Roberto Bazlen, consulente di lungo corso

da | Giu 17, 2014 | Senza categoria

La figura di Roberto Bazlen resta a oggi una delle più intrise di aneddotica, eppure sconosciute, del Novecento italiano. In realtà, la storia di questo consulente editoriale dalle letture onnivore e dalla personalità umbratile permette di illuminare molti aspetti della cultura del secolo scorso: è una storia di scoperte librarie, di incontri, di amicizie e incomprensioni, di stimoli culturali che videro una realizzazione per lo più postuma. Il suo inizio è a Trieste, dove Bazlen nasce nel 1902: dato biografico non secondario, perché proprio nella città di frontiera, a quel tempo ancora absburgica, il giovane intellettuale entra in contatto con personaggi che ne influenzeranno in maniera decisiva la personalità, e che nondimeno usciranno cambiati dal suo ascendente. Ancora diciassettenne, nella libreria antiquaria di Saba, testa il proprio ruolo di consigliere nell’ombra, quando non di vero e proprio maieuta e artefice di scelte editoriali e letterarie. È a lui che, nel 1925, Montale deve la conoscenza di Svevo e l’incoraggiamento a scrivere una serie di recensioni che finalmente porteranno il romanziere a una qualche notorietà. Proprio con il padre degli Ossi di seppia il consulente dà vita al primo degli atipici sodalizi che costelleranno la sua vita: Montale recepisce i consigli di lettura del giovane amico, concentrati su autori europei ancora ignoti per un – seppure aggiornato – intellettuale italiano. Nemmeno le critiche, anche aspre, che il giovane Bazlen dispensa all’autorevole amico («le brevi (Ossi di s.) non mi dicono granché, e mi sembrano, spesso, formalmente ingenue», recita una lettera) riusciranno a intaccare il legame fra i due.

È sempre a Trieste – e nella ricerca che i suoi scrittori compiono in direzione di una letteratura “locale”, intesa in senso fortemente identitario – che Bazlen modella i capisaldi del proprio pensiero e matura un gusto che tradurrà poi in proposta editoriale per i lettori italiani: è triestina l’idea di una letteratura del tutto aliena ai dettami imposti dalla filosofia crociana, dunque indirizzata alla valorizzazione del contenuto contro la forma, della letteratura come “vita” contro la letteratura come “mestiere”, vuota scatola formale incapace di avvincere il lettore. Per autori quali Saba, Stuparich, Slataper, e per Bazlen nella sua lunga carriera di consulente editoriale, lo scrivere scaturisce insomma da un’urgenza, non è esercizio di stile ma risposta a un bisogno spontaneamente percepito. Se nel 1934 il consulente abbandona la città natale e la rinnega imputandole un eccessivo provincialismo, è però impossibile non percepire l’eco della cultura triestina nella «primavoltità», formula da lui coniata per designare quell’emersione genuina della scrittura dal vissuto, libera da orpelli stilistici, che determina il valore di un testo ed è decisiva per la sua pubblicazione. Proprio la coscienza della sua rarità spinge Bazlen a voltare le spalle alla scrittura, cercando in altri ciò che per lui dovrebbe identificare uno scrittore: «ha qualcosa da dire; quello che ha dire è vissuto, è suo; lo dice con parole sue, chiare». Il capitano di lungo corso, romanzo volutamente incompiuto e pubblicato postumo, illustra in chiave metaforica la decisione di abdicare al ruolo di autore. D’ora in poi gli estri scrittori di Bazlen saranno delegati alle lettere editoriali, trasformate dalla sua penna in un vero genere letterario. Tra riflessioni disincantate sulla società contemporanea e narrazioni autobiografiche, esse tradiscono un rapporto con i libri sanguigno e costellato di passioni e ripulse, a volte anche clamorose (La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn è una «lavatura di piatti», Il gattopardo «un technicolor scritto da e per gente per bene»).

