Il disprezzo del rimedio

da | Gen 2, 2017

Ripubblicato nel 2013 per Il Saggiatore nella storica collana “Le Silerchie”- progettata e ideata a suo tempo da Alberto Mondadori per ospitare una selezione delle voci più significative della letteratura d’ogni tempo – a poco più di trent’anni di distanza dalla prima edizione (1983, per l’esattezza) Millimetri di Milo De Angelis non solo non ha perso un grammo della propria forza ma, al contrario, il tempo lo ha reso un libro ancor più spaesante, alieno, inospitale – in una parola un libro del tutto ‘inattuale’, in senso nietzschiano. E anzi, più che un libro, un precipitato, un distillato di pensiero condensato intorno alla sua spina ragionante, il referto asciutto e lancinante di un’esperienza terribile del pensiero, di un’esperienza del terribile stesso, andata e miracoloso ritorno nei territori dell’estremo, del separato, del sacro (protratto per tre libri, perché anche i successivi Terra del viso e Distante un padre avrebbero proseguito il viaggio, benché in maniera meno ripida e concentrata, dentro le stesse vertigini). Distillato di un pensiero con un cuore vivo rimasto inalterato per oltre due millenni, Millimetri si strappa a ogni filiazione novecentesca stagliandosi come libro a parte, scheggia di un mondo e di una visione dell’essere che ha attraversato i millenni per giungere fino a noi. Per trovare un appiglio, una seppur minima chiave di lettura occorre infatti risalire fino alla Grecia arcaica, la Grecia presocratica e pre-dialettica di Eschilo, di Sofocle, di Eraclito – la Grecia tragica e sapienziale, in definitiva, ossia quel momento della storia europea in cui avvenne l’intuizione che la vita mortale sia concepibile unicamente a partire dal pensiero del fato, e in cui per la prima volta pensiero e linguaggio configurarono se stessi per rispondere e corrispondere a quella intuizione.

Millimetri si muove[1] lungo il confine, esso stesso millimetrico, che separa la parola e la vita dalla sconvolgente intuizione di un destino anteriore,  di un «silenzio frontale dove eravamo | già stati»[2], l’abissale principio che ci ricorda e chiama e a cui ciascuno deve fare ritorno: e tutto l’immobile viaggio di Millimetri avviene proprio lì, al cospetto dell’asse verticale del destino, della verticalità assoluta in cui si consuma la nostra esistenza e a cui dobbiamo ubbidire, conformemente a una legge originaria, a quel destino anteriore, la legge di ananke.

