Tra poco, nell’aurora

da | Apr 1, 2016

Poesie inedite.

Non hai lasciato nulla
la casa è vuota, trasloco perfetto
cose, emozioni: via. Resta soltanto da chiudere la porta
lasciare solo il raggio del pulviscolo
compagno di tante ore.
No, se l’animo anela, lascia perdere
che c’è molto da fare. Ah, lo zerbino da buttare
il cognome da togliere
questo fagotto d’attimi da prendere
e non starci a pensare. È così che si muore
senza più poesia
ma tanto quella poi non servirebbe a nulla
non cambierebbe il mondo, no? Acchiappi il treno, per un [pelo
ti siedi peso, guancia al vetro. Scivola la stazione
i volti cari, le colline, tutto.
Eppure, non può essere che sia tutto qui
che il canto non ritorni
in mezzo alla sodaglia di faccende
lo sai, ritornerà. Mostri il biglietto.
Allo sguardo t’affiora un abbandono, che ti sa solo suo.

*

Al largo, strisce verdi in mezzo a spilli d’oro fluttuanti
andarci a nuoto fino a lì, bellissimo
e il canotto grande
faticoso gonfiarlo col pedale.
Ci pensava tuo padre
ogni volta per te. «Guarda, hai le mani addirittura livide
basta bagni!» «Perché?» «Sempre perché!»
Rimasti, quei perché
nell’oblio odoroso di salsedine
nello specchio segreto dell’anfratto dove il viso [ondeggiava.
Un attimo lunghissimo
dall’indaco di un tuffo, poi di un altro, di un altro
per rimanere innamorato arreso
rimasto senza meta
a domandarti cos’erano quelle estati
e questi cieli cosa sono ora
per te vacanzieri
pieni di pianto per questi ragazzi macilenti
sulla spiaggia turistica
per queste genti sfatte
che sanno un loro mare, un loro azzurro
portano lungo diaspore crudeli la fiamma d’ogni uomo
unica, che ci unisce
e che mai la sappiamo.

*

Al gate la schiera d’anime impazienti
c’inquisisce il portale
è questo, poi, niente altro per cui siamo
giusto un attraversare, un controllare, un deporre, un [riporre
un disperdersi incognito da un arrivo all’altro
trovarsi eguali ai posti
ineguali posture, atteggiamenti
rivendicati principati intimi in economy, o business
in balia d’un decollo
d’un vuoto d’aria, di un’autodafé del tirannico fato
− non si sa mai − grande falò di tutto, a diecimila metri
di questa madia lucente con quattro motori esuberanti
che ondeggia vacua d’atavici sonni e di soavi hostess
virgola in mezzo a un rigo lossodromico
in alto, più in alto: inappagabile tatto d’iperuranio
ultimo sorso di caffè. E si staglia già il cupido giorno
verso dove anelare
discendere, appianarsi, dalla quota
a ritrovarsi incerti, ben piantati.
Riprese le valigie
ritornati noialtri, alla bassura
uno a uno scrollati.
Una congerie.

*

Quale incipit nuovissimo
potrei trovare, non ne ho idea
so solo che vorrei parole, ancora
perché con quelle forse non si muore
tutta insieme si tiene
questa vita
frattanto che le mode, i modi, i tempi emigrano
racimolate cose della storia
che ci invita e ci macina
parti senza più parte. È da imparare la parte, quella inutile
che ci fa spaesare
e non è facile, per me almeno
io che poco funziono, che deteriora sequor
per un vizio. Però
oggi, ma sì, sulla panchina stinta, ormai mezzo scerpata
sono stato a sentire lenta spandersi la milonga del mondo
e mi veniva da piangere
da amarlo più che posso questo dono di vivere.

*

Di questa intima maceria
così inutile
mia
irrinunciabile
e di te prato asfittico che gli olmi, condannati proteggono
se resterà qualche testimonianza, non saprei
ma non importa, infine
ora che mi parrebbe di comprendere
che la tua terra indurita da pezzi di mattoni, bottiglie
e le rime cercate a occhi chiusi sulle labbra dell’aria
per ridarti la beltà uccisa
sono un solo destino senza arrivo
tensione a qualche altro numinoso dettato.
Tu resistita enclave d’una forza di margherite e corse
io sangue inquieto incapace a cantarti
a darti l’infinito: noi eguali
già scordati e vincibili
mentre ci passa accanto il tram coi fari miti
inondati di nebbia.

*

Appena un cinguettio nella neve
un lapillo che andava a confrontarsi di notte con le stelle
o la conchiglia in cui l’estate pose il ricordo del mare.
Cosa inseguo non so
cosa mi passa per la testa. Nulla. Banalità, di certo
ma perdermi a me basta
per fare i passi giusti
e sapere com’è bella una lacrima
o un sorriso, questa fiamma altissima che ci è stata [lasciata.   

