Areopoemi

da | Mag 3, 2023

Cinque poesie inedite.

 

ALL’INFINITO

Mentre le cose girano storte, tutte,
osservo la rotta dell’aereo
al primo girotondo su se stesso, vedo
come oscilla l’istinto

Sarà mai questo il varco,
la strettoia scambiata per miracolo
dove passano il luccichìo improvviso
e un ronzare indistinto
ma senza niente – ahimè – di metafisico
nella nebbia penetrata dal violetto
di un tramonto precoce
quando riappare l’uomo
a cavallo del trattore
non per scelta o vocazione
pronto a ripetere il suo giro
fin quasi all’infinito
anche se ancora è troppo presto
o troppo tardi per le corse
nel seccume di questa
mezza luce d’inverno

Ma quale sia il momento
di tornare dal suo viaggio
ogni giorno, per l’intero
tempo di lavoro
al trattorista ignoto non lo dicono
le rivincite del gelo tutt’attorno

Finché non condivide col mio sogno
l’ansia dell’ippodromo vuoto

 

 

IL RACCONTO DEL TOPO FLAUTISTA
(a Vivian Lamarque)

No, non sono io che abbaio,
cara la mia barista,
pronta a indagare su chi è
fra i presenti il più kafkiano, quello
al quinto whisky solitario
o il proprietario del gatto
che oggi sarebbe caduto
dal buco fra la carlinga dell’aereo
e la scaletta malferma che ci porta
a pigiarci nell’antro

Beninteso –
il gatto si sarebbe salvato
piombando sul mucchio di valigie
non ancora stivato
ma così non avrebbe catturato
né tantomeno ucciso
il topo flautista che avevo
deciso d’esser io
in questo racconto immaginario
fallito come ogni altro
racconto nel quale mi sono cimentato
anche se oggi mi aveva ispirato
il cartoon che la mia amica Vivian
mi ha mandato ieri sera su whatsapp

E più di Severino Gazzellone
uno della mia generazione
avrà amato Ian Anderson
ascoltato dal vivo
fra inni proletari e lacrimogeni
d’inverno nel ‘73
convincendomi che tutto sommato
quello era il mio varco
eversivo ma con garbo
e solo molto blandamente
rivoluzionario
a patto di studiare tanto
e di non perdere un minuto
a spaccarlo
quel mondo che qualcun altro
di me molto più prezioso e serio
al mio flauto aveva consegnato

Dopo, tutto è crollato,
il cibo carnivoro e pesante
che più amo,
l’antinazifascismo
(e questo è il disastro più tremendo),
ma anche il tracollo del cartaceo,
l’ippica col suo
senso religioso del traguardo,
l’eclissi di cinema e teatro,
infine la riforma concettuale
di tennis pallavolo e calcio
come avevo imparato
da mio padre ad amare

Bimbo alto un soldo di cacio
e oggi topastro anziano
ridotto ad aspettare
ma spero non da solo
la fine ormai prossima del volo

 

 

SUL VOLO VARSAVIA-BOLOGNA

Non lo so, ti giuro non lo so
da quale pericolo provenga
o da quale attrazione magnetica del suolo
quest’ansia che mi divora
e da me stesso scorpora
ogni senso, ogni luogo
attorno, fa del mio mezzo sonno
un unico frastuono
ricordo disturbato, suono abnorme
che trafigge il tuo volto
la sua luce di nuvole attorno
e di sole su questo
volo tranquillo di ritorno
librato da un motore
un paio d’ali un corpo
mentre io mi riduco al lampo
controluce del vuoto

 

 

SIBERIA
(a Enrico Testa)

Oblio, testa dormiente
e va bene
ma la Siberia è un magnete
che vuole per sé, fauci protese
il velivolo intero, con le sue
vite sospese
padrona, più semplicemente
dell’ombra che tutti ci contiene

Algido cammeo miniato
su una piana di pietre
alternate a interminabili foreste
pieghe dentro pieghe
di verdi di bianchi
e poi subito di altri
verdi ma più chiari
tagli dei corpi calcinati
o sbriciolati, che trattiene

Potentissimo magnete,
il triangolo di suolo
dove ha visto schiantarsi le sue ali
per fame di gigante o pressappoco
Mandel’stam

Un posto dove prevedere
la dolcezza omicida della neve

 

 

MA DIO È POETA?
(a Gilda Policastro)

Sarà mica un angelo di Dio
questa nuvola orlata di rosa
appena guardo il cielo, un gesto
impalpabile di frulli messaggeri,
ancor meglio se di passeri
metafisico segno

Di Gesù o di Marinetti
aeropoemi?