ANANKE, IL TEOREMA PIÙ ANTICO

Di primo impatto, il libro raggela il lettore, precipitandolo nelle zone più impervie e scheggiate del pensiero. Ciò nonostante, come il titolo già lascia intuire, Millimetri è un libro dell’ordine e dell’ordinamento, una mappatura del pensiero colto nel momento in cui si vede pensare e intuisce la sua essenza, la sua destinazione che è anche la sua provenienza, l’origine da cui viene e a cui infinitamente fa ritorno. Ananke, la necessità intesa come fato, è il nome della legge di cui risponde questa essenza che noi stessi siamo, in quanto stirpe di una grammatica e di una struttura del pensiero che si sono originate in Grecia. Millimetri, comprimendo nel suo verso franto e concentrato un lasso temporale di oltre due millenni, mostra proprio questa ossatura, questa filigrana che abita e plasma ancora il nostro esserci. Vertiginosa e frontale è la posizione dell’uomo dinanzi alle potenze del fato, quando entra in questo ordinamento e di esso deve rispondere. Vertiginoso è l’ordine necessario. Nella raccolta di saggi Poesia e destino, data alle stampe nel 1982, un anno prima di Millimetri, ampio spazio è dedicato alle stesse problematiche che vediamo qui precipitate in versi, di modo che assistiamo così al saldarsi di un nodo potente e illuminante tra riflessione e creazione, tra teoria e poesia. Malgrado la ripidità dei versi, infatti, la silloge è abitata da un pensiero potente e univoco, che cerca di restituire l’esperienza di se stesso mediante squarci, lampeggiamenti, abrasioni, tutto saldamente concatenato secondo la logica ferrea di una dettatura che ha come ideale non il testo e nemmeno “una” poesia, ma piuttosto la legge interna che ne governa il dettato, una testimonianza assoluta del pensiero poetante e della regola che lo determina: l’autore, in Poesia e destino, riferisce infatti che negli anni ha ricercato «un andare a capo ancora più lontano dal senso […] una rottura della frase che fosse obbligata ma non innalzabile dalla frase stessa né dalla totalità delle frasi. Che fosse innalzabile da una specie di dettatura, la quale imponeva di spezzare la frase senza spiegazioni e di amare questa spaccatura in una visione totale della poesia, non di quella poesia»[3]. La parola di Millimetri, e in effetti tutta la poesia di Milo De Angelis, abita proprio quella spaccatura, quello spezzamento dettato che non si lascia spiegare se non in ragione dell’assoluto a cui deve ubbidire e a cui vuole corrispondere. Parola di un luogo estremo e essa stessa luogo estremo, punto totale verso cui tutto il pensiero tende, «conto alla rovescia o secoli | in cammino | fino al nudo principio | premuto sopra le tempie»[4] e «canto | irto di pressioni» dove «i maratoneti | incendiano una cellula | con il soffio al cuore»[5]. L’esperienza del mondo millimetrato del tragico, dove ogni segmento di poesia deve rispondere di tutta la Poesia e dunque essere assolutamente esatto, passa attraverso una compressione terribile, e tutto è denudato («ora c’è la disadorna») fino alla sua cellula ultima, «stretto fino al proprio ferro», travolto da una vampa che ne consuma ogni significazione usuale, ogni attribuzione di senso abitabile, finché di esso non resti che la pura spina pensante. La parola qui non è più al riparo e non offre più alcun riparo, è osso spolpato, casa deserta, unità prima ed essenziale, elemento, «veste a brandelli» inchiodata a «un teorema più antico»[6].

La forza che determina il disporsi dinanzi a noi del libro è la pura calamità di una legge, di un comandamento ferreo, algebra scolpita, teorema. Un teorema antico, più antico, come viene detto. La domanda diventa allora: più antico di cosa? Ecco emergere la questione centrale. Millimetri, comprimendo il tempo in una pura linea verticale, riducendolo alla nuda verticalità del fato, fa tabula rasa della storia e della storicità riportando tutto all’indietro, all’inizio, al punto zero dell’esistere, al «silenzio frontale | dove eravamo già stati». L’algebra dettante di Millimetri ammette solo la legge del fato, e come tale si colloca al di là o al di qua di ogni humanitas, varcando il confine di un tempo che precede la storia e l’uomo. Qui l’uomo non esiste, se non come puro supporto, scena strappata delle e dalle forze. Qui siamo nelle regioni dell’inconciliabile, delle contrapposizioni nette e frontali, della lacerazione insanabile che pervade l’essere e ne frantuma il miraggio di senso. Millimetri è in questo senso un libro spostato interamente all’indietro, un libro risucchiato (figura ricorrente della silloge stessa) che accade in uno spazio precedente, un libro già accaduto e che non smette di tornare: nessun logos, nessuna ratio, nessuna concessione al dialegesthai. La voce che ci parla è una voce arcaica estranea a ogni logica del superamento, della conciliazione, dell’alternativa, del rimedio. De Angelis stesso, riprendendo Eschilo, in Poesia e destino definisce il tragico come il disprezzo del rimedio. E Millimetri in questo è risolutamente un libro tragico, perché rifiuta la conciliazione e la rappresentazione (e ogni rappresentazione è una conciliazione, un tentativo di conciliazione con il senso che ancora non possiede il senso, ma ne inscena l’ipotesi). Millimetri presenta, espone nudamente la parola presa viva nel gorgo delle forze. Né dubbio né dialogo. Né ipotesi né verifica. Solo un puro nervo di pensiero sagittale, una destinazione univoca, un solo uni-verso dato, senza scappatoie, frontalità assoluta a cui non è permesso sottrarsi. Per questo, Millimetri è un libro risolutamente affermativo, un libro da cui sono state asportate gelidamente tutte le vischiosità dei “non” e dei “magari”, un libro, cioè, presentativo («noi fermiamo lì una guerra | con navi serene e gelide»). Allora, se l’uomo è la scena sfigurata in cui si danno battaglia le forze, e se l’uomo è chiamato ad ubbidire fino all’amore a queste forze che lo lacerano, il suo essere è determinato proprio dall’ubbidienza e dall’amor fati. Noi ubbidiamo, non possiamo esimerci perché è questo il nucleo irriducibile e invalicabile del nostro essere, un teorema, il teorema più antico, più antico di ogni teorema del logos e della ratio, in cui si intrecciano per sempre aion e chronos, tempo ingenerato e tempo generato, origine e stirpe, eternità e fato:

I bastoni
hanno frantumato l’ultimo secchio
e ora il villaggio fa
silenzio
nella corte marziale. Ecco
l’inchiostro, tra una moltitudine
di assetati in orario,
un cognome:
tutte le uova molli
giungeranno
per forza o per disprezzo
e quel
faraone darà la staffilata
che ancora oggi ferisce
e le fa terrestri.
Chi genera il tempo
ha il volto arato e con pazienza ripete
che noi ubbidiamo.

In questo testo è condensata l’intera scena dell’umano, se con questa parola fossimo abituati a pensare ciò che in noi sta di fronte al fato, si espone al destino, e con ciò ci determina. Umano sarebbe allora ciò che è destinato, il destinato stesso, e la parola uomo indicherebbe il perimetro e la misura delle forze che giungono a destinazione – in rapporto assoluto con lo smisurato che le governa, dal quale restano al tempo stesso unite e separate dal vincolo dell’ubbidienza.

Ciò che è separato è il sacro. Ma lo smisurato è anche ciò che sgomenta, ciò che spaventa, il sacro, di nuovo, ma nel senso del terribile. Solo in quel campo di forze dove si dà destino, cioè l’ubbidienza al sacro, accade l’umano. Il testo che abbiamo ascoltato non evoca tuttavia una scena che abbia a che fare con l’ordine della rappresentazione, ma piuttosto con quello della presentazione, della nudità, dell’esposizione asciutta di un evento che, a sua volta, non appartiene all’ordine di chronos, ma a quello di aion, non alla cronologia ma all’eternità (tra i molti significati di questo termine, c’è anche quello di destino della vita e di midollo spinale). Ci troviamo pertanto non nell’ordine delle opere e dei giorni ma nell’ordine del decretato, ancora una volta, del sacro, cioè di quanto è stabilito una volta per sempre. Ciò che è stabilito una volta per sempre è il terribile, e come tale deve rimanere separato, polo assoluto e inconciliabile che destina e orienta, a cui si deve ubbidire. Cosa è decretato, cosa è stabilito, nel gelido fermo immagine di aion che ci offre I bastoni?

La miriade, la massa sterminata dei non ancora vivi, dei nascituri, è convocata a giudizio (la corte marziale), ma non a imputazione, bensì ad assegnazione: di un cognome, di un ghenos, del destino tatuato (l’inchiostro) nei nomi della stirpe (un cognome). Viene assegnata una chora, una regione, una porzione di spazio che è al tempo stesso fatalità e fato: la terra. Nel tempo generato da colui che determina questa stessa assegnazione, il nostro ghenos è l’essere terrestri. Il faraone – tramite questa cifra ci si presenta il destinatore, è lui il decisore, colui che ordina lo spazio e il tempo dell’assegnazione con gesto originario e cruento (la staffilata). Così la chora è lo spazio aperto dalla ferita, è la ferita stessa, l’inaugurazione giunta e ingiunta mediante il taglio, nel taglio. La nostra genia – genia di convocati – discendendo nel soma ubbidisce al suo destino. La terra è lo spazio generato dal comando e destinato all’assegnazione, è cioè lo spazio in cui si ubbidisce alla propria destinazione, al di là di ogni volontà o dovere: è la nostra stessa sostanza che decreta in noi il fato (che sarà un eterno ritorno verso il proprio principio, un eterno e tragico tendervi già avvenuto in aion).