*

Otto euro (con lo sconto), e si va fino in cima.
Oggi avevano aperto
certo che è una fatica
gli zaini debordanti
e i bambini in collo, centinaia di gradini
per lo zenit turistico. Ma va bene così
piccolo svettamento a basso costo d’una calma giornata
punta modesta fra le vette impresse nelle membra degli [evi
foss’anche solo il poco d’un meriggio massivo
di lattine e di mappe
parecchio attira all’alto la sfida al fiato corto
l’aumentante babele, confudamus ibi linguam euroum…
però oggi c’é il sole
domani non si sa. Teste infocate dall’Ostro
pelle paonazza, ma basta una doccia
dopo, in hotel. Ne t’inquiète pas, sali, let’s go up!
lasciata la stanchezza
il francobollo della piazza è un’onda di flussi e di riflussi
in silenzioso assalto
ma a cosa
per cosa, e che cos’è quest’ascensione anonima, plurale
cui non partecipare totalmente
se ti fermi con un sapore d’aria in bocca e chewing gum
e l’intimo tumulto
a sentire cos’è che ti fa male
i muscoli, o il senso non sodale, incrinato
guardando la sardana della massa
dabbasso, un fiume. Otto euro (con lo sconto), e si va fino [in cima.

*

Padre, che ti ghermì l’assenza
in me scava continuo e soffre il nicchio del tuo volto
delle spalle che mi erano amate
tenerezza ineffabile
piegata dal distacco incomprensibile
aggrappata a una sola carezza:
me la facesti per portarmi in sonno
farmi svegliare dopo
ma lontano
oltre l’immane vallo
al solstizio chiarissimo di un bene eternamente nostro
in questa attesa che non sa morire.

*

Procedono veloci
quasi più del previsto da progetto
costo ore-uomo un tot
un tot di strazio d’ore-albero fresche
che le sento passate senza voce, né appello, cadute
io che non sono che uno fermo in coda
non sono che annerito sentimento, ricacciato giù in petto
per le brune radici enormi e buone
da giorni agonizzanti sul massetto spesso di calcestruzzo
fra l’urlo di tondini al cielo attonito
che non sa nulla mai
guarda ebete rotaie
calcina, betoniere, alberi, uomini
esistere che deve fare spazio a un prossimo esistere
nuda elegia e epos
ogni metro posato
ogni celeste mitico squarciato.
Ma cosa vuoi capirci, sono ripensamenti
cedimenti per non fare morire l’anima ormai sfiancata
in fuga per il tempo in cui sta acceso il rosso.

*

L’angolo dove stava la scrivania e quei cieli guardati avvicendarsi, tra una pagina e l’altra, sollevando la testa, ripassando. S’era fermato lì, prima d’andare, consegnare la casa.
Lo tratteneva un vuoto vivo. Le chiavi conoscevano la tasca, pesavano di tutte le mandate distratte, come lo sono i dettagli più miti, quelli insignificanti, che uno per uno fanno un’esistenza. Pure bastava battere la porta, e via. Si sedette per terra, gambe incrociate come quando giocava, o poi quando ascoltava in sé quel piccolo dolore crescere, il primo amore.
Sulla graniglia opaca, solo un’agenda, relitto carico d’appuntamenti, e dentro c’era un sepalo, inno di chissà quale sole giovane, tenue sigillo su un futuro ora così appianato, tutto lì, neanche la silhouette d’una molletta sul filo, o il chiodo sul deserto del muro.
A fatica si alzò, uscì sul pianerottolo. Poi, chiuse, ma pianissimo, la porta sul brusio che filtrava nella lama di luce.

*

Non combinerò mai nulla di buono
me lo dicono sempre
getto via giorni, come fossero cartacce
bucce, cocci e li regalo al mondo affaccendato
che non ritorna sui suoi passi. Hanno ragione
roba da vergognarsi
da non dire
mi si perdoni se non so fare altrimenti
è la paura dei riferimenti sicuri
è la tristezza di cui sono lieto
quando mi chiama la rosa morente a ripensare che fu [dono d’amore
o il bianco della neve per la terra, novia che a primavera [sposa il sole.
Scusate se vi annoio, sono sciocche emozioni
come quella distesa d’eliotropi caduti
finiti uno per uno nel cartello pubblicitario, immenso
nel campo che ora è un area di parcheggio
dévoré di lamiere nel declino d’un sabato di shopping.

*

È vero
non posso negarlo
li vivo io pure questi giorni scuri
granguignoleschi e poveri
ma nostri
irrimediabilmente
dal primo fuoco acceso
dalla prima parola che ci venne alle labbra
ai viaggi verso le profondità del cielo
e se il momento è no
se il nonsenso sbaraglia
mi dico sii pupilla stupefatta d’un traffico di nuvoli
di un caso che sa farsi seme, e solco,
gemmazione precisa. Ch’io di nuovo riscopra
questa gloria che è tutta il suo dissolversi
speranza sempre in bilico
che vale tanto. Stavi lì infilato nella R.M.N.
eri soltanto un grumo di protoni orientati, un fracasso
«può premere il pulsante, in caso senta disagio»
laconica istruzione e ripensavi
alle rose
alle muse
al canto che un immenso sempre intona
chiede ogni voce d’uomo che si accori.

Immagine: Spencer Finch, Dusk (Hudson River Valley 10/30/2005), 2005.

Giovanni Parrini è nato a Firenze, città in cui vive. Ha pubblicato, in poesia, Nel viaggio(Lietocolle, 2006); Tra segni e sogni(Manni, 2006); Nell’oltre delle cose (Interlinea, 2011); Valichi(Moretti&Vitali, 2015); Le misure del cielo, "Poesia", 284 – a cura di M.G. Calandrone (Crocetti). Ha vinto il Premio Giuria-Viareggio e il Premio Pisa con Valichi.