Il sangue amaro

da | Apr 9, 2014

Il sangue amaro è l’ultima raccolta di Valerio Magrelli (Einaudi, 2014). Di seguito tre poesie seguite da una recensione di Giorgio Meledandri.

PAGLIARANI SUL NIAGARA

Parlavi dei bambini,
dicevi della loro furia molecolare,
davanti alla cascata,
anzi, dietro il suo velo,
dentro un cunicolo scavato nella roccia
per sbucare sul retro delle acque.

Al buio, fra la guazza,
con quel film bianco che scorreva in fondo
velando il mondo,
come ficcati dentro un ombelico,
parlavi della nascita,
descrivevi la nascita,
affidavi alla nascita
la parola segreta di ogni storia:

CONTINUA.

*

Natale, credo, scada il bollino blu
del motorino, il canone URAR TV,
poi l’ICI e in più il secondo
acconto IRPEF – o era INRI?
La password, il codice utente, PIN e PUK
sono le nostre dolcissime metastasi.
Ciò è bene, perchè io amo i contributi,
l’anestesia, l’anagrafe telematica,
ma sento che qualcosa è andato perso
e insieme che il dolore mi è rimasto
mentre mi prende acuta nostalgia
per una forma di vita estinta: la mia.

*

L’ETA’ DELLA TAGLIOLA

Su una fotografia di Milena Barberis

Per prima cosa ho visto tre ragazze,
dopo ho intuito che era una soltanto
moltiplicata.
Finché ho capito che ogni ragazza
ne contiene altre due,
fiore con tre corolle, equazione a tre incognite.
Avere quell’età, significa sostare innanzi a un bivio:
da un lato sta il passato appena prossimo,
dall’altro un futuro duale – scelta,
biforcazione, sesso, forbice.
Chi cresce, chi adolesce, si divide
e per andare avanti deve amputarsi
come fa la volpe, che stacca la sua zampa
presa nella tagliola.

***

Perché leggere un libro di versi oggi, nel 2014? Le motivazioni, valide o no, con cui si può incoraggiare o viceversa ostacolare un simile gesto sono potenzialmente infinite. Però, volendo cercare una ragione di ordine pratico per frequentare la poesia, forse questa è sufficiente: l’opportunità di fare un’esperienza del linguaggio estremamente diversa da quelle usuali nella società contemporanea, dove – come scrive Giorgio Agamben – «da una parte sta […] il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e a nuda vita, e, dall’altra, il parlante, separato artificiosamente da esso, attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un’esperienza della parola sempre più vana». In questo quadro il poeta, per concorrere nel ridare consistenza alla parola, può provare a ricostituire il legame che unisce il linguaggio alla sua dimensione etica, politica – cioè alla sua dimensione prettamente umana.

Per chi ha il desiderio di guardare un poeta all’opera, intento a restaurare quel legame, la lettura della raccolta Il sangue amaro (Einaudi, 2014) di Valerio Magrelli sarà sicuramente proficua. Sfogliandone le pagine, vengono sùbito in mente le parole con cui Antonio Porta introduceva l’autore, all’epoca venticinquenne, sull’Almanacco dello Specchio n. 10: «Come tutti i poeti dotati di radici ben coltivate e profonde Valerio Magrelli si rinnova, perché così si deve ancora dire, nella propria tradizione». La scrittura di questo poeta infatti – per usare un’immagine biologica a lui cara – si presenta oggi come lo stesso organismo di sempre, tanto da poter ricevere numerosi apporti endogeni (più di un testo, con o senza modifiche, è trasmigrato nel Sangue amaro da altri libri di poesie e di prose dell’autore), ma è allo stesso tempo un organismo cresciuto, diverso, nuovo: un corpo che ha cambiato tutte o quasi le sue cellule. Avvenuta la metamorfosi, dopo il nuovo innesto, l’opera poetica di Magrelli può essere paragonata con una certa approssimazione a un doppio trittico: nel primo – costituito da Ora serrata retinae (Feltrinelli, 1980), Nature e venature (Mondadori, 1987) ed Esercizi di tiptologia (Mondadori, 1992) – abbiamo osservato il soggetto rapportarsi con gli oggetti, considerati quasi animisticamente nella loro vitalità e significatività, e dare luogo attraverso tale rapporto a un’autoscopia, un’analisi di sé, adottando un approccio percettivo-cognitivo; nel secondo – che consta di Didascalie per la lettura di un giornale (Einaudi, 1999), Disturbi del sistema binario (Einaudi, 2006) e, appunto, Il sangue amaro – questo stesso approccio è usato per indagare, mediante la propria soggettività, l’altro da sé, recuperando una prospettiva storica che aveva iniziato ad affiorare a partire dal secondo libro, con un graduale allargamento del campo visivo: ecco allora la famiglia, la società, il mondo. In entrambe le serie la razionalità geometrizzante degli inizi, rispondente al bisogno di ordine, di controllo della materia e di una sua sistematica organizzazione (la rigida specularità e compattezza delle due sezioni di Ora serrata retinae, il vincolo imposto dal progetto di glossare scrupolosamente tutte le parti di un quotidiano nelle Didascalie), comincia a entrare in crisi, a mostrare, pur resistendo, i segni di un’inquietudine (le «venature», i «disturbi»), e infine cede, esplorando in modo aperto le ferite procurate da un universo caotico che la mente non potrà più strutturare in un cosmo ma soltanto rappresentare o analizzare a frammenti.