In quanto terrestri, siamo stirpe; in quanto stirpe, riceviamo il nome e lo diamo. Siamo gli assegnati, i destinati, i recisi e scissi (l’uovo), ma anche gli appartenenti e i radicati, coloro che giungono alla terra assegnata (quindi data una volta e per sempre, né a venire né promessa, «chilometro bussato in pieno»)[7]. Poiché la terra, la chora, è lo spazio inaugurato dal taglio, appartenere alla terra significa appartenere a quel taglio, essere per sempre la genia di quell’origine, di quel reciso inizio. Noi apparteniamo a una ferita radicale, le siamo assegnati, e proliferando (tutte le uova) la nominiamo nostro territorio e terreno. Così siamo allora anche l’aratro, il vomere che sta ugualmente alla terra e a quel gesto originario, il taglio, che sancisce e ripete. Generati dalla staffilata, noi abitiamo lo spazio decisivo e deciso del taglio (e l’implacabilità univoca del pensiero sapienziale, pre-dialettico, escludendo alternativa e conciliazione sa che è questo il solo e unico spazio, che dobbiamo amare) e in esso ripetiamo il gesto che ribadisce l’origine, sfigurandola.

Nell’assegnazione, il nostro gesto di incisione riecheggia il principio da cui veniamo e verso cui torniamo, l’originaria staffilata del faraone-generatore. Ma chi, o meglio cosa è questa potenza generatrice? Quale forza primordiale è incubata dietro il lampeggiamento del simbolo? E che cosa significa esistere, se si esiste solo nella misura in cui si ubbidisce allo sfigurato, a una potenza che il volto arato rende inimmaginabile, irrappresentabile, inconciliabile con quel doppio della forma che è il senso? E chi siamo noi, se a tale cieca ubbidienza è indissolubilmente legato il nostro esserci?


