Guardare /12 – Così com’è, così com’è stato

da | Apr 4, 2024

(“Guardare” è una rubrica che propone poesie scritte da ventenni e trentenni e che prova a raccontare il nostro momento storico dal punto di vista del loro immaginario. Questo percorso ci accompagnerà nei prossimi mesi con un’uscita ogni due settimane. Tessera dopo tessera si configurerà un mosaico in cui speriamo emergano interrogativi, chiavi di volta e genealogie di un tempo che muta velocemente, lascia disorientati, ma chiede anche nuove e autentiche forme del guardare. Nella dodicesima uscita alcune poesie di Davide Gallo, nato a Bari nel 1996.)

 

C’è stato un momento in cui la luce
è stata una cosa, l’angolo di pietra, l’ira
dello sconosciuto. Allora
abbiamo piantato le spalle nei grembiuli
accordando con l’aria
quanto di ruggine ci avrebbe preso alle caviglie.
Ora sale il muscolo un vuoto
d’acquedotto «una rovina
sopravvive al costruttore, prende
il coraggio del tempo, è la fretta e l’incanto
di non essere più, di arrivare alle case
a mani vuote».

Si riempie al primo intuito
sui mattoni della piazza dove stanno
accasciati tutti gli anni in uno spigolo
e scarpe senza lacci tengono la strada.
Qui dove la pioggia è chiara
sulla piazza dalla bocca sempre aperta
qui si chiudono le urla in un dorso d’acqua.
Scivolano tra le rampe dello stomaco
e rimangono in una chiusa di mattoni
e di alghe tutti gli annegati
che non muoiono e a raccoglierli
è un rigurgito, un arco di città
senza amore o troppo da confondere
i fiati e le vertigini.

Abbiamo bussato ogni portone
l’ora sacra a cui nessuno crede
la traccia antica, il gesto del sole
la violenza che neanche
una promessa potevamo offrire
tra la luce e la porta. Nel buio
fissavamo le porte
in attesa di una fuga.

 

*

Quando ti vedevo dare vita
non pensavo fosse tanto faticoso.
Dopo sette giorni e cinque ore che mancavi
il basilico era secco sul portone
l’acqua l’ho versata con due mani
– poi le altre, piante grasse
e piante brune.

Aveva foglie come flebo
pesanti e verdi, dieci giorni
e cinque ore dopo che mancavi.
Intanto il gatto graffiava sulle porte
senza fame e senza sete.

Quando i corridoi si sono fatti tiepidi
delle tue parole stanche, dei tuoi
cadenzati passi acrilici, tutto
per un attimo è sbiadito
come il sole lascia il ciglio
dei palazzi e ai battiscopa
si pettina timida un’anomalia
come di lavanda
che rifiuta la fatica di stupire
chi passa per caso senza stare
a guardarla farsi densa
cicatrice nella terra.

 

*

Un omero d’ulivo per te
per le tue gambe
e i tuoi vertiginosi abbandoni.
Che nelle immobili tue anche
possa sollevarti dall’aria dei malati
una speranza di carta sulla linea del mare.

Spingere un battello
nelle grinze della terra
schiarito dalle pesche
e l’invidia delle ortiche.
Sfilare la spina dorsale
fare una casa con un telo
verde bottiglia.

Là sfinire le giornate e i primi passi
– i bottoni che stillano davanti
e si cuciono da dietro – e restare
negli ulivi che hanno il tempo
piegato tutto tra le rughe
e gli innesti.

 

*

La vita animale qui è un granito
il respiro visibile dell’ossidazione
il marmo prima che il grasso
sia oppresso dall’orma
e invigorito dal vento. Ha arterie
che scivolano su cancrene di bianco.
Così è qui la vita animale. Vado a cercare
cosa hai lasciato nella nebbia, le tinte
forti della strada, la struttura della pioggia
che cade dall’ombra di ulivi come ninfe
e senza testa sulla sfera della terra.

 

*

Esserci ora è piegarsi nella punta
l’odore del primo e del successivo
spalancati come stare nel mese prima dei giorni.
Nel primo c’è un pezzo di nulla che ha coperto
ogni anomalia, la mattina, il tavolo vuoto, i nomi
sono scivolati per il sonno degli altri
il giudizio trema nella necessità, le cose
solo se qualcuno le guarda.
Il successivo è sollevato tra il muro e la bocca
la bocca che trattiene il male, il male che si allunga
diventa muro. Ma poi sono una punta di maggio
legata agli estremi dell’anno
i giorni pieni prima di voltarti
il male che avanzerà per sempre.
Ora si piega vede il primo
e il successivo oscillare
insieme tra le cose che cadono
così il bacino lega una vita al suo spostamento
il centro è un’ala scomposta
la terra più vicina, intatta
l’aria senza salto.

 

*

Siamo stati siciliani un tempo e queste vele
del colore irrisolto di un padre, con l’addome
immobile scendono la prua. Riconosciute
la nave e la polena, ti ho cucito al bordo
della tela in cui mia madre ti annegò.

Quella notte lunga come un arco
tirato dalla luna e rilasciato
oltre il cordoglio del sole.
Mi hai cercato
quando non c’erano doglie
arrivavi col fuoco dell’assedio
gli assistenti sociali, i tuoi
sicari lanciavano segnali pieni d’ombra
e le donne in prima linea intrecciavano
ai propri capelli la tempesta che tentavi.

Poi si è stati in silenzio, ogni famiglia
deve proteggere i propri segreti
mostrare il fianco molle a eludere il male.
Quando la luna ha liberato i muri
e i comodini di quest’ospedale
sono stato una freccia scagliata
non per la caccia ma per il segnale
che tutto sarebbe finito
e ricominciato per sempre.

 

(da “Cos’ com’è, così com’è stato”, Vallecchi, 2024)