Oltre a una peculiare concezione del ruolo della scrittura, dal mondo culturale di Trieste viene raccolta una novità rivoluzionaria come la psicoanalisi freudiana, che approda nella città nel primo dopoguerra, attecchendo per lo più nell’ambiente ebraico, al quale Bazlen, ebreo non praticante, era molto vicino. Accanto alla spinta psicoanalitica in direzione di una scrittura autobiografica – aderente il più possibile al reale, e perciò capace di far scricchiolare le fondamenta della crociana autonomia dell’arte – dall’humus triestino vengono recepite le opere maggiori della letteratura mitteleuropea, alle prese con la traumatica rielaborazione del dissolvimento dell’Impero absburgico. Esse vengono recuperate da Bazlen in lingua originale, con largo anticipo rispetto agli altri intellettuali italiani, nelle bancarelle triestine, al momento dell’abbandono, da parte della popolazione di lingua tedesca, di una terra divenuta italiana. Dal tramonto della Trieste absburgica Bazlen non trae tuttavia solo preziosità librarie, ma anche la ferma consapevolezza dell’inerzia della cultura italiana: «se la situazione fosse stata l’inversa, e se ne fossero andati gli italiani, le bancarelle si sarebbero sfasciate sotto il peso di Carducci Pascoli d’Annunzio e Sem Benelli, […] e di altra gente che portava male», scrive nell’Intervista su Trieste, raccolta da Adelphi, insieme a molte lettere editoriali, nel volume degli Scritti.

Il bagaglio col quale Bazlen lascia Trieste, per trasferirsi, dopo un periodo milanese, a Roma, è dunque pressoché unico per un intellettuale che si muove nell’ambiente culturale italiano: un ambiente soffocato dal fascismo, impigrito dal magistero crociano, segnato da arretratezze e neofobie. Proprio allo svecchiamento della cultura italiana Bazlen dedica le prime energie investite nell’attività editoriale: nel 1938 avviene infatti l’incontro con Adriano Olivetti, altro interlocutore d’eccezione con il quale ebbe più che qualche sporadico contatto. Prima a Milano e poi a Ivrea, cuore dell’attività olivettiana, viene elaborato il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea, pensate per affermarsi pienamente alla caduta del fascismo. Rimaste purtroppo ferme alla fase di ideazione, perché superate dalle ben più note Edizioni di Comunità, esse valgono tuttavia come luminoso esempio del brulichio intellettuale di quegli anni. Da Olivetti viene l’idea primaria della casa editrice e l’aspirazione a una cultura finalmente antifascista; da Bazlen, collaboratore principale dell’iniziativa, arrivano le proposte di pubblicazione, sotto forma di miriadi di foglietti zeppi di titoli inviati dal suo minuscolo appartamento romano in via Margutta. I pochi documenti che restano a testimoniare il progetto riportano l’immagine di un consulente editoriale febbrilmente attivo e propositivo: a Olivetti vengono raccomandati molti testi di psicologia e psicoanalisi, non solo quella freudiana (nel cui rifiuto convergevano la politica antisemita del regime, la filosofia crociana e la dottrina cattolica), ma soprattutto quella junghiana, che presto cattura in maniera privilegiata gli interessi di Bazlen, portandolo a includere fra le sue proposte anche opere di storia delle religioni e del pensiero orientale, antropologia, etnologia. A rivitalizzare l’asfittica cultura italiana sono chiamati inoltre testi di natura testimoniale come autobiografie, biografie ed epistolari, accanto alle opere di alcuni fra i maggiori autori della letteratura mitteleuropea, quali Rilke e Hofmannsthal.