ISTEMI
, LO SPEZZATO

Pura potenza affermativa, in Millimetri, come si è detto. Occorre avere amato un fato, aver detto sì, per ubbidire fino in fondo all’ordine necessario, alla legge sancita, al decretato. E, ugualmente, occorre avere ubbidito a un fato per poterlo amare fino alle sue conseguenze estreme. Nessun tentennamento, nessun temporeggiamento, pena la dialettica o l’esistenzialismo. Bisogna aver amato il destino cui si è assegnati, avere espugnato l’attimo con «giubilo mozzafiato», ed essere giunti infine là dove si trova «la pagina di quarzo | nell’agenda, quando | ogni uomo viene raso al suolo | e ricorda»[8], dove cioè prosciugato ed essenziale diviene il ricordo dell’origine verso cui tendiamo e da cui saremo ancora raggiunti, per sempre. In Poesia e destino c’è un passo essenziale per comprendere la concezione del fato che anima Millimetri. La parola “destino” è fatta risalire al verbo istemi, che «significa “rimanere” ma nello stesso tempo “sprofondare” e “innalzarsi”. Mostra l’immagine di un punto e insieme l’immagine di verticale; o meglio: di una semiretta verticale contrassegnante il punto da cui parte il cammino verso l’alto o verso il basso. Il destino diventa questa semiretta, trampolino istemico dell’inabissamento o del volo. Un’”eternità spezzata”, come la definisce Hebbel. (E bisogna aggiungere che proprio nello spezzarsi l’eternità si rifiuta alla beatitudine e si mantiene greca)»[9]. Il destino come “trampolino istemico” è dunque la fenditura che spezza aion, fenditura che ne indica anche il perno, la legge che porta in sé: l’insanabile, l’inconciliabile, la crepa buia del travolto. Il destino è questo ordinamento spezzato, questa legge dello spezzamento: il silenzio frontale a cui giungeremo per esservi già stati non sarà un compimento, una Aufhebung delle contraddizioni del sensibile nella superiore armonia dell’assoluto: l’assoluto stesso è insanabile, è l’Insanabile, e giungere di nuovo nell’origine significherà essere annullati, travolti dalla frontalità assoluta dello spezzato di cui noi stessi portiamo il marchio, in quanto esso è la nostra provenienza. Se provassimo a disegnare il concetto, dovremmo quindi servirci di una doppia semiretta composta di due vettori, la direttrice lungo cui ha luogo l’avventura dell’umano come destino incarnato. Vi sono in Millimetri tre versi, dall’ultimo componimento della silloge Fanghiglia e forti gatti, che sintetizzano in modo potente e inequivocabile questa intuizione: «così | sollevandosi nel nulla, crescono | soltanto alla radice»[10]. Noi infatti aderiamo ogni volta  a tutto il destino e siamo consegnati a un campo di forze che è tragico in quanto lacerato e lacerante: non abbiamo l’alternativa, non possiamo scegliere, andiamo in alto sprofondando di modo che al centro di noi stessi non v’è che una crepa ferma e intangibile, un’incrinatura essenziale, tensione assoluta di una suprema immobilità e , lì rimaniamo dentro il fato. C’è una zona immobile in noi che è esattamente la crepa che ripete la spaccatura che percorre aion, l’eternità da cui proveniamo e a cui tendiamo. Vengono allora in mente intuizioni analoghe, come la sentenza di Eraclito per cui «via in alto via in basso, una sola la medesima», o anche i «crollati all’insù» di Paul Celan. C’è in Millimetri un testo che meglio di ogni altro restituisce l’intuizione del movimento istemico:

ANIMALI

Animali
dai piedi bianchi e cieli
succhiano questa stanza
e le donne
soffocate in pace:
placidi sono i lacci
come una neve in voi, più vostra, più
colpita. La mela
è morta.
Con macchie di china tu dicevi
nascetemi in stringere
infiniti, in piangere,
guardateli quando
scavano questa gola:
scendi, pavimento.