Ma no,
ad ascoltarne gli adepti,
Dio esistendo canterebbe
cuori più semplici e più veri
in un’epifania di estasi
e di varchi celesti
fra la gola e lo stomaco
lì dove si rompono i pensieri
mentre una penna buona da prodigi
traduce in tre parole
e molte armonie divinatorie
questo Ente Supremo travestito
da poeta romantico
già estinto

***

«L’ontologia del vuoto». Una lettura di filosofia poetica extravagante agli “Areopoemi” di
Alberto Bertoni

di Alessandro Pertosa

 

Sono distesi al vento – un vento alieno che viene da chissà dove e a chissà dove va – gli
“Areopoemi” di Alberto Bertoni. Versi intensi, profondi, dal respiro ampio e al tempo stesso claustrofobico, si intrecciano in un groviglio inestricabile di immagini precise e suoni nitidi, che si trasformano presto in smisurata vastità, fino a dilatare oltremodo lo spazio, per poi tornare di nuovo a risucchiarlo in un punto che si perde all’orizzonte, in prospettiva, dentro un
batterelevare fuoritempo, al ritmo di un canto quasi jazz, spaesato e mordace, che strozza
il fiato. Ma oltre a questo senso di asfissia amara – esistenziale ed estetica –, emerge con forza dal segreto dei versi il pensiero filosofico e poetico dell’autore che, nel negare l’esistenza di una metafisica capace di sorreggere il mondo (ma senza niente – ahimè – di metafisico / nella nebbia penetrata dal violetto), propone – disperata e nitida – la sua ontologia del vuoto.

Negli “Areopoemi” di Bertoni si può dire che c’è vuoto ovunque. Il vuoto che ci costituisce; il vuoto di senso che ci sovrasta; il vuoto della parola che non dice, che non può dire; il vuoto della voce eterna, divina, incapace di rispondere. Tutto è vuoto. E in questo senso Bertoni sembra richiamarsi a L’ombra e la grazia di Simone Weil. «Aimer la vérité signifie supporter le vide, et par suite accepter la mort»; amare la verità, scrive la filosofa francese, significa sopportare il vuoto, e quindi accettare la morte. Quella morte che è vita, che è anche parte integrante della vita, e che dunque in quanto vitale si muove. Il vuoto è qui per la Weil – e anche per Bertoni – origine di senso, perché è grazie al vuoto se la vita si espande, assume nuove forme. Il vuoto è lo spazio entro cui si rende possibile il movimento. Se tutto fosse pieno, infatti, se l’io stesse ovunque, se il senso riempisse lo spazio, non ci sarebbe più posto nemmeno per la domanda. Tutto sarebbe chiaro e distinto, la verità apparirebbe nella sua accecante presenza. Mentre è proprio il vuoto di
senso, è l’assenza di questa luce a consentire l’interrogativo. E l’uomo, sembra dirci Bertoni, l’uomo che non rincorre la pienezza e non si affida a garanzie – perché sa che non esistono verità incontrovertibili da sbandierare – è certamente fragile, ma al tempo stesso capace di stupore e di poesia. È capace di mancare all’appello, di retrocedere, di non rispondere alla domanda e restare impigliato nel suo dubbio lacerante.

Accettare un vuoto in se stessi, scrive ancora la Weil, è una cosa sovrannaturale. Perché l’uomo di suo, per una necessità di natura, è come un gas, sempre pronto a esercitare tutto il potere di cui dispone. Ma qui no. In questi fragili e potenti “Areopoemi”, l’uomo frana, indietreggia, lascia che il vuoto gli si produca dentro come una slabbratura, una ferita da cui sgorga ogni desiderio, ogni mancanza, ogni disperata ricerca di senso. E la ricerca è disperata perché è speranza che spera l’impossibile; spera oltre ogni ragionevole speranza che un senso – seppur fragile – si dia. E se anche il senso definito e stabile non c’è, ognuno di noi, vivendo, dà comunque una risposta, indica una strada possibile, e colma di grazia e splendore il proprio quotidiano. Ebbene questa grazia e questo splendore, ci suggerisce la Weil, possono riempirci i giorni proprio perché c’è il vuoto attorno a fargli spazio. Lo splendore del senso entra solo laddove c’è un vuoto pronto a riceverla. 

E nella poesia “All’infinito”, Alberto Bertoni sembra dirci la stessa cosa. La vita è un susseguirsi di vicende a cui si risponde d’istinto. E l’istinto è quel fatto, quel dato che si innesca quasi per miracolo: un miracolo terreno, s’intende; un miracolo in cui passano luccichii improvvisi, ma senza che dietro resti niente di metafisico. Cioè senza niente a sorreggere il clamore sorprendente dell’esistere. Un esistere che appare ritmico e ripetitivo, in una sorta di eterno ritorno privo di senso, come «quando riappare l’uomo / a cavallo del trattore / non per scelta o vocazione / pronto a ripetere il suo giro / fin quasi all’infinito». L’uomo, in questo ripetersi dei giorni, sta lì «non per scelta o vocazione»; sta lì come una cosa buttata che invece di vivere, viene vissuta. È come se Bertoni voglia dirci che la vita caschi addosso a un esserci inconsapevole. Inconsapevole di sé e del mondo. E questa inconsapevolezza, nostra ferita originaria, può forse però essere colmata dal sogno. Ma non da un sogno placido e tranquillo, bensì ansioso: perché a sorreggerlo, ancora una volta, resta solo il vuoto di senso che ci pervade ovunque e si estende fino all’infinito.

