Mania di solitudine

da | Dic 10, 2023

Mangio un poco di cena alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stanno mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.

Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliegie, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che tra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi, e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.

Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusìo di silenzio.
Ogni cosa nel buio la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.

Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi sussurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontana dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.

Cesare Pavese è nato a Santo Stefano Belbo nel 1908 ed è morto a Torino nel 1950. Ha svolto un ruolo essenziale nel passaggio tra la cultura degli anni Trenta e la nuova cultura democratica del dopoguerra. La sua partecipazione al presente si è sempre legata a un profondo senso della contraddizione tra letteratura e impegno politico. I suoi inizi di poeta si hanno con Lavorare stanca (1936) che, nata in clima ermetico-decadente, tende a superarne l'ossessivo soggettivismo mediante la proiezione oggettiva di quelli che sono e più saranno i temi di fondo di Pavese: la ricerca di contatti umani, di incontri con la realtà quotidiana, di reimmersione nel mondo rurale da cui proviene, a difesa dalla meccanicità della vita cittadina, dalla solitudine interiore e dal congiunto pensiero della morte. Oggettivazione che, dal giro largo del verso (sull'esempio, appunto, di Whitman) alla discorsività del tono, già porta alla narrativa: e la sua opera successiva è infatti di narrazioni brevi o lunghe (non di romanzi propriamente detti) improntate a un realismo che, se risente della lezione verghiana, e più di quella letteratura nord-americana di cui frattanto Pavese si era fatto traduttore e introduttore (con Vittorini) in Italia, ha però profonde radici in quel suo amore di piemontese per la propria terra, per il linguaggio della sua gente, specie a livello contadino o operaio, da cui egli mutua vocaboli e cadenze per il frequente, agile «parlato» dei suoi racconti. Un realismo che peraltro non va disgiunto da una schietta vena di lirismo, scaturente da una memoria che, facendo centro sull'infanzia, s'innalza all'assoluto, al mito o sfocia nel simbolo; onde la sua narrativa, dopo un primo, violento balzo (quasi in polemica con la letteratura tradizionale) nel verismo più crudo, all'americana (Paesi tuoi, 1941), si svolgerà nell'alternativa di questi modi, da La spiaggia (1942) a Feria d'agosto (1946), da Il compagno (1947) e Dialoghi con Leucò (1947) a La luna e i falò (1950), da Notte di festa (post., 1953) a Festa grande (in coll. con Bianca Garufi, post. e incompiuto, 1959) a Ciau Masino (post., 1968). Non senza, certamente, squilibri e smagliature, ma molto spesso con intensità d'ispirazione e d'espressione, toccando i vertici artisticamente più alti là dove, con la mediazione di un paesaggio che è trepido contrappunto di senso (o natura) e sentimento, quei modi finiscono col convergere e compenetrarsi: come in Prima che il gallo canti (1949) e La bella estate (1949). Per dare tuttavia luogo, alla fine, quando vicende intime rafforzeranno, senza scampo, il pessimismo e la vocazione suicida di Pavese, di nuovo alla poesia: Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (post., 1951); ma questa volta lontana dalla prosasticità di Lavorare stanca, per quanto è vicina alla lirica «pura», anzi alla pura liricità. Testimonianza importante non pure del suo travaglio intellettuale e morale, ma di quello di tutta una generazione e un'età, sono anche gli scritti critici di Pavese (La letteratura americana e altri saggi, post., 1951), il diario (Il mestiere di vivere, post., 1952), e soprattutto l'epistolario (Lettere, 2 voll., 1966: I, 1924-1944, a cura di L. Mondo; II, 1945-1950, a cura di Italo Calvino). La sua opera, pubblicata dall'editore Einaudi, è ora raccolta in 14 volumi.