La tensione e la torsione di questo testo sono massime: tutta la prima parte è dominata dal «risucchio» verso l’alto, verso il cielo; poi viene il punto immobile, il perno che sono quei lacci così stretti, così fermi, così colpiti da poter essere solo nostri, qualcosa di appropriato perché penetrato in noi stessi, conficcato, scolpito. Lì è il punto dove si muore, dove abita la morte che vive in noi («la mela | è morta»), il punto dove si rimane sospesi sull’abisso, l’immobile, il millimetro di quarzo dove siamo spezzati. Così, avviene la torsione e il vettore della verticale punta verso il basso con due immagini che sono discesa (la nascita) e baratro: «guardateli [essi, gli uomini] quando | scavano questa gola [e così invocano]: scendi, pavimento», richiesta assoluta di un appiglio, di un punto di appoggio che sbarri la voragine e resta però lì sospesa, in maniera sconcertante, come la preghiera più terribile ed estrema. Questo è il testo, potremmo dire, della vertigine istemica, il luogo del libro dove siamo posti di fronte all’evento della nostra esistenza colto nel suo nocciolo essenziale: è questa frana la chora a cui ci siamo visti assegnati da I bastoni, è questa frontiera lo smisurato in cui siamo i precipitati e i risucchiati. La “stanza” senza soffitto e senza pavimento, la stanza dove l’orizzonte entra ponendosi in verticale, la stanza dunque senza limiti e imperimetrabile è il luogo sfigurato della dismisura istemica. A questo spazio istemico corrisponderà allora un tempo istemico, che è l’istante, epica di un punto franante dove tutto è colpito e deciso. In Millimetri non c’è infatti alcuna concessione alla cronaca, nessuno spazio per chronos perché ciò che conta è la sola scena torreggiante e granitica di aion: «ecco | ferma nella sua essenza | la mole di un tuffo». Potenza raggelante del tempo conglobante, dove si intravede la struttura spoglia e minerale degli eventi, ecco allora «la pagina di quarzo | nell’agenda»[11], ecco «la disadorna» ed ecco che «si compiono gli anni | a manciate» perché «tutto avviene | in quantità enormi» – ecco che allora «tutti sono in preda | stretti fino al proprio ferro»[12] e «scannati fino alla | madre che diventa sorte»[13] mentre «già si accorciano | le ombre, si fa mezzogiorno»[14] e tutti giungiamo perché anche se siamo «separati da cinquecento anni», o cinquemila, «di notte hanno lo stesso nome»[15], anni tutti gemelli, scolpiti in aion.
Il punto è che istemi, come unica voce verbale di aion, è vettore di un’accelerazione e di una compressione tremende, di un attrito immane in cui collidono i tempi che siamo abituati a pensare separatamente e in successione (cronologicamente, appunto, ovvero sulla scena rappresentante di chronos), un urto in cui l’asse istemico subisce una compressione tale che il rimanere è anche sprofondare e anche innalzarsi e mai nessuno dei due («ecco | ferma nella sua essenza | la mole di un tuffo»). Tutto fuorché compimento, fuorché “beatitudine”, pertanto. In aion balugina la struttura essenziale degli eventi, senza che possa risolversi in un’unità ulteriore: una «miriade di morire»[16] dove «il punto sanguina» e l’universo eternamente inizia «gettandosi nel battesimo | per un soffio».

AION, LA VISIONE DELL’ETERNO

«Alla base della visione dell’eterno ritorno non va ricercato tanto l’eco di notizie dossografiche su un’antica dottrina pitagorica o di ipotesi della scienza ottocentesca, quanto piuttosto il riaffiorare di momenti culminanti della speculazione presocratica, che hanno indicato un’istantaneità ritrovabile nel tempo, la quale tuttavia conduce al di fuori di esso, annullandone l’unidirezionalità irreversibile.
Retrocedendo verso l’irrappresentabile si può dire soltanto che l’immediato fuori del tempo – il «presente» di Parmenide e l’«aion» di Eraclito – è intrecciato nel tessuto del tempo»[17].