Non deve meravigliare, dunque, che i Disturbi del sistema binario fossero suggellati da un addio alla lingua con cui l’autore prendeva atto di essere entrato «in un’età del ferro, del silenzio»: solo dopo essersi arresi all’evidenza dello scollamento tra etica e linguaggio, tra etica e vita, sarebbe stato possibile, in futuro, ricominciare a parlare. E Il sangue amaro non può che iniziare da quattro coppie di nomi propri, cioè dalle parole che secondo Derrida permettono a una lingua di esistere. Con la sua solita abilità nel mettere in comunicazione galassie distanti e altrimenti non intersecabili, nel favorire lo scambio osmotico e paradossale tra gli opposti, l’autore propone innanzitutto due divertissements in forma di sonetto elisabettiano (Due artisti francesi, pp. 4-5): quando Nicole Minetti, «composto di carbonio, rossetto, silicone» e «angelico complesso / di sesso sesso sesso sesso sesso», compare sulla scena come una creatura della body artist ORLAN, mentre l’io lirico, ottuso amante sublunare (per dirla con John Donne), deve riconoscersi suo malgrado attratto da lei e dalla sua «pelle-valuta», capiamo immediatamente che a pararsi davanti a noi è il nostro tempo in tutta la sua inquietudine e conflittualità, un tempo che scaturisce dalla frizione tra senso e non-senso, alto e basso, istinto e intelletto. Non si tratta, perciò, di semplici momenti ludici o versi d’occasione: qui e in séguito Magrelli è mosso da quelle istanze oppositive a cui ha risposto in passato, risponde oggi e – si presume – risponderà in futuro, tant’è che alcuni spunti riescono a rendere manifeste le ragioni di un intero percorso: è il caso, per esempio, del componimento in memoria di Edoardo Sanguineti, che, nella divaricazione e lo sdoppiamento delle immagini, si trasforma in un acrostico contenente il nome di Mike Bongiorno, pastore delle merci e, in una precedente stesura, «Dio-presentatore». Indignato per gli onori post mortem riservati dalle istituzioni italiane al conduttore televisivo – onori eccessivi rispetto a quelli, quasi nulli, tributati al poeta genovese –, l’autore riprende le parole con cui Sanguineti descriveva le motivazioni della scrittura e le sintetizza in un motto che può essere eletto a cifra dell’opera in versi dello stesso Magrelli: «Poesia, / Ossia: metà cultura, metà idiosincrasia» (Due poeti italiani, p. 7).

