltre il limpido e l’oscuro… fra questi sentieri che si perdono
sotto la spalla della collina, la vita sembra un giocattolo per bambini, a volte,
lo sguardo si ferma su un dettaglio di scarsa importanza, un mucchio di legno
tagliato ai margini del marciapiede. “Come posso io avvicinarmi agli altri
restando me stesso?” Sotto altre solitudini quando le mie mani
si immergevano nel torrente di altri corpi, nel deserto come nelle bancarelle,
in quella tremenda ricerca di umanità a cui la vita ha contrapposto
madonnine di plastica, io continuavano a cercare te e ora, al termine
di questa strana parabola quando le colline iniziano a innevarsi di porpora
e le finestre si illuminano come se fossero l’interpunzione del nostro discorso,
ora che il giorno è al suo termine, ti riconosco. tu sei sempre stata
qui, in questa terra fra due rive che testimonia l’origine per entrambi.