Millimetri è interamente percorso da frammenti e lampeggiamenti di questa istantaneità che crea un varco tra due temporalità differenti, quella visibile di chronos e quella invisibile di aion. Questo istante è totale e annientante, e lo è per sempre. È l’istante che brucia la vita e il tempo e inchioda all’eternità che esso stesso spezza: lì sono inchiodati anche i versi che lo traducono e gli corrispondono.  È l’istante che annulla immediatamente ogni parvenza cronologica («già si accorciano | le ombre, si fa mezzogiorno»), l’istante annientante che coincide con il principio stesso, deviazione infinita del vettore chronos curvato all’indietro, confutazione subitanea di ogni irreversibilità del ciclo. A questo istante supremo conducono tre vie: l’ubbidienza, la «sete del pensiero» e il (definitivo) sì – tre vie che indicano la medesima appartenenza dell’uomo al destino assegnato, poiché esse sono una sola e convergono nell’amor fati. Ma quell’istante non è mai buio: è luminoso, è il radioso stesso, la chiarezza suprema, asse solare del cammino, mezzogiorno donante. In questo senso, Millimetri non è quel libro oscuro per cui è stato lungamente spacciato; certo, libro scarnificato e scheggiato, questo sì. E tuttavia pervaso da una luce, certo tagliente, una luce stellare che traccia una mappa, in quanto traduce in versi la legge che dichiara e reclama, fissandola nell’istantanea della visione esatta. Nella raccolta di interviste Colloqui sulla poesia, Milo De Angelis, ricordando il periodo della sua vita in cui è nata questa silloge, afferma infatti che «il paradosso vuole che Millimetri sia apparso a molti come un libro freddo. In realtà, se c’era freddezza, era quella che nasce dalle ore contate, da un panico in cui una creatura, per salvarsi, deve fare solo gesti necessari, come in un campo di concentramento»[18]. Il rigore estremo del libro, scritto «con il terrore di sbagliare anche solo un aggettivo», è proprio al servizio di questa luminosità che cerca di restituire il prisma, il “cristallo di respiro” della poesia, la visione nitida e chiara. Solo nel tempo totale e totalizzante di aion, l’istante folgorato e bruciante, è possibile trovare una via che conduce fuori del tempo cronologico nel tempo assoluto, e la poesia può restituire, traducendone il dettato, quel tempo supremo che sta dietro il tempo storico dei nostri calendari. Il punto è che ogni calendario, ogni data reca in sé anche l’abisso dell’istante, come una slabbratura che lascia intravedere un altro tempo dietro il tempo, aion dietro chronos. Lì, in quella fenditura, «c’è la disadorna | e si compiono gli anni | a manciate» poiché è lì che «ogni uomo viene raso al suolo | e ricorda»[19] ritornando dove già una volta è stato. Libro lampeggiante, dunque, nel senso di questa lampeggiante intuizione, di questa visione che squarcia il tempo e posiziona l’esistenza umana frontalmente all’attimo. È solo assumendo pensiero ed esistenza dalla prospettiva stellare di aion che diventa possibile dire che siamo «attesi nel credo | e saettati sulla cima»; nell’ottica di chronos questi versi e l’intera raccolta appaiono ai limiti del senso… ed è proprio questo il punto: l’opera passa effettivamente  al di là di quei limiti, sempre sanciti dal logos  e dalla ratio, per scoprire un’altra temporalità e un altro senso, un altro modo di leggere il flusso degli accadimenti. Ananke è  il nome greco della legge ferrea che decreta e governa questo fluire[20], ubbidita e amata fino alla cancellazione di sé nel fato, «fino al nudo principio | premuto sopra le tempie»[21], fino all’essenza più spolpata dell’esistere, a quei radiosi «brandelli di un’estate» che ragionano per sempre in chi li ha visti e pensati: «e poi concepiti e poi | basta, basta per |sempre, e poi poeti».

LA SCENA DELLE FORZE (Nota conclusiva)

Nel loro commento in chiusura del libro, Giuseppe Genna e Aldo Nove hanno parlato di una fondamentale «oscenità» del libro, riportando alla mente l’etimologia di questa parola, o-skéne, ossia ciò che non entra, non può entrare e dunque resta ai margini o al di là di ogni scena, appunto in quanto sfigurato, smisurato, irrappresentabile. In effetti, il commento coglie nel segno nella misura in cui, da Millimetri a Distante un padre, la poesia che Milo De Angelis ci restituisce non è più una poesia mescolata alle vicende[22], ma piuttosto una poesia sconvolta dalle forze, una scena delle forze che, come tale, in relazione alla scena par excellence, quella della vita e della storia, non può che presentarsi come oscena, come frontalità e nudità dello sguardo e delle cose, livello elementare del poema, grado zero del pensiero. In ogni poesia di Millimetri, cioè, manca il doppio della poesia, ovvero il senso, il riflesso di una scena (comune, condivisa) su cui il pensiero possa essere rappresentato dall’autore e interpretato dal lettore; e infatti, è una poesia «strappata al pensiero», non inscenabile, lasciata a gridare il suo dolore, le sue intuizioni tremende così come sono, immediate, repentine. Tutte le poesie sono perciò già scagliate in quella nudità frontale a cui i destini tendono, il silenzio frontale del nulla, il cataclisma che le fa esistere solo per ricondurle al principio che le genera.

