Bentos

da | Mar 26, 2024

Dal poemetto “Bentos” di Francesco Terzago, appena uscito per la Collana Isola con illustrazioni di Valeria Cavallone, pubblichiamo tre estratti. 

 

Quando arrivò la malattia le persone morirono.
Per alcuni la malattia era interna –
per altri si manifestava all’esterno, comunque
gli ammalati erano portati nei palazzi
degli ammalati, e morivano. Questo succedeva
all’inizio. La malattia trasformava le persone
in cristallo. Se partiva dalla punta delle dita
l’unghia dell’indice si sollevava a sufficienza
da mostrare un aggregato prismatico, un’attinia. 
Poi la pelle di tutto il corpo si ricopriva 
di una calotta di sale colorato che diventava
sempre più spessa. Prima pulviscolo,
acre, poi gemme sfaccettate. Entro
dieci maree tutto il corpo ne era
ricoperto e non poteva più muoversi.
La malattia, progredendo, concedeva sazietà e silenzio.
Era parte di quelle persone come se fosse stata
sempre nella loro carne. E loro la accoglievano. 
Poi tutti i palazzi furono chiusi e ognuna 
di quelle grandi case, bloccate nel sedime,
fu piena di ammalati. Quando i malati superarono
in numero i sani si presero più libertà e così
fecero gli uccelli e tutti quei viventi che
si erano dovuti nascondere dal ferro e dal tuono.

 

*

I cristalli nelle vasche di evaporazioni si mostrano oggi
con rosa e azzurro guizzante. E noi lo raccogliamo,
il sale, e lo conserviamo in mucchi e dentro c’è tutta
la morte, e dentro c’è tutta la vita. Per otto-dieci lune
noi lo proteggiamo così – con lastre di sabbia liquefatta
nella fornace, con carbone d’alghe – mentre
guardiamo il grande coperchio lacrimare. Il vento 
spezza il mare e gli dà crinali, mette quelle
che noi chiamiamo “montagne”,  il mare e il vento 
allora svelano tutte le figure della gioia: i pesci 
planano da un’onda  all’altra, i fiori galleggianti e
i frutti si staccano dagli steli sommersi e si disperdono
con l’augurio di nuovi insediamenti; 
e poi i sirenii fanno comparire il volto a rinnovare
la nostra intesa, ogni tanto il braciere della luna
o del sole, rende visibili le migrazioni di ombre aeree
che non conoscono posa. Il mare deve il suo sapore 
alla restituzione, al confluire – nel mare si deposita,
strato su strato, il materiale di ogni vivente.

 

*

Il fondale si solleva e alghe crescono da ossa
e gusci ridotti, dalla reciproca
abrasione, in un unico composto. Ora è tutto mare,
ora è tutto cielo. E nell’acqua la materia
trova la sua discrezione; pulci di mare e poi pesci,
e poi molluschi; ancora alghe e noi uniti
nel viluppo; siamo il bentos; ognuna 
delle sue forme unite nella percezione
di una forma totale; l’accumulo, le nuove correnti;
i minerali in grani, i depositi; il gas
in colonne spiriformi esce dagli ombelichi del sapropel,
dai residui sommersi, mentre si miscela con
ogni più alto tendaggio accende fiammelle sull'acqua.
Le distanze si scontrano con questa coltre persistente;
sentiamo ogni movimento,
conosciamo ogni desiderio, su di noi pelle-squame.
Qualcuno allunga la mano appoggiando il suo palmo
su luci lontane chiedendosi se siano davvero lì
o se quel movimento le disperda sottraendole
alla vista. E decide così di allontanarsi a nuoto
verso lo spazio aperto guardando fisso
davanti a sé. Se smarrendosi non potrà smarrirsi
quale desiderio avremo noi di trattenerlo.