Il progetto delle Nuove Edizioni Ivrea viene presto abbandonato: molti dei titoli che avrebbero dovuto costituirne il catalogo, però, non vengono dimenticati, ma anzi costituiscono un corpus di letture ritenute imprescindibili, le cui tracce si possono rinvenire nella maggior parte delle collaborazioni future. Nel pieno del dopoguerra, per esempio, gli scritti di Freud e Jung cominciano a circolare in Italia anche grazie a Bazlen, che favorisce l’incontro fra Ernst Bernhard, autorevole allievo di Jung, e la casa editrice romana Astrolabio. Così nasce «Psiche e coscienza», collana decisiva nella storia della diffusione della psicoanalisi nel nostro paese, che vedrà la collaborazione, oltre che dello stesso Bazlen (il quale si impegnò anche in diverse traduzioni), di Edoardo Weiss, pioniere della psicoanalisi freudiana a Trieste, dove il giovane consulente si era sottoposto alla sua analisi. Nonostante il fallimento della terapia, che non era riuscita a sconfiggere i disturbi che lo affliggevano, e soprattutto nonostante le riserve che ormai nutre nei confronti del pensiero di Freud, è significativa la lucidità con la quale Bazlen si accosta al nuovo progetto. Una consapevolezza lo accompagna, in questa e in molte future occasioni: i libri che propone arrivano al pubblico italiano in irrimediabile ritardo, eppure proprio in questo risiede la loro necessità e il loro valore. Per Bazlen, che conosce la sua opera da vent’anni, il Freud pubblicato da Astrolabio non è ormai nient’altro che «uno scienziato del diciannovesimo secolo». Ma al momento di presentare la pubblicazione delle Lezioni introduttive allo studio della psicoanalisi, ciò che gli interessa è rivolgersi alla «generazione che da anni non trova nelle librerie quest’opera classica»: per essa, «il volume sarà una rivelazione».

È con l’Einaudi di Pavese, Calvino e Vittorini che si realizza la collaborazione più duratura, e insieme, paradossalmente, più votata all’insuccesso. Dal 1959, senza muoversi da Roma, dunque scegliendo consapevolmente una posizione defilata rispetto all’intensissima attività dell’Einaudi di quegli anni, il consulente invia le proprie proposte tramite fitte lettere editoriali, il cui destinatario privilegiato, e insieme più aperto, è l’amico forse più stretto di tutta la vita, Luciano Foà, che già aveva condiviso alcune tappe fondamentali della carriera di Bazlen: sia le Nuove Edizioni Ivrea, per le quali era stato l’attento recettore dei foglietti inviati da via Margutta, sia l’Agenzia Letteraria Internazionale, fondata dal padre, alla quale Bazlen aveva prestato la sua consulenza. Nel 1951, quando approda all’Einaudi, Foà cede il proprio posto nell’agenzia paterna a Erich Linder, un altro protagonista della storia editoriale del Novecento e della vita stessa di Bazlen. Nell’importante ruolo di segretario generale della casa torinese, si impegna a valorizzare le proposte dell’amico, basate tanto su nuovi progetti quanto sugli ambiti culturali privilegiati.

Moltissimi sono gli autori attinti dal serbatoio mitteleuropeo: oltre a Broch, Hölderlin, Rilke, spicca il parere di lettura, rimasto celebre, relativo all’Uomo senza qualità di Musil. Il monumentale romanzo è «1) troppo lungo 2) troppo frammentario 3) troppo lento (o noioso, o difficile, […]) 4) troppo austriaco», eppure «va pubblicato a occhi chiusi». Quello che spinge infine Bazlen, pur tra mille riserve, a promuoverne la pubblicazione (che in effetti avverrà, nel 1957, all’interno dei Supercoralli), è la capacità di Musil di includere il lettore in un mondo che gli è sconosciuto, di accendere in chi legge una forma di compartecipazione, ingrediente imprescindibile per un libro degno di essere pubblicato: «ti succede che attraverso questi interminabili dialoghi, saggi, trattati, feuilletons, – e dopo esserti abbondantemente irritato e annoiato – ti si forma lentamente un mondo vivissimo […], che l’azione, della quale non ti sei accorto, fila che è un gusto, e che non ti sei annoiato, ma che ti sei divertito, che hai compartecipato, che per due mesi sei vissuto in parte di quel mondo, e che ti sei innamorato di Agathe, sorella dell’uomo senza qualità».

A queste suggestioni il comitato delle riunioni del mercoledì non è del tutto sordo, complice anche la forza persuasiva che il consulente riesce a immettere nelle sue lettere. Ma si tratta di un caso. Il resto della collaborazione con la casa torinese, durata fino all’inizio degli anni Sessanta, è un susseguirsi di rifiuti, diffidenze, progetti abortiti: le proposte di Bazlen, infatti, sono fiaccate dall’incolmabile distanza che le separa dall’impegno einaudiano, lontano dall’interesse del consulente per l’autobiografia e l’indagine del sé, ma soprattutto estraneo all’attenzione da lui riservata al campo dell’irrazionale e, non di rado, del misterico e del magico, naturali addentellati del pensiero junghiano.

Ed è così che la «Collezione dell’Io», formulazione finale di una serie di proposte per una nuova collana, viene bocciata, alla fine degli anni Cinquanta, niente meno che da Italo Calvino, il quale, in una serie di lettere a Giulio Einaudi sull’argomento, mette in guardia contro gli «sconfinamenti spiritualistici» che le proposte editoriali di Bazlen possono comportare, ma anche invita il consulente a instaurare un dibattito sul tema. Dando nuova prova del suo carattere sfuggente ed enigmatico, Bazlen non fornirà mai gli appunti richiesti da Calvino affinché da un disordinato elenco di titoli, per la gran parte sconosciuti e potenzialmente “sospetti”, emerga «una linea di ricerca». Alla diffidenza einaudiana, dunque, risponde la tendenza del consulente a ritrarsi e a lasciare in sospeso i propri progetti. Forse non è solo agli attriti con l’editore, ma anche alla sua invincibile vocazione all’anonimato e alla riservatezza, che si deve la scelta di occultare sotto lo pseudonimo Lorenzo Bassi le non poche traduzioni svolte per l’editore (tra le altre, Eros e civiltà di Marcuse, una raccolta di racconti di William Carlos Williams e Gli affari del signor Giulio Cesare di Bertolt Brecht).

Tra rifiuti degli editori e ritrosia del consulente, come valutare allora l’effettiva incidenza sulla cultura italiana di un personaggio così singolare? Al di là delle mitologie, ciò che resta in maniera meno visibile, eppure indelebile, è un influsso per lo più postumo. Già nel 1962, infatti, quando l’estraneità all’Einaudi si è resa ormai invalicabile, segue l’amico Foà da Torino a Milano, dove a opera loro e di altri investitori viene fondata Adelphi: anche in questo caso Bazlen si dedica alla stesura di fluviali pareri di lettura, finalmente rivolti a una casa editrice che, essendo frutto di un progetto nato in buona parte da lui, dà spazio alle sue suggestioni. Sin dagli esordi, e per un lungo periodo dopo la sua morte – avvenuta prematuramente a Milano nel 1965 – il catalogo adelphiano reca traccia (soprattutto all’interno della Biblioteca e della Piccola Biblioteca Adelphi, che non a caso ricalcano la struttura di alcuni progetti rifiutati da Einaudi) delle predilezioni di Bazlen. Ma non si tratta solo di nuove proposte: nel catalogo della casa editrice milanese trovano infatti il loro punto d’approdo anche titoli provenienti dai negletti pareri di lettura di molti anni prima. Solo una casa editrice che elegge come interlocutore un lettore dai gusti ricercati ed elitari poteva valorizzare appieno la proposta di un intellettuale unico e idiosincratico, che già negli anni Venti, a Montale che gli proponeva una collaborazione con una rivista, rispondeva: «Siete matti di volermi far collaborare a una rivista? Io sono una persona per bene che passa quasi tutto il suo tempo a letto, fumando e leggendo […]. Per di più, manco completamente di spirito messianico divulgativo».

Mario de Laurentiis (Napoli 1969 – Segrate 2666).