Se in Somiglianze la vicenda umana era ancora al centro della scena, perché appunto era presente una scena, benché già oscuramente minacciata da una Milano che diventava manifestazione incombente e sinistra di forze annientanti, a partire da Millimetri invece l’inscenabilità del dramma umano è venuta meno, bruciata via dall’emergere in primo piano delle forze, di modo che la poesia perseguita in Somiglianze vi traspare ancora ma come nebulizzata, frantumata, ridotta in brani ripidi ed essenziali, dove non c’è più appiglio. Il decennale silenzio che separerà Distante un padre, ultima tappa di questa scalata alla vertigine, da Biografia sommaria, dove pur recando le profonde cicatrici della lotta il dire di Milo De Angelis recupererà una nuova narrazione quasi in forma di “frammento corale”, è eloquente di che cosa significhi perdere l’appiglio, di che cosa significhi fare poesia onestamente come già Milo ben sapeva, giovanissimo, fin dai tempi di Somiglianze: «scendere, scendere veramente | significa| tagliarsi la via del ritorno».



[1] Ma sarebbe meglio dire: accade, perché è un libro in cui non esiste alcuno sviluppo, alcun movimento, né in avanti né all’indietro, un libro in cui l’unica azione possibile è l’immobilità di chi deve dare ragione di ciò che vede, hic et nunc, un libro dell’affondo verticale.

[2] Milo De Angelis, Millimetri, Il Saggiatore, Milano 2013, p. 23

[3] Milo De Angelis, Poesia e destino, Cappelli, Bologna 1982, p. 17

[4] Milo De Angelis, Millimetri, op. cit., p. 44

[5] Ivi, p. 45

[6] Ibid.

[7] Infatti, mentre una terra promessa apre l’orizzonte di un futuro e la speranza in un possibile, la terra assegnata scava il precipizio di un istante in cui tutto è già accaduto e non può più smettere di ritornare, eternamente, verso il suo destino, che era già al principio: la prima crea una linea tendente verso un traguardo che compia finalmente la storia; ma la seconda istituisce un cerchio che non finisce mai, che non si chiude più.

[8] Ivi, p. 12

[9] Milo De Angelis, Poesia e destino, op. cit., p. 28

[10] Milo De Angelis, Millimetri, op. cit, p.45

[11] Ivi p. 11

[12] Ivi, p.14

[13] Ivi, p.16

[14] Ivi, p. 25

[15] Ibid.

[16] Ivi, p. 39

[17] G. Colli, Scritti su Nietzsche, Adelphi, Milano, p. 115

[18] Milo De Angelis, Colloqui sulla poesia, Book Time, Milano 2013, p. 52

[19] Milo De Angelis, Millimetri, op. cit., p.12

[20] Che non è illusorio ma, piuttosto, parziale.

[21] Milo De Angelis, Millimetri, op. cit., p.44

[22] Con ciò non si vuole in alcun modo alludere una vena “realistica” del poeta perseguita in altri libri. Per Milo, d’altra parte, la realtà è sempre stata un punto (lontanissimo) di eventuale arrivo, e mai di partenza: «ci sono poeti che partono dalla realtà. Non è il mio caso. Io alla realtà ho tentato di arrivarci, attraverso ostacoli, gorghi, sabbie mobili. L’ho invocata, la realtà, le ho chiesto di darmi una prova, un cenno, un segno della sua presenza, come si invoca Dio. Questa supplica in versi è durata molti anni, ha attraversato Millimetri e Distante un padre» (M. De Angelis, Colloqui sulla poesia, op. cit., p 44). La dimensione cronologica dell’esistenza serve semmai da telaio, per esempio nel libro d’esordio, Somiglianze, da appiglio e da scena su cui imbastire un discorso che comunque ha sempre avuto di mira qualcosa che sulla scena non appare e se appare non rimane mai, qualcosa che viene da oltre e vi ritorna.

Immagine: Jsson Martin.