Dissociazioni

da | Gen 4, 2022

Il gruppo di ricerca Italian Poetry Today dell’Università di Oxford e la rubrica Officina Poesia di “Nuovi Argomenti”, in collaborazione con l’Istituto Italiano di Cultura di Londra, hanno proposto nel 2021 un premio dedicato a brevi raccolte di poesie esclusivamente inedite. Alla prima edizione sono risultati vincitori Carlo Rettore (primo posto), Francesco Brancati (secondo posto), Francesco Terzago (terzo posto), con menzioni speciali per Bianca Battilocchi e Damiano Sinfonico. Dedichiamo la prima settimana di gennaio 2022 a pubblicare i loro testi e iniziamo con Francesco Terzago. Per maggiori informazioni sul premio: Poetry Prize (italianpoetrytoday.com).

 

1.
Sulle mensole nell’atrio del centro polifunzionale
si trovano decine di coppe. Quarantadue
per l’esattezza. Guardandole dal basso proiettano
aureole di polvere sul vetro. Sono sequenze
di zero [le aureole] e di uno [le coppe
stesse che si ergono]. La luce dei neon
fa traballare tutto come su un molo galleggiante.
Predomina il blu elettrico: ogni coppa
ha delle parti di questo colore. Piedi e modanature
possono essere ricoperte da uno strato sottilissimo
dorato – oppure argentato, lucido.
Ci sono casi in cui plastica e metallo si alternano
e quasi si confondono. Però in quelle più vecchie
[risalgono agli inizi degli anni Novanta]
il metallo si è intorpidito mentre la plastica
non ha conosciuto deterioramenti.
A osservarle bene, le coppe, si comprende
che sono composte dagli stessi elementi.
C’è un linguaggio delle coppe, un’eco
della produzione, del fumo degli stampi.
La geometria dei moduli si fa dunque distinguibile:
ogni coppa ne ha in comune con le altre.
Per es.: i cilindretti che costituiscono il fusto,
l’orlo, la sotto-coppa, il calice e/o il piede.
Sono state assegnate da qualche club
a giovani sportivi e sportive dimenticati:
arti marziali, pallavolo e pallamano e poi le squadre
di danza: [Fly Girls, Bunny Dancers, Farfalle Ribelli]
anteposte nello scenario a quelle con nomi testosteronici,
patriarcali e cripto-fascisti del calcio amatoriale
[Celtic Warriors, S.S. 88, I Templari Neri].

Indossa un kimono candeggiato. Una testa di setole
sottili e bianche. Gli occhi semi-chiusi stanno in equilibrio
sugli zigomi viola, sulla rete delle vene periferiche esplose.
Respira. E il suo respiro lascia della condensa sul vetro
dell’espositore, lui la toglie passandoci le dita. Il numero
dei praticanti sta diminuendo, le classi di karate si riducono.
Aumentano i lottatori di MMA con tatuaggi nostalgici.
Le dita si muovono come pinne di silicone.
Lo ha visto in un video, il movimento che fa
un robot-delfino quando perde il segnale. Un ultimo sogno
subacqueo. I ricordi sono un racconto ripetuto
tra le labbra, chiusi in sottilissime bolle. Nelle sue labbra
si sovrappongono le forme dei suoni e degli eventi.
E, per un istante, gli pare di comprendere il punto
in cui si trova, quando e perché – la sequenza di figure
che ha la decolonizzazione nelle future generazioni.

 

2.
Con il peso delle dita si distrugge.
La mano la circonda in una gabbia mobile.
Lei vorrebbe volare via ma sbatte da ogni parte.
Deve avere meccanismi più sottili
di una lente a contatto. Si è spezzata.
La colpa è del mignolo che ho mosso
senza accorgermene: l’ho colpita:
il combustibile lascia una macchia
verde sulla maglietta ed è difficile toglierlo.
La pasta per detergere non sempre ce la fa.
Sono ovunque. Escono dal buio
della foresta. Raggiungono l’impianto mentre
i quadri elettrici sono aperti, le ventoline
sono immobili anemoni di plastica. Lo ricoprono
in modo completo: l’arancione della vernice non si vede più,
né i depositi della lavorazione, le incrostazioni litiche;
né gli assi con gli azionatori del braccio robotico
lungo oltre quattro metri. Le ali si aprono e chiudono
mentre gli insetti assorbono il calcare con le spiritrombe.
Migliaia di farfalle che potrebbero decidere per il volo,
scegliere una rotta, senza ritorno. Mi chiedo se siano
capaci di dissolverlo, il metallo: le tonnellate di ghisa
e acciaio e di quanto tempo avrebbero bisogno.
Con la prossima sarò più attento. Troverò
il modo di chiuderla in un pacchetto di sigarette.
Metterò del cotone inumidito con acqua e zucchero
nella parte più bassa, sulla carta accoppiata con l’alluminio.
Per il disassemblaggio della farfalla dovrò aspettare
di essere in garage: diciannove ore di jet:
diecimila chilometri nell’atmosfera.

 

3.
Le spine escono dalle maglie della recinzione. I fiori
stanno dall’altra parte e indicano, nell’insegna di foglie,
non il giardino ma la casa, una bifamiliare squadrata
come una radiolina. Le more sono lampadine bruciate.
Così, in ognuna di loro, sono conservate
decine di migliaia di informazioni; la registrazione
dei mesi che sono appena trascorsi e, guardando bene,
il riflesso di alcuni istanti futuri [la materia del passato
costituisce il futuro o lo sta colonizzando?].
Una pellicola di ghiaccio evita la corrosione
delle more. Sulla loro superficie cade l’albore delle elettricità
discontinue, tanto fanno le immagini di fuochi
freddi, di ricordi, e di storie che restano senza parole.

 

4.
A una distanza di tre quattro miglia si vedono:
edifici residenziali, barriere di container, impianti
di depurazione raccolti in prossimità
della linea costiera. Se si sale con lo sguardo
il cemento diminuisce, le strisce di bitume
si assottigliano. Così gli alberi si stringono tra di loro
proponendo una superficie porosa, mobile, verde.
Dura per poco, in realtà, perché più su
ci sono le rocce e delle macchie d’erba
dura, spenta. Culmina nei ripetitori, nelle antenne,
nelle torri di segnalazione, con le pale eoliche, l’areale.
Si segnala in prossimità dell’acqua la presenza
della specie [la sua sopravvivenza dipende
dall’acqua?] che si insedia ad altitudini prossime
allo 0 – sul livello del mare. Esaurito questo spazio
colonizza le altezze. Si segnalano
sporadici avvistamenti nelle dimensioni
cosmiche dove gli esemplari riproducono – in contenitori
ermetici – il loro habitat. Le finalità di un simile
costume sono tutt’oggi materia di discussione
tra gli esperti.

 

5.
Ogni volta che in questo buio le incontriamo
smettiamo di parlare e per qualche secondo,
fino al momento in cui la macchina
non se le lascia dietro, diamo loro lo sguardo
– pescatori notturni ipnotizzati da un galleggiante
che lampeggia, fluorescente.
Sono le foglie. Quel verde. Tornando dal lavoro
o al contrario, seguendo il viale per lo stabilimento
(e per gli uffici), sopra di noi lampeggiano. Un verde
superstite che ghiaccio e neve non trafiggono.
È servito per farle sopravvivere il calore delle lampade
dell’illuminazione stradale, il vapore acqueo che muove quella luce.
Non c’è altro che non siano loro, le foglie.
Dieci al massimo per ogni platano secolare.
Molli, sottili, quasi trasparenti, le foglie.
Rimodellate nella confusione che c’è adesso
tra il giorno e le notti. Gruppi minimi di foglie
che ci chiediamo se resisteranno o se la loro
forza svanirà: il loro attaccamento alla vita,
all’abitudine, al bisogno di energizzare
il sistema albero. Comunque, in primavera sporgeranno
i denti da latte (gli alberi non diventano
mai adulti) e con gradualità arriveranno
le gemme dal legno capitozzato.
Distraggono e spaventano, le foglie. Il verde inatteso:
distraggono dall’entità degli stipendi, dalla voce lunare
in radio, dalla subordinazione, dalla gerarchia.
Stavamo aspettando questo segnale, dice il neo-assunto:
deve essere la nostra via di esodo: galleggia verde su di noi
tangibile fantasma negli interminabili spazi della produzione.