E in effetti i testi del Sangue amaro appaiono più che mai scritti per idiosincrasia, per reazione a un presente che ci aggredisce e fa apparire la vita un’infezione trasmessa di padre in figlio (cfr. Il traditore, p. 32). Così, le poesie di Otto volte Natale sviluppano il tema della festività cristiana in maniera anticonvenzionale, più per stigmatizzare che per celebrare: si esprime una «acuta nostalgia» per l’essere umano (p. 15), che le scadenze fiscali e i codici di accesso ai servizi delle nuove tecnologie, con le loro algide sigle (URAR TV, ICI, IRPEF, PIN, PUK), snaturano ed estinguono non solo psichicamente ma quasi biologicamente, crocifiggendolo (e infatti nell’elenco delle imposte figura il titulus Crucis INRI); si dà voce alla convinzione che, dato il dolore del vivere, il vero sacrificio di Gesù Cristo stia nella sua nascita, non nella crocifissione (Natale delle Ceneri: un monologo, p. 16), e che di conseguenza sia quanto mai lecito il diritto dell’uomo alla «Santa Eutanasia, / nostro natale, auto-eucarestia», anche sulla scorta delle riflessioni sul suicidio che Montaigne (citato in esergo) svolge nel terzo capitolo del secondo libro degli Essais (Usanza dell’Isola di Ceo, p. 17); si informa in stile burocratico che dal giorno di Natale non si pretende niente, essendo Dio un «arto fantasma» e la Chiesa un «Ufficio Reclami […] privo del suo diretto Responsabile» (E per conoscenza, p. 22).

Ma è nella terza sezione (Timore e tremore) che inizia a definirsi con chiarezza il rapporto dell’io con le storture di una realtà inesorabile, sempre più invadente. Esemplari, in questo senso, i versi in metrica «barbara» a p. 25 (Le piume, lo sterco):

Da una finestra aperta non entra soltanto la luce;
a volte può entrare dell’altro che non avresti voluto.
Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola
in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato,
quell’unico spazio che resta di qua dalla finestra.

Nel momento in cui ci si apre al mondo, si scopre che il male, il carattere patologico o ripugnante (leitmotiv sin da Ora serrata retinae), non interessa più esclusivamente il singolo ma l’intera società: come ha dichiarato il poeta in un’intervista, la malattia che era localizzata in un solo organo si è estesa adesso a tutto il corpo. Dunque, nel registrare tale crisi con un tono medio (ma incline all’ironia e al sarcasmo da un lato, alla tenerezza dall’altro), Magrelli comunica in modi non tragici e tantomeno patetici tutta la tragicità dell’esistenza. Ne viene fuori il ritratto di un soggetto intento al confronto (che si evolve in incontro o in scontro) con l’altro, e tuttavia ineluttabilmente solo nella sua resistenza alle ostilità esterne, catturato come tutti nel flusso implacabile dei giorni in cui si assume il ruolo quasi eterno di «testimone alle nozze / fra la Mancanza e la Ripetizione» (p. 134).
Il motivo dello scorrere del tempo è prima esplicitato in un calendario in versi, poi viene inscritto nelle più vaste allegorie del fiume e della circolazione sanguigna. In Annopenanno. Un calendario la descrizione dei dodici mesi, paragonati alle «dodici note di un piano» (Premessa, p. 59), illustra bene le piccole e grandi sofferenze quotidiane, senza però escludere oasi di tranquillità minuta – come «il cartone bianco / che tiene in piega le camicie», capace di sembrare, il giorno dopo l’attentato alle Torri Gemelle, «la colomba biblica / che salutò la fine del diluvio» (Settembre, p. 68) – né spiragli di speranza: «Ma resta il cielo a ricordarci un tempo / in cui la vita respirava piena. / Ma resta un cielo a ricordarci il tempo / in cui respirerà piena la vita» (Ottobre, p. 69). La luce costantemente agli sgoccioli delle brevi giornate di fine anno («Dicembre, il lavandino si è svuotato: / tutta la luce se ne è andata via, / finché il mese sfinito, prosciugato, / giunge al cospetto di Santa Lucia. // Nel tenebrore della siccità / le mattinate sgocciolano notte», Dicembre, p. 71) richiama l’elemento acquatico, centrale nella scrittura di Magrelli e protagonista in questo libro di un poemetto intitolato La lezione del fiume in rondinets irregolari. Qui, dove la forma chiusa è ridotta in componimento di dodici versi dalla metrica libera, l’autore riesce a trarre una morale da ogni aspetto del fiume (inteso come realtà e come concetto), nonché dalle sue varianti (autolavaggio, acquapark, tubature domestiche) e dai suoi ‘accessori’ artificiali (argini, ponti, dighe, chiuse, ecc.). Poi, una volta che nel Congedo il fluire è stato espressamente indicato come emblema della condizione umana («Ecco, noi tutti siamo un sistema fluviale / che cessa quando cessa la sua fonte, / e nasce dal disgelo delle vette, dove è il regno del cuore», p. 113), l’acqua lascia il posto al sangue nell’ultima sezione, eponima della raccolta, dove il poeta si presenta in veste di ‘produttore’ di sangue amaro durante una sorta di spot: «Io faccio Sangue Amaro. / Io mi faccio il Sangue Amaro. / È una specialità della casa, sin dal lontano 1957» (Sangue Amaro, p. 125). Relazionandosi con una realtà avversa, tollerabile solo con l’ausilio di un farmaco (le gocce grazie a cui è possibile «stringere / un patto d’amore col mondo», perché consentono di reggere «l’urto / della sua illimitata ostilità» in Le nozze chimiche, p. 128), si viene còlti da quella sensazione di amarezza e di fastidio che a conti fatti non è che il sintomo di un dolore: il dolore pessimisticamente ritenuto connaturale alla vita stessa; nella chiusa, infatti, leggiamo: «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza, / la vena che riporta / il dono delle arterie alla partenza» (Sul circuito sanguigno, p. 136).

Un finale tutt’altro che inaspettato se si considerano le pagine precedenti, in cui il poeta entra in contatto con le persone e le cose intorno a lui. Tale contatto assume la forma dell’otobiografia (titolo-omaggio a Derrida), cioè dell’ascolto dell’altro come ricostruzione della propria verità, come conferma della propria identità e autobiografia. Purtroppo, però, l’atto di porgere l’orecchio si conclude quasi sempre con la rivelazione di una ferita – il rumore del phon che, per un fenomeno di pareidolia acustica, racchiude «il racconto di storie terribili, / fucilazioni, il pianto di bambini» (Rumore, fa’ silenzio!, pp. 85-86); il seppellimento, a Cahuachi, di «grandi flauti / spezzati per essere offerti alle forze dell’inframondo» dopo un tremendo terremoto (Da una notizia Ansa, p. 90) – o con la scoperta di una vera e propria mancanza – la famiglia senza cibo che maneggia fragorosamente piatti e posate per dare l’impressione «di avere qualche cosa da mangiare» (La fame, p. 87); l’anziano Totò che, diventato cieco, perde anche la voce perché, «non potendo seguire le battute, / viene doppiato» (Tombeau de Totò, p. 92). Analogamente, l’amaro umorismo di Cave! e le fotografie anticonsolatorie dei Paesaggi laziali, oltreché la sezione di argomento più scopertamente civile (Il policida), registrano un vuoto, una scomparsa: l’inchiostro simpatico con cui sarebbero stati scritti alcuni brani dei testi sacri (presunta causa delle contraddizioni della Chiesa in Illeggibilità tipografica della Buona Novella ovvero La Chiesa delebile, p. 52), il tralucere della morte da sotto il fritto misto (p. 53), l’estinzione di una lingua (Invettiva sotto una tomba etrusca, p. 118), i «giovani senza lavoro» (pp. 97-98), lo sciame di scosse sismiche che all’Aquila ha cacciato gli uomini di casa e ha messo fine alla presunzione di «credere che il mondo si potesse abitare» (Lo sciame, p. 102), gli operai morti nel rogo della ThyssenKrupp che «continueranno ad ardere» come «stoppini di carne votiva», costituendo così l’altra faccia degli amanti-stoppini stretti nell’Abbraccio degli Esercizi di tiptologia (Thyssen: per i senza parola, p. 99), sono tutte immagini in negativo della contemporaneità. E perfino il momento del contatto familiare finisce per sancire una separazione: accade in La lettura è crudele. Undici endecasillabi in forma di ipertesto, dove ciascun verso della poesia-matrice, a mo’ di link, fa accedere ad un altro testo che chiosa e completa quello originario. Con lo stesso senso di estraneità che deve aver provato Agostino davanti ad Ambrogio in un celebre episodio raccontato nelle Confessioni, l’autore guarda la moglie immersa nella lettura silenziosa; scoprendola tanto assorta da risultare inaccessibile, si rende conto che la persona fisicamente accanto a lui è presente solo in apparenza: in verità è altrove, ad una distanza che non si può colmare. La contezza di questo distacco è doppiamente dolorosa, perché l’irraggiungibilità dell’altro significa anche l’impossibilità «d’essere sradicati da sé» (p. 48), l’incapacità dell’io di conoscere la condizione del non-io; il che si traduce in un indebolimento del soggetto, condannato ad un’autoreferenzialità che lo fa implodere, che lo dissipa. L’unico spazio che sembra almeno in buona parte immune da questo pericolo è lo spazio della crescita (Piccole donne), abitato da quelle figure femminili, figlie proprie e altrui, brave a rinfrancare il presente con la loro promessa di futuro («Ho una figlia che ha voglia di cantare / e canta. / Può bastare», p. 81). Soltanto qui la mancanza può acquistare segno positivo, nella consapevolezza che si diventa adulti per una serie di sottrazioni e divisioni, attraverso la scelta di un’incognita tra le molteplici che ci si presentano davanti; per comprenderlo basta leggere L’età della tagliola (p. 75), ispirata all’omonima fotografia di Milena Barberis:

Per prima cosa ho visto tre ragazze,
dopo ho intuito che era una soltanto
moltiplicata.
Finché ho capito che ogni ragazza
ne contiene altre due,
fiore con tre corolle, equazione a tre incognite.
Avere quell’età, significa sostare innanzi a un bivio:
da un lato sta il passato appena prossimo,
dall’altro un futuro duale – scelta,
biforcazione, sesso, forbice.
Chi cresce, chi adolesce, si divide
e per andare avanti deve amputarsi
come fa la volpe, che stacca la sua zampa
presa nella tagliola.

Forse non sarà del tutto fuori luogo, a questo punto, fare riferimento a un’altra foto: Cambio di posizione (1911) di Anton Giulio Bragaglia. Lo scatto immortala gli istanti in cui un signore, seduto con le gambe accavallate e le mani che cingono un ginocchio, si curva in avanti, stringendosi la testa tra i pugni. Durante questo movimento il suo corpo si fa fluido, diventa un insieme di linee, evapora: una vera e propria smaterializzazione del soggetto. A chi sosteneva che i suoi lavori fossero esperimenti malriusciti di cronofotografia Bragaglia mostrava la lampante differenza tra quella tecnica e la propria: mentre la cronofotografia eseguiva l’analisi del movimento, lui ne realizzava la sintesi. Il sangue amaro probabilmente è proprio questo: una sintesi di come l’uomo si sposta nell’esistenza, con l’indicazione delle soste, delle scorciatoie e delle poche vie di scampo che ci sono concesse mentre percorriamo la strada dell’annichilimento. Certo, qualcuno potrà sempre rifiutare di riconoscersi in quella figura che si dissolve, o lamentarsi perché la foto è mossa, oppure ancora prendersela con il fotografo, attribuendo a lui la responsabilità del vuoto che si vede al posto di ragione e senso. Ma così si rischia di assomigliare a un paziente che, quando gli viene diagnosticato un difetto della vista, accusa il medico di aver truccato la tabella di Snellen. Si rischia, in altre parole, di chiudere gli occhi proprio nel momento in cui è importante tenerli aperti.

Giorgio Meledandri

Immagine: Opera di Milena Barberis.

Caporedattrice Poesia

Maria Borio è nata nel 1985 a Perugia. È dottore di ricerca in letteratura italiana contemporanea. Ha pubblicato le raccolte Vite unite ("XII Quaderno italiano di poesia contemporanea", Marcos y Marcos, 2015), L’altro limite (Pordenonelegge-Lietocolle, Pordenone-Faloppio, 2017) e Trasparenza (Interlinea, 2019). Ha scritto le monografie Satura. Da Montale alla lirica contemporanea (Serra, 2013) e Poetiche e individui. La poesia italiana dal 1970 al 2000 (Marsilio, 2018).