Nel componimento “Il racconto del topo flautista” Bertoni torna ai suoi topoi letterari, ai suoi animali che se ne vanno a frotte o solitari per le vie di quel mondo ormai irriconoscibile, in cui ognuno di noi non può far altro che ammettere di sentirsi soltanto un uomo «adatto a conquistare / l’assoluto non essere che sono» (da “L’isola dei topi”, Einaudi 2021). Senza alcuna metafisica stabile a cui appigliarsi, privo di direzione, l’uomo è come un topo fallito, incapace di dar voce a una plausibile narrazione, di sostenere le premesse, le sue speranze. È questo l’uomo che emerge dalle macerie post-moderne, è l’uomo privo di punti di riferimento, sotto scacco – direbbe Kierkegaard – e incapace di farsi strada. Nel leggere questi versi amari e fragili che delineano il profilo di un tragico topo flautista, mi tornano alla mente le parole de Il suonatore Jones di Fabrizio de André. Anche lì, dopo i sogni di libertà e il desiderio d’amore, va a finire con i campi alle ortiche e un flauto spezzato. Ovvero con il sogno che si infrange su un vuoto di realtà. E nella poesia di Bertoni tutto sembra smarrirsi in questa assenza di misura; resta solo l’ippica,
con il suo desiderio del traguardo – e quindi anche del limite – a dare un senso trascendente – non necessariamente divino – a questo stare al mondo. 

E il limite, il confine, rimanda – forse in senso psicoanalitico? – al padre: ovvero, a colui che fornisce l’orrizzonte e il senso all’esistere. Così il topo-Bertoni, oggi anziano, ripensando al padre – normativo – è pronto ad attendere «la fine ormai prossima del volo», che pur restando incomprensibile, diventa perlomeno dicibile alla luce del ricordo. E il volo e il vuoto tornano a pervadere lo spazio esistenziale del poeta anche “Sul volo Varsavia Bologna”. Il volo che ha nel suo significato più profondo una ambivalenza: si vola quando si sogna, ci si libra in volo spensierati, ma al tempo stesso il volo può essere anche angosciante, doloroso. Ed è, in
quest’ultimo senso, preludio del vortice che inghiotte nella voragine. Il tema non è di passaggio, dal momento che l’eco di questi significati giunge fino a Siberia, quarto componimento della raccolta. Qui il vuoto e il volo si rimandano a vicenda. Il vuoto anticipa lo schianto, il precipizio, e ci spinge verso l’ombra «che tutti ci contiene».

Non c’è un dio, non c’è una verità, siamo ombre stipate in una caverna (quasi come gli schiavi incatenati di cui parla Platone), incapaci di dire come stanno davvero le cose, perché non c’è niente che resiste allo sfaldamento; niente che si possa pronunciare sul serio. E il limite del linguaggio, il suo confine, la sua possibilità di dire sono al centro della poesia che chiude la raccolta: Ma Dio è poeta. Dio, l’indicibile, è «questa nuvola orlata di rosa» o forse un poeta romantico già estinto che non ha più voce: o se ce l’ha, magari nessuno più la ascolta. In questi versi Bertoni si inserisce filosoficamente oltre Nietzsche. Qui non si tratta più nemmeno di stabilire se Dio è morto. Qui il problema è che Dio, posto che esista, non ha voce. È un Dio che non parla, che non può parlare, e che forse è un po’ poeta: così, incapace di dire come sta il mondo, balbetta qualcosa e tenta di dire ciò che non si può dire con un filo di voce impercettibile.

Da queste mie considerazioni, che comprendo essere cursorie, probabilmente superficiali e a volo d’uccello, emerge tuttavia in modo molto chiaro come la poesia di Bertoni si specchi dentro la migliore filosofia fragile del nostro tempo. Dentro quella filosofia, per intenderci, consapevole del fatto che non c’è alcuna verità oggettiva da mostrare, perché la verità non è un oggetto che sta lì davanti a noi, ma semmai sta dentro di noi, e quindi socraticamente il compito che abbiamo è di farla uscire in qualche modo la verità, sussurrandola, senza conoscere la direzione, l’orizzonte e privi di meta. L’uomo-topo-poeta deve in un certo senso farsi dio, deve farsi nuvola orlata di rosa per provare a dire ciò che non si può dire, per provare a toccare l’infinito e l’insensatezza dell’esistere, galleggiando come un naufrago alla deriva fra le onde di un mare vuoto.  Bertoni non dà speranze, non fornisce mappe, non suggerisce vie. La via è la vita. La via è fare i conti con il proprio quotidiano, coi propri limiti, coi propri padri: quelli in cui ci si specchia e grazie ai quali matura coscienza di sé. Il resto non conta. E non conta perché non c’è. Ogni cosa, ogni fatto è inconsistente. Con questi suoi cinque “Areopoemi”, il poeta-filosofo Bertoni fonda così la sua metafisica del non-essere, che sta a indicarci come questa stupefacente realtà quotidiana che abitiamo sia sorretta da una silenziosa ontologia del vuoto. Tutto è vuoto. Tutto esiste a partire dal vuoto e s’invera nel vuoto. Niente resiste. Nemmeno la poesia, che mentre dice si ritrae, scorrendo inesorabilmente verso un chissà dove di splendore